Con le direttive 1994/45 CE e 2009/38/CE, a cui è stata data attuazione con il d. legisl. n. 74/02 e n. 113/12, sono stati istituiti i Comitati Aziendali Europei nelle imprese di dimensione comunitaria, per tali intendendosi le imprese o gruppi di imprese che impiegano almeno 1000 lavoratori negli Stati membri e almeno 150 lavoratori per Stato membro in almeno due Stati membri.
Lo scopo perseguito, come esplicitato dai “considerando” e dalle singole disposizioni, è la creazione di organi permanenti, di rappresentanza dei lavoratori, attraverso i quali attuare una procedura per l’informazione e la consultazione sulle questioni di carattere trasnazionale, che riguardano tutti gli stabilimenti dell'impresa o tutti gli stabilimenti del gruppo di dimensioni comunitarie situati negli Stati membri.
E’ previsto che l’iniziativa per la negoziazione e per l’istituzione del Comitato Aziendale Europeo o della procedura per l’informazione e la consultazione debba essere assunta dalla direzione centrale dell'impresa o del gruppo e, in caso di inerzia, previa richiesta scritta di almeno 100 lavoratori, o dei loro rappresentanti, di almeno due imprese o stabilimenti situati in 2 o più Stati membri diversi. I lavoratori sono rappresentati da una Delegazione speciale di negoziazione, i cui membri sono designati dalle organizzazioni sindacali che abbiano stipulato il contratto collettivo di lavoro applicato nell’impresa o gruppo di imprese, congiuntamente con le rappresentanze sindacali unitarie dell'impresa o del gruppo di imprese, in proporzione al numero di occupati in ciascuno Stato membro dove l'impresa è presente.
Compito della Delegazione speciale è negoziare un accordo scritto con la direzione per definire il campo d'azione, la composizione, le attribuzioni e la durata del mandato del Comitato Aziendale Europeo e le modalità di attuazione della procedura per “la fornitura di dati, elementi, notizie, nonché lo scambio di opinioni e la instaurazione di un dialogo tra i rappresentanti dei lavoratori e la direzione centrale o qualsiasi altro livello di direzione più appropriato” (e i membri di questa delegazione godono della stessa protezione dei rappresentanti dei lavoratori, come previsto dalla legislazione nazionale e/o dalle prassi vigenti nello Stato in cui sono impiegati).
Sono quindi definiti presupposti, forma organizzativa e finalità del comitato aziendale, la cui attività e il cui ruolo effettivo verranno poi necessariamente a recepire e riflettere le caratteristiche specifiche delle relazioni industriali proprie dei vari Stati, fra loro talvolta assai differenti e con diversa capacità di incidere sui processi decisionali dell’impresa.
Questo è il contesto normativo in cui è stata chiamata a decidere la Corte d’Appello di Torino con la sentenza n.552 del 7.5.14, che ha riformato la decisione di rigetto della domanda di accertamento di condotta antisindacale proposta da FIOM CGIL Nazionale contro CNH Industrial NV, incorporante di FIAT Industrial spa, in relazione alla pretesa di quest’ultima, avanzata nel corso dell’incontro di negoziazione, di escludere dai membri della delegazione il rappresentante iscritto alla FIOM, in quanto sindacato non sottoscrittore del contratto collettivo nazionale applicato dall’impresa ossia del contratto che, all’esito delle note vicende, è stato siglato come contratto nazionale del settore auto da FIAT e dalle sole UILM e FIM, non da FIOM in quanto contratto comportante condizioni di lavoro peggiorative e quindi non consentito dal suo statuto.
Dopo aver risolto negativamente, in conformità alla consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva della FIOM CGIL Nazionale, essendo stata introdotta una ordinaria azione di cognizione e non ex art. 28 L n. 300/70, la Corte affronta l’altra questione preliminare sollevata dalla azienda, quella della mancanza di interesse ad agire del sindacato sotto più profili che vengono tutti disattesi.
L’interesse giuridico, concreto ed attuale, a una pronuncia di accertamento all’esatta definizione dei diritti e obblighi delle parti, quali portatrici di istanze contrapposte e parimenti tutelate sul piano costituzionale e legislativo, viene individuato nell’interesse all’accertamento della illegittimità e dell’antisindacalità del rifiuto, a danno della sola FIOM, della trattativa, condotta ostile e oggettivamente discriminatoria, idonea, attraverso lo svilimento dell’immagine dell’organizzazione e della sua forza contrattuale, a incidere negativamente in modo permanente sulla attività e libertà del sindacato, indebolendone la credibilità agli occhi dei lavoratori.
Così individuato l’interesse viene conseguentemente escluso che lo stesso, a fronte del fatto storico con effetti permanenti, possa venir meno in ragione dell’essere ormai trascorso al momento di deposito del ricorso il termine di sei mesi dalla richiesta di avvio del negoziato, con conseguente costituzione ex lege del Comitato con le modalità e competenze di cui all’art. 16 d. legisl. n. 74/02 o, analogamente, per essere trascorso il termine di tre anni per l’attivazione della procedura o per essere stata nel frattempo FIAT Industrial incorporata da CNH Industrial con sede in Olanda, con necessaria applicazione della normativa nazionale olandese per la costituzione del Comitato.
La definizione sul piano concettuale del contenuto dell’interesse ad agire diventa poi, declinata sul piano sostanziale, la base giuridica per la decisione della controversia.
Il primo passaggio, dovendo necessariamente essere seguiti i motivi di impugnazione e la prospettazione del ricorso, è la valutazione in fatto delle circostanze assunte dal giudice di primo grado come dirimenti per respingere la domanda ovvero lo stretto collegamento posto dall’azienda fra l’adesione alla proposta sindacale di allargamento al numero di tre, anziché due come per legge, dei rappresentanti sindacali italiani nella Delegazione e l’esclusione/sostituzione del membro designato iscritto alla FIOM. Con ampio riferimento ai documenti acquisiti, la Corte evidenzia l’erronea valutazione della prova, risultando testualmente, oltre che dalla corrispondenza intercorsa, anche dal verbale della riunione del 16.12.11, che le due dichiarazioni rese da parte aziendale nel corso dell’incontro avevano finalità e contenuti diversi e si collocavano su piani logici distinti ed autonomi, essendo “La seconda dichiarazione…un vero e proprio diktat da parte della FIAT Industrial, finalizzato alla esclusione della FIOM-CGIL da qualunque organo di rappresentanza interna o transnazionale dei lavoratori del Gruppo, in coerenza con altre note decisioni già assunte dall’intero Gruppo FIAT”, e ciò unicamente per non essere firmataria del CCSL.
Caduto il presupposto di fatto ne derivano immediatamente le conseguenze che già il giudice di primo grado aveva prospettato: l’indebita ingerenza di FIAT Industrial nella designazione dei componenti italiani della Delegazione, prevista normativamente quale atto congiunto delle segreterie nazionali delle OO.SS, a prescindere dalla appartenenza di ciascuno membro all’una o all’altra, senza possibilità per il datore di lavoro di ingerirsi in questo atto di autonomia sindacale e nei criteri adottati per le designazioni, pretendendo di esprimere il proprio gradimento per i componenti; l’irrilevanza in questa prospettiva della circostanza che la FIOM non abbia sottoscritto il contratto collettivo applicato dall’azienda.
La Corte chiude poi la sua decisione affrontando e confutando in diritto le tesi sostenute dall’azienda e accolte in primo grado in relazione alla liceità della condotta aziendale di subordinare o condizionare il suo consenso a un miglior trattamento, rispetto a quello normativo, all’esclusione dalla Delegazione del membro iscritto alla FIOM.
Diversamente da quanto afferma il giudice di primo grado, proponendo una lettura “ a contrario” di una sentenza della Corte di Cassazione (n. 212/08), dall’ affermazione che la violazione di diritti e prerogative sindacali riconosciuti dalla legge o dalla contrattazione collettiva costituisce, di per sé, un comportamento antisindacale, non discende affatto che altre condotte, se non in immediata violazione di norme legali o contrattuali, siano lecite a prescindere dalla oggettiva idoneità a impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale o a ledere oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali.
E la volontà di estromettere il componente appartenente alla FIOM costituisce certamente un pregiudizio alla libertà e all’attività sindacale, attraverso una palese discriminazione, non giustificata dalla possibilità per il datore di lavoro di rifiutare la designazione di tre componenti anziché due, perché una volta accettato che la delegazione italiana fosse composta da tre rappresentanti sindacali, non poteva comunque interferire nell’atto di autonomia sindacale, pretendendo la sostituzione del rappresentante appartenente alla FIOM e così utilizzando una concessione non dovuta per finalità di discriminazione illecite.
Conclude infatti la Corte “la pretesa della FIAT Industrial di scegliere l’appartenenza sindacale dei componenti della DSN – in altre parole, la non nuova pretesa di scegliersi gli interlocutori sindacali – rappresenta una evidente violazione di ogni più elementare principio di buona fede e correttezza nelle relazioni industriali e di parità di trattamento tra le organizzazioni sindacali”.
La vicenda affrontata e decisa dalla Corte costituisce quindi l’ennesimo capitolo di un conflitto permanente che la casa automobilistica ex torinese ha deciso di mantenere con la FIOM, conflitto originato dalla decisione di questo sindacato di non sottoscrivere un contratto aziendale, fatto poi assurgere a contratto nazionale (in quanto unica casa automobilistica in Italia), perchè peggiorativo delle condizioni di lavoro e per questo motivo contrario alle disposizioni del suo statuto.
La singolarità di questa, come delle altre vicende già decise o in corso, è la dichiarata volontà datoriale di esclusione, circostanza che consente una riflessione di chiusura: se pure è vero che dell’antisindacalità si deve giudicare su un piano strettamente oggettivo della idoneità della condotta a determinare una lesione della libertà, della attività o delle prerogative del sindacato, a prescindere dall’elemento soggettivo (dolo), è però altresì vero che vi sono condotte che si qualificano sotto questo profilo come antisindacali proprio per l’intento perseguito ossia si caratterizzano anche sotto il profilo della potenzialità lesiva per l’elemento soggettivo, per le quali il piano oggettivo e soggettivo sono immediatamente connessi.
L’esclusione di un sindacato dalle trattative, la negazione a quel sindacato di prerogative o benefici aziendali e, in definitiva, la volontà di disconoscere la sua legittimazione a essere un interlocutore negoziale sono di per se stesse idonee, senza necessità di altro accertamento, a costituire condotta antisindacale, minando immediatamente la credibilità di quella organizzazione quanto a capacità di essere referente dei lavoratori, sia in generale nelle relazioni industriali, sia nello specifico della mediazione e gestione del rapporto di lavoro in ambito aziendale.
Appare quindi del tutto erronea la decisione di primo grado laddove ha giustificato la condotta aziendale in quanto correlata a concessioni non dovute per legge o per contratto, perché se anche così fosse stato queste concessioni sarebbero in ogni caso state soggettivamente e oggettivamente correlate a un intento discriminatorio illecito e di per se stesso caratterizzante la condotta come antisindacale.