Magistratura democratica
giurisprudenza di merito

Un “nuovo” modello di relazioni industriali: la Fiat a Pomigliano D’Arco

di Alfredo Guardiano
Consigliere Corte di Cassazione
A margine delle vicende penali scaturite dalla condotta antisindacale nello stabilimento campano
Un “nuovo” modello di relazioni industriali: la Fiat a Pomigliano D’Arco

1. Premessa

Il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Nola, pochi mesi or sono, ha dichiarato estinti i reati configurati a carico di Sergio Marchionne in tema di comportamento antisindacale, dopo averlo ammesso al pagamento di una somma modestissima a titolo di oblazione (2654,00 euro), su parere favorevole della Procura della Repubblica di Nola, mentre è di qualche giorno fa la sentenza di patteggiamento con cui, sempre in relazione ai medesimi reati, è stata definita la posizione del responsabile dello stabilimento di Pomigliano D’Arco.

E’, dunque, possibile, una prima riflessione su di una vicenda sintomatica di un “nuovo” modello di relazioni industriali, oggi sconfessato dalla massima autorità della Fiat Group Automibiles (FGA), insieme ai documenti resi pubblici dalla conclusione dei due procedimenti, rappresentati dai provvedimenti dell’autorità giudiziaria ed, in particolare, dai pareri espressi dal pubblico ministero sulle richieste di ammissione all’oblazione ed al patteggiamento e dal provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari ha ammesso Sergio Marchionne all’oblazione; dalla memoria difensiva di quest’ultimo e dalla nota del segretario della F.I.O.M, Landini, attestante l’avvenuta cessazione delle condotte antisindacali, consacrata nel verbale di accordo del 30 maggio 2014, siglato tra la Fiat Group Automibiles s.p.a. e Fabbrica Italiana Pomigliano s.p.a, da un lato e FIOM CGIL, nelle sue componenti, nazionale e napoletana, dall’altro. Nota che è stato presupposto indispensabile per l’ammissione all’oblazione prevista dall’art. 162 bis, c.p., una volta esclusa dalla stessa Procura della Repubblica di Nola, la circostanza aggravante di cui all’art. 38, co. 2, l. 20 maggio 1970, n. 300, che ne avrebbe impedito l’applicazione.

2. I valori in gioco

I dimostrati comportamenti antisindacali posti in essere dai vertici aziendali della Fiat, nelle sue varie articolazioni societarie, nei confronti degli iscritti alla Fiom, rappresentano una violazione, per così dire, da manuale di una serie di valori tutelati da altrettante norme contenute in Costituzione, a partire dalla natura fondante dello stesso ordine democratico, attribuita al lavoro, in tutte le sue manifestazioni, per giungere al diritto di eguaglianza, di cui all’art. 3; al diritto di associarsi liberamente, di cui all’art. 18, co. 1; al diritto dei sindacati di organizzarsi ed operare liberamente, previsto dall’art. art. 39, co. 1; al divieto per l’iniziativa economica privata di svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, sancito dall’art. 41, co. 2.

Appare, dunque, motivo di preoccupazione constatare, in un periodo storico in cui prevale un orientamento culturale e politico che vede l’impresa e non il lavoro dipendente, al centro della struttura socio-politica del Paese, l’estraneità di una parte non secondaria della classe imprenditoriale non solo al complesso dei principi costituzionali in materia di lavoro, ma anche ad uno dei principi cardine dello Stato di diritto, che impone di rispettare il contenuto delle decisioni legittimamente adottate dai giudici, in questo caso palesemente violato, non avendo i vertici aziendali della Fiat rispettato quanto stabilito dai giudici del lavoro di Torino e di Roma nei loro provvedimenti.

Sotto questo profilo, appare innegabile che il comportamento della Fiat si inquadra in una precisa dinamica degli ultimi anni del capitalismo internazionale, non solo finanziario, ben evidenziata in Italia da studiosi come Luciano Gallino, caratterizzata dalla crescente indifferenza, se non da una vera e propria ostilità, per il rispetto delle regole poste ab externo all’iniziativa economica privata, che si manifesta nella tendenza del capitale ad allocare le proprie risorse in paesi dove non solo il costo del lavoro è più basso, ma dove le forme di tutela dei lavoratori sono meno efficaci, per la presenza di sindacati deboli, di leggi meno severe in tema di protezione dei lavoratori dipendenti e dei luoghi di lavoro, di una magistratura meno indipendente di quella italiana dal potere politico.

In Italia non siamo ancora a questo punto, ma il quadro sembra evolversi verso il peggio, visto il furore ideologico che sta caratterizzando lo scontro sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in cui uno degli aspetti più interessanti, rimasto piuttosto nell’ombra, è la pretesa, come è stato autorevolmente sostenuto, che, con la riforma si impedirà “finalmente” (nell’ottica dei suoi sostenitori, è ovvio) che sia il giudice, e non le ragioni produttive dell’impresa, a stabilire se il lavoratore abbia o meno il diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro.

Quasi come se il diritto, e quindi coloro che sono chiamati ad applicarlo, non avessero cittadinanza all’interno dell’impresa, sottoposta al dominio esclusivo delle regole dettate dal mercato, a meno che esso non sia funzionale ai fini perseguiti dall’impresa stessa, come in questo caso, in cui la nascita della nuova società Fabbrica Italiana Pomigliano, resa possibile attraverso la forma contrattuale, sia pure fittizia, della cessione di un ramo d’azienda, nascondeva non una finalità produttiva, ma quella di penalizzare una sigla sindacale, inserendo, come scrivono i pubblici ministeri nella nuova realtà produttiva esclusivamente quelli favorevoli al progetto datoriale.

E’ pur vero che Sergio Marchionne ha formalizzato innanzi ai pubblici ministeri di Nola la sua ignoranza delle politiche discriminatorie messe in atto nello stabilimento di Pomigliano.

Una tale affermazione fa comunque emergere un evidente problema di governance di non poco momento, che richiederebbe ben nuove e più stringenti regole per rendere effettivi i controlli antidiscriminatori, al pari di quelli anticorruzione, all’interno dei luoghi di lavoro.

Resta una ulteriore, amara, ma realistica riflessione.

Solo grazie all’intervento della magistratura penale è stato possibile eliminare una condotta antisindacale, sulla quale le statuizioni dei provvedimenti del giudice del lavoro non avevano inciso.

Questo dovrebbe far riflettere ancora una volta sulla non negoziabilità di alcuni principi come l’obbligatorietà dell’azione penale, la sottrazione del pubblico ministero da ogni condizionamento del potere politico, in una parola l’indipendenza e l’autonomia della magistratura tutta, che non costituiscono prerogative di una burocrazia privilegiata, ma strumenti indispensabili per la tutela reale dei valori costituzionali; ed, al tempo stesso, sul limite di un sistema di sanzioni penali francamente inadeguato, per la modesta entità delle sanzioni stesse, facilmente sostenibili, per non dire irrisorie, anche facendo ricorso all’oblazione, da parte di realtà imprenditoriali di medie e grandi dimensioni (si pensi che il massimo cui può arrivare l’ammenda prevista dall’art. 38 dello statuto dei lavoratori, ai sensi del combinato disposto del primo e del terzo comma del menzionato articolo, è di 7745,00 euro), senza dimenticare che si tratta di contravvenzioni, quindi, di reati sottoposti a termini di prescrizione particolarmente brevi.

Come pure andrebbe approfondita la valutazione operata dal giudice per le indagini preliminari che, nell’escludere la sussistenza della gravità del fatto, al fine di non respingere la domanda di oblazione, ha formulato, del tutto legittimamente peraltro, un giudizio di ridimensionamento della gravità del danno arrecato, alla luce della successiva ricomposizione del “conflitto” sindacale, evidenziando, altresì, la mancanza di precedenti penali dell’imputato e la non particolare intensità del dolo che ha sorretto l’azione di quest’ultimo, muovendosi, dunque, senza dubbio all’interno del perimetro sancito dall’art. 133, c.p., che, pure, avrebbe potuto condurre ad una soluzione diversa, ove si fosse privilegiato, nell’ottica della pluralità dei valori costituzionali compromessi dall’azione antisindacale, il criterio rappresentato “dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione”.

In conclusione non può che ribadirsi come l’illegalità nel mondo dell’impresa, che è comunque uno dei pilastri dekla società, si diffonde non solo attraverso la corruzione e l’inquinamento affaristico-mafioso, ma anche colpendo i lavoratori nei loro diritti, a partire da quelli politici: la condotta della Fiat a Pomigliano D’Arco e l’ennesima recrudescenza delle morti sul lavoro degli ultimi mesi stanno lì a ricordarcelo.

21/11/2014
Altri articoli di Alfredo Guardiano
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.
Licenziamento e disabilità alla prova della giurisprudenza. Commento alle sette sentenze della Corte di cassazione

Il contributo sviluppa la nota questione dei profili discriminatori del licenziamento intimato per superamento del "comporto", fornisce una lettura complessiva delle sette pronunce espresse finora dalla Corte di Cassazione, ponendole a confronto con le tesi proposte in dottrina, concludendo, poi, con considerazioni, anche de iure condendo, in chiave applicativa.

13/11/2024
Note di mezza estate sul Jobs act annegato in un mare di incostituzionalità: il caso del licenziamento disciplinare

Probabilmente costituisce un record il numero di pronunce di incostituzionalità che hanno colpito il d.lgs. n. 23 del 2015 (cd. Jobs act): ciò che ne esce sconfessata è soprattutto la filosofia che vi era sottesa

10/09/2024
Arbitro tra parti diseguali: l'imparzialità del giudice del lavoro

Il processo del lavoro, nella struttura voluta dal legislatore del 1973, era un processo pensato per regolare un conflitto tra parti diseguali, costruito, come era costruita la disciplina del rapporto di lavoro in quegli stessi anni, intorno all’attribuzione di giuridica rilevanza a tale disuguaglianza sostanziale. In quel modello di processo il giudice era un attore centrale, il cui potere ufficioso serviva a superare la disparità delle parti nell’accesso alla prova e insieme a controbilanciare il regime di forti preclusioni, in vista del raggiungimento rapido di una decisione di merito il più possibile conforme alla verità materiale dei fatti. Quel modello è stato attraversato da una profonda trasformazione, culturale, più che normativa, che ha accompagnato le modifiche legislative che hanno interessato la regolamentazione sostanziale del rapporto di lavoro. L’esito è stato nel senso, non del superamento, ma della rimozione dall’orizzonte regolativo del rapporto e culturale degli operatori del diritto della disuguaglianza sostanziale delle parti, che tuttavia nel frattempo non è affatto diminuita. Ne è seguito un mutamento, nelle prassi processuali, anche del ruolo del giudice, sempre meno disposto a fare uso dei propri poteri ufficiosi. Solo in tempi recentissimi la giurisprudenza ordinaria e costituzionale ha riportato il crudo fatto della disuguaglianza sostanziale al centro dell’argomentazione giudiziale.

18/06/2024
Se i diritti diventano doveri

Le conseguenze di un’inattesa interpretazione delle norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro

02/12/2023
Le controversie in materia di lavoro e previdenza innanzi al Tribunale. Profili processuali

Questione Giustizia pubblica, aggiornata al 2023, un'ampia raccolta di giurisprudenza di legittimità dedicata ai profili processuali del diritto del lavoro e della previdenza sociale

16/11/2023
"Le grandi dimissioni"

La recensione al volume di Francesca Coin, edito da Einaudi (2023)

14/10/2023
Risalire la china dopo la catastrofe morale della controriforma del reddito di cittadinanza: un progetto condiviso per un'eredità di libertà

La destra è riuscita ad archiviare il Reddito di cittadinanza: l’Italia non ha più una misura universalistica di contrasto al rischio di esclusione sociale coerente con le indicazioni sovranazionali e con la Carta dei diritti (art. 34.3) o con la Carta sociale (artt. 30 e 31). Centinaia di migliaia di beneficiari del RDC (secondo la relazione tecnica più di 600.000), quasi tutti in situazione di povertà assoluta escono dalla protezione dei minimi vitali; viene archiviato il principio dell’offerta “congrua” di lavoro: per chi può lavorare (in astratto, non in concreto) sarà obbligatorio accettare anche un’offerta part-time e di un solo giorno ed ad ottanta km dall’abitazione. Si tratta di una catastrofe equitativa senza precedenti, di un protervo e violento attentato alla dignità degli ultimi, esito di una campagna di colpevolizzazione dei cittadini in difficoltà che le forze progressiste non sono riuscite per tempo a domare e con la quale troppo spesso sono state tolleranti. Per recuperare un minimo di credibilità quel che resta di un pensiero di sinistra e della trasformazione sociale deve compiere un’autocritica convinta ed abbracciare le ragioni di un nuovo welfare orientato alla libertà ed all’autonomia delle persone e non al loro disciplinamento e costrizione al lavoro.

06/06/2023