- Tribunale Nola ordinanza Gip ammissione oblazione
- Tribunale Nola parere Procura ammissione oblazione
- Memoria difensiva Marchionne
1. Premessa
Il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Nola, pochi mesi or sono, ha dichiarato estinti i reati configurati a carico di Sergio Marchionne in tema di comportamento antisindacale, dopo averlo ammesso al pagamento di una somma modestissima a titolo di oblazione (2654,00 euro), su parere favorevole della Procura della Repubblica di Nola, mentre è di qualche giorno fa la sentenza di patteggiamento con cui, sempre in relazione ai medesimi reati, è stata definita la posizione del responsabile dello stabilimento di Pomigliano D’Arco.
E’, dunque, possibile, una prima riflessione su di una vicenda sintomatica di un “nuovo” modello di relazioni industriali, oggi sconfessato dalla massima autorità della Fiat Group Automibiles (FGA), insieme ai documenti resi pubblici dalla conclusione dei due procedimenti, rappresentati dai provvedimenti dell’autorità giudiziaria ed, in particolare, dai pareri espressi dal pubblico ministero sulle richieste di ammissione all’oblazione ed al patteggiamento e dal provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari ha ammesso Sergio Marchionne all’oblazione; dalla memoria difensiva di quest’ultimo e dalla nota del segretario della F.I.O.M, Landini, attestante l’avvenuta cessazione delle condotte antisindacali, consacrata nel verbale di accordo del 30 maggio 2014, siglato tra la Fiat Group Automibiles s.p.a. e Fabbrica Italiana Pomigliano s.p.a, da un lato e FIOM CGIL, nelle sue componenti, nazionale e napoletana, dall’altro. Nota che è stato presupposto indispensabile per l’ammissione all’oblazione prevista dall’art. 162 bis, c.p., una volta esclusa dalla stessa Procura della Repubblica di Nola, la circostanza aggravante di cui all’art. 38, co. 2, l. 20 maggio 1970, n. 300, che ne avrebbe impedito l’applicazione.
2. I valori in gioco
I dimostrati comportamenti antisindacali posti in essere dai vertici aziendali della Fiat, nelle sue varie articolazioni societarie, nei confronti degli iscritti alla Fiom, rappresentano una violazione, per così dire, da manuale di una serie di valori tutelati da altrettante norme contenute in Costituzione, a partire dalla natura fondante dello stesso ordine democratico, attribuita al lavoro, in tutte le sue manifestazioni, per giungere al diritto di eguaglianza, di cui all’art. 3; al diritto di associarsi liberamente, di cui all’art. 18, co. 1; al diritto dei sindacati di organizzarsi ed operare liberamente, previsto dall’art. art. 39, co. 1; al divieto per l’iniziativa economica privata di svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, sancito dall’art. 41, co. 2.
Appare, dunque, motivo di preoccupazione constatare, in un periodo storico in cui prevale un orientamento culturale e politico che vede l’impresa e non il lavoro dipendente, al centro della struttura socio-politica del Paese, l’estraneità di una parte non secondaria della classe imprenditoriale non solo al complesso dei principi costituzionali in materia di lavoro, ma anche ad uno dei principi cardine dello Stato di diritto, che impone di rispettare il contenuto delle decisioni legittimamente adottate dai giudici, in questo caso palesemente violato, non avendo i vertici aziendali della Fiat rispettato quanto stabilito dai giudici del lavoro di Torino e di Roma nei loro provvedimenti.
Sotto questo profilo, appare innegabile che il comportamento della Fiat si inquadra in una precisa dinamica degli ultimi anni del capitalismo internazionale, non solo finanziario, ben evidenziata in Italia da studiosi come Luciano Gallino, caratterizzata dalla crescente indifferenza, se non da una vera e propria ostilità, per il rispetto delle regole poste ab externo all’iniziativa economica privata, che si manifesta nella tendenza del capitale ad allocare le proprie risorse in paesi dove non solo il costo del lavoro è più basso, ma dove le forme di tutela dei lavoratori sono meno efficaci, per la presenza di sindacati deboli, di leggi meno severe in tema di protezione dei lavoratori dipendenti e dei luoghi di lavoro, di una magistratura meno indipendente di quella italiana dal potere politico.
In Italia non siamo ancora a questo punto, ma il quadro sembra evolversi verso il peggio, visto il furore ideologico che sta caratterizzando lo scontro sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in cui uno degli aspetti più interessanti, rimasto piuttosto nell’ombra, è la pretesa, come è stato autorevolmente sostenuto, che, con la riforma si impedirà “finalmente” (nell’ottica dei suoi sostenitori, è ovvio) che sia il giudice, e non le ragioni produttive dell’impresa, a stabilire se il lavoratore abbia o meno il diritto di essere reintegrato nel posto di lavoro.
Quasi come se il diritto, e quindi coloro che sono chiamati ad applicarlo, non avessero cittadinanza all’interno dell’impresa, sottoposta al dominio esclusivo delle regole dettate dal mercato, a meno che esso non sia funzionale ai fini perseguiti dall’impresa stessa, come in questo caso, in cui la nascita della nuova società Fabbrica Italiana Pomigliano, resa possibile attraverso la forma contrattuale, sia pure fittizia, della cessione di un ramo d’azienda, nascondeva non una finalità produttiva, ma quella di penalizzare una sigla sindacale, inserendo, come scrivono i pubblici ministeri nella nuova realtà produttiva esclusivamente quelli favorevoli al progetto datoriale.
E’ pur vero che Sergio Marchionne ha formalizzato innanzi ai pubblici ministeri di Nola la sua ignoranza delle politiche discriminatorie messe in atto nello stabilimento di Pomigliano.
Una tale affermazione fa comunque emergere un evidente problema di governance di non poco momento, che richiederebbe ben nuove e più stringenti regole per rendere effettivi i controlli antidiscriminatori, al pari di quelli anticorruzione, all’interno dei luoghi di lavoro.
Resta una ulteriore, amara, ma realistica riflessione.
Solo grazie all’intervento della magistratura penale è stato possibile eliminare una condotta antisindacale, sulla quale le statuizioni dei provvedimenti del giudice del lavoro non avevano inciso.
Questo dovrebbe far riflettere ancora una volta sulla non negoziabilità di alcuni principi come l’obbligatorietà dell’azione penale, la sottrazione del pubblico ministero da ogni condizionamento del potere politico, in una parola l’indipendenza e l’autonomia della magistratura tutta, che non costituiscono prerogative di una burocrazia privilegiata, ma strumenti indispensabili per la tutela reale dei valori costituzionali; ed, al tempo stesso, sul limite di un sistema di sanzioni penali francamente inadeguato, per la modesta entità delle sanzioni stesse, facilmente sostenibili, per non dire irrisorie, anche facendo ricorso all’oblazione, da parte di realtà imprenditoriali di medie e grandi dimensioni (si pensi che il massimo cui può arrivare l’ammenda prevista dall’art. 38 dello statuto dei lavoratori, ai sensi del combinato disposto del primo e del terzo comma del menzionato articolo, è di 7745,00 euro), senza dimenticare che si tratta di contravvenzioni, quindi, di reati sottoposti a termini di prescrizione particolarmente brevi.
Come pure andrebbe approfondita la valutazione operata dal giudice per le indagini preliminari che, nell’escludere la sussistenza della gravità del fatto, al fine di non respingere la domanda di oblazione, ha formulato, del tutto legittimamente peraltro, un giudizio di ridimensionamento della gravità del danno arrecato, alla luce della successiva ricomposizione del “conflitto” sindacale, evidenziando, altresì, la mancanza di precedenti penali dell’imputato e la non particolare intensità del dolo che ha sorretto l’azione di quest’ultimo, muovendosi, dunque, senza dubbio all’interno del perimetro sancito dall’art. 133, c.p., che, pure, avrebbe potuto condurre ad una soluzione diversa, ove si fosse privilegiato, nell’ottica della pluralità dei valori costituzionali compromessi dall’azione antisindacale, il criterio rappresentato “dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione”.
In conclusione non può che ribadirsi come l’illegalità nel mondo dell’impresa, che è comunque uno dei pilastri dekla società, si diffonde non solo attraverso la corruzione e l’inquinamento affaristico-mafioso, ma anche colpendo i lavoratori nei loro diritti, a partire da quelli politici: la condotta della Fiat a Pomigliano D’Arco e l’ennesima recrudescenza delle morti sul lavoro degli ultimi mesi stanno lì a ricordarcelo.