- Sentenza Corte d'appello Torino, Sez.Lavoro, n. 335/2013 FIAT
- Sentenza Corte Cassazione, Sez. Lavoro, n. 21537/49 FIAT
- Requisitoria, Corte Cassazione R.G. n. 25085/2014
L’ennesimo contenzioso che ha tratto origine dalla vicenda tra Fiat-Fiom ha dato modo al giudice di legittimità di riaffermare principi di legalità nella gestione delle relazioni industriali attraverso atti negoziali, negando al datore di lavoro la possibilità di svincolarsi prima della scadenza dagli obblighi assunti con accordi collettivi attraverso il recesso dalle associazioni di categoria e la novazione consensuale del contratto con alcune sole delle organizzazioni sindacali firmatarie.
1. La mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione ha imposto alla dottrina e alla giurisprudenza il tema del trattamento normativo del contratto collettivo post corporativo, definito di “diritto comune”, e della sua collocazione nell’ambito delle fonti con risultati non sempre appaganti, ma, almeno quanto alla giurisprudenza, tendenzialmente uniformi nella riconduzione delle questioni di volta in volta da risolvere alle categorie proprie del diritto privato[1].
Consolidato l’assunto della non applicabilità, per incompatibilità con i principi costituzionali, delle disposizioni dettate dal codice sulla validità ed efficacia del contratto corporativo quale atto collocato tra le fonti del diritto statuale e classificato il contratto collettivo di diritto comune come atto di autonomia privata, è rimasto da sciogliere il nodo dell’inserimento di questi accordi nel sistema complessivo di interazione tra disposizioni di legge di qualunque rango e fonte negoziale in ragione della peculiarità degli atti negoziali in cui i contratti collettivi si sostanziano, che prendono vita e sono destinati a un contesto marcatamente sociale e politico, caratterizzato da rapporti di forza in continuo mutamento, e che, pur essendo astrattamente riconducibili a contratti atipici (artt. 1322, 1323 cc), si differenziano dagli atti negoziali disciplinati dal codice civile per la loro vocazione strutturale ad essere atti normativi, generali ed astratti, diretti a disciplinare nel tempo un numero indeterminato di rapporti di lavoro, con funzioni integrativa ed anche derogatoria delle disposizioni generali del codice civile e delle leggi speciali.
L’intensità e il contenuto del vincolo negoziale che derivano dal contratto collettivo da un lato risentono fortemente dell’assetto dei rapporti di forza in un determinato momento storico, tanto è vero che negli anni settanta si è data sistemazione teorica alla “vincolatività unilaterale”[2] (per le associazioni datoriali e i datori di lavoro di lavoro), dall’altro scontano l’inadeguatezza delle regole di diritto comune ad accogliere questo tipo di negozio in modo sistematico e non frammentario, risultando spesso le norme comuni inapplicabili.
In questo quadro la questione della efficacia temporale del contratto collettivo è sicuramente una delle più dibattute ed esaminate dalla giurisprudenza[3], che ha dovuto confrontarsi con l’elaborazione giuscivilistica delle ipotesi di risoluzione del contratto e del diritto o facoltà di recesso, rivisitandone i presupposti con riferimento non a prestazioni contrattuali tipiche, ma a un vincolo di durata che riguarda l’obbligazione di stipulare contratti conformi alla disciplina concordata con l’accordo sindacale. Problema questo che si complica ulteriormente se si considera in successione: che il recesso da un contratto collettivo o la sua risoluzione senza la stipulazione di un nuovo contratto non determina, come negli altri contratti, l’automatica estinzione del rapporto obbligatorio essendo il contenuto del contratto perdurante nei contratti individuali che lo hanno recepito quanto meno per la parte economica ex art. 36 Cost.[4]; che la predeterminazione della durata del contratto collettivo attraverso la prefissione di un termine non è stata ritenuta ostativa al rinnovo automatico in assenza di disdetta in tempo utile; che molto spesso i contratti collettivi contengono clausole espresse di ultrattività in attesa di rinnovo (non molto diversamente dal disposto degli artt. 2071-2076 del cc) e che molto spesso i contratti collettivi sono fonti integrative di norme di legge soprattutto di natura assicurativo/previdenziale[5]. Senza poi trascurare che al recesso da un contratto collettivo da parte di un datore di lavoro o dell’associazione di categoria dei datori di lavoro del settore non segue la libera determinazione unilaterale delle condizioni di lavoro secondo il volere del datore di lavoro, rimanendo pur sempre, il contratto di lavoro, un contratto consensuale che richiede il consenso di entrambe le parti su un piano di pari dignità (anche se in una contrattazione individuale questa pari dignità può essere solo formale). Il recesso comporta invece ordinariamente l’apertura di una nuova situazione di conflitto sindacale per la ridefinizione consensuale della disciplina contrattuale.
2. La controversia tra Filctem-Cgil e Pcma spa, società del gruppo Fiat, di cui si è occupata la Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha posto due questioni inerenti il diritto di recesso dal contratto collettivo nazionale: quella della titolarità del diritto di recesso e quella del diritto di recesso da un contratto con termine prefissato.
Il contenzioso si è determinato per una delle molteplici vicende portate davanti ai giudici (con esiti alterni) connesse e conseguenza della più ampia vicenda dei rapporti Fiat-Fiom, iniziata nel 2010, che ha visto l’uscita di tutte le società del Gruppo Fiat dal sistema di relazioni industriali espresso negli accordi interconfederali e con essa la sottoscrizione, con le organizzazioni sindacali, esclusa la Fiom, di un contratto collettivo speciale (Ccsl), definito di primo livello, in sostituzione dei contratti collettivi nazionali, contratto applicato in rapida successione temporale a tutte le società del gruppo anche non del settore metalmeccanico.
L’operazione, finalizzata ad escludere le rappresentanze aziendali dei dissenzienti, e quindi la Fiom, e ad imporre una disciplina peggiorativa dei contratti di lavoro, è stata attuata, sul piano tecnico giuridico, dapprima attraverso la costituzione di una nuova società non aderente a Confindustria in cui far confluire con contratti sottoscritti individualmente i lavoratori dello stabilimento di Pomigliano d’Arco (in elusione dell’art. 2112 cc), e pressoché immediatamente in seguito, una volta registrati gli effetti “politici” non ostativi della prima operazione, con la fuoriuscita delle società del gruppo da Confindustria/Federmeccanica e con il recesso dai contratti collettivi nazionali (e dagli accordi confederali) che queste associazioni datoriali avevano sottoscritto con le organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Il tentativo di svincolarsi dal sistema di relazioni industriali consolidato nel paese, escludendo il sindacato più combattivo, oltre che maggiormente rappresentativo nel settore metalmeccanico, e imponendo un modello di produzione/retribuzione stabilito in modo sostanzialmente unilaterale, con il ricatto di una scelta di delocalizzazione, è poi parzialmente fallito essendo intervenuta la sentenza n. 231 del 23 luglio 2013 della Corte costituzionale.
Le molteplici modalità con le quali si è perseguita e attuata l’esclusione dei sindacati dissenzienti (comprese le organizzazioni affiliate alla Cgil presenti nelle società del gruppo non del settore metalmeccanico) da prerogative o benefici aziendali, disconoscendo la legittimazione a essere un interlocutore negoziale, è infatti sempre passata attraverso una applicazione strettamente letterale dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, nel testo risultante a seguito del referendum del 1995, all’esito del quale la costituzione di rappresentanze aziendali veniva consentita alle sole «associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva». La sottoscrizione di contratti senza la Fiom (o confederati Cgil), definiti di primo livello, in sostituzione di quelli sottoscritti dalle associazioni federate in Confindustria anche con la Fiom era quindi lo strumento di estromissione delle organizzazioni scomode dalle relazioni industriali aziendali.
Con la dichiarazione di illegittimità costituzionale di questo testo per la parte in cui escludeva la rappresentanza sindacale aziendale «anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda» si è ristabilito un equilibrio forzatamente alterato.
Nel frattempo però si erano creati molteplici contenziosi con le società del gruppo diretti a fare rispettare i diritti di rappresentanza delle organizzazioni escluse dalle relazioni industriali e dalla contrattazione aziendale, i diritti dei lavoratori aderenti a non essere discriminati nelle assunzioni, i diritti sanciti dai contratti e dagli accordi sottoscritti attraverso le associazioni datoriali anche con Fiom e organizzazioni federate alla Cgil, contenziosi per i quali spesso la risposta giudiziale non è stata sufficientemente rapida.
E tra questi via inserito quello tra Filctem-Cgil e Pcma spa a seguito del recesso dal Ccnl del settore Gomma Plastica, applicato ai lavoratori di cinque stabilimenti del gruppo Fiat, ai quali era stata estesa la nuova disciplina del contratto collettivo speciale di primo livello, dal primo gennaio 2012, nonostante il precedente contratto collettivo nazionale non fosse ancora scaduto.
I giudici di primo e secondo grado, Tribunale e Corte d’appello di Torino, hanno sostanzialmente accolto le tesi della Pcma spa, società del gruppo Fiat, sulla legittimità del recesso e sull’estensione del nuovo contratto, sottoscritto con le altre organizzazioni sindacali prima della scadenza del precedente, anche ai lavoratori iscritti alla Filctem-Cgil con argomenti non del tutto omogenei, ma condividendo attraverso il richiamo a una pronuncia del giudice di legittimità quello della libertà del datore di lavoro di stipulare contratti collettivi con alcune e non con tutte le organizzazioni sindacali presenti in azienda, potendo quindi per tale via essere legittimamente sostituito prima della scadenza prevista il contratto in vigore senza il consenso di tutte le originarie parti sindacali stipulanti.
Pur ripudiando “l’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado relativa all’operatività, esclusiva e nei confronti di tutti i dipendenti, del Ccsl a partire dall’1° gennaio 2012 basata su un indefinito e nebuloso “principio di effettività”, il giudice di secondo grado ha motivato la reiezione della domanda di Filctem – Cgil “perché a partire dall’1° gennaio 2012 la Pcma, per effetto del recesso dal sistema confindustriale esercitato dal gruppo Fiat (associato all’Unione Industriale di Torino) ex art. 24 comma II cc, non aderiva più a detto sistema e non era dunque più tenuta (per un verso essendo venuto meno il vincolo associativo e per altro verso non essendo la Pcma parte stipulante del Ccnl fino a quel momento applicato, né direttamente né attraverso Federgomma, soggetto titolare in via originaria ed autonoma e non in forza di mandato, della legittimazione a negoziare) a rispettare le intese sindacali sottoscritte dall’associazione del settore (nella specie, appunto, Federgomma) ed era invece, a partire da quella data, libera di applicare a tutti i propri dipendenti solo e soltanto il (legittimamente stipulato) Ccsl 29 dicembre 2010 nella stesura definitiva del 13 dicembre 2011.”
3. La Corte di cassazione, affermata la non pertinenza alla fattispecie del precedente giurisprudenziale richiamato dai giudici di merito, ha invece escluso la legittimità del recesso del singolo datore di lavoro da un contratto collettivo ad efficacia più estesa di quello aziendale e ha escluso la legittimità del recesso unilaterale prima della scadenza del termine prefissato, ritenendo assorbita o inammissibile ogni altra questione.
Entrambe le statuizioni sono fondate sul richiamo di principi statuiti in precedenti pronunce (Cass. n. 8994/2011, 18508/05, 3296/2002 e 15863/2002, n. 24575/13, n. 25062/13), a cui si dichiara di dare seguito, pronunce che a loro volta contengono affermazioni di principio senza esplicitare o giustificare la scelta della base normativa in una materia, il diritto sindacale dei contratti, che, come visto, non ha una normativa propria di riferimento.
Il primo arresto ovvero l’insussistenza di un diritto del singolo datore di lavoro di recedere da un contratto collettivo diverso dal contratto aziendale appartenendo la legittimazione sostanziale alle organizzazioni sindacali datoriali e dei lavoratori stipulanti si può considerare un principio consolidato e da ricondurre pianamente alla costruzione della adesione alle associazioni di categoria da parte dei datore di lavoro come mandato nell’interesse del o anche del mandatario (art. 1723 comma 2 cc) con la conseguente irrevocabilità del mandato stesso, ancorché a tempo indeterminato, in corso di esecuzione del contratto stipulato e vincolatività del contratto stipulato in ogni sua parte. Il recesso dalla associazione di categoria, a contratto stipulato e in vigore, non è quindi strumento idoneo per fare cessare l’obbligatorietà del contratto medesimo che vincola il datore di lavoro a uniformare i contratti individuali a quello collettivo e a mantenerne l’efficacia in conformità alle clausole di durata di quest’ultimo.
Il condivisibile principio applicato dalla Corte corrisponde del resto alla realtà socio economico sottostante la funzione del contratto collettivo che è quella di regolare il mercato del lavoro e le condizioni di lavoro, retributive e non, in modo uniforme all’interno dei vari settori, rispondendo in tal modo all’interesse sia dei lavoratori a non subire la pressione di condizioni peggiorative connesse a contrattazioni individuali, sia dell’insieme dei datori di lavoro di non vedere alterate per questa via le condizioni delle concorrenza. Un interesse di categoria e non della sola o di ciascuna impresa aderente.
La diversa opinione espressa dalla Corte d’appello di Torino, senza alcuna base normativa e senza alcun riferimento a principi in materia di contratti che ne legittimi l’affermazione, non è, in realtà, altro che una traduzione in altri termini lessicali del medesimo principio di “effettività”, pure privo di qualsiasi base giuridica, con il quale il Tribunale aveva giustificato la propria decisione e che in linea teorica la Corte dice di ripudiare: in assenza di base normativa e di riferimento a consolidati principi di elaborazione giurisprudenziale di sistemazione dogmatica per l’adattamento della disciplina generali dei contratti alle peculiarità del contrato collettivo, l’affermazione si traduce in termini semplici e diretti nella presa d’atto della situazione creata dal soggetto imprenditore che, in un momento di debolezza delle organizzazioni sindacali storiche e di crisi del sistema economico, ha avuto la capacità di imporre la propria volontà nella sostituzione degli accordi negoziali a prescindere dalle norme giuridiche che regolano i rapporti contrattuali.
Il principio affermato dal giudice di legittimità, coerente con il sistema, lascia aperta una questione, del resto non sottoposta alla Corte e quindi non esaminata, ma non di secondo momento e sicuramente interessante con riferimento ai contratti privi di un termine prefissato o a rinnovo automatico o ai contratti a termine per i quali è prevista una ultrattività in attesa del rinnovo del contrato, venendo a essere incerta rispetto a queste clausole la posizione del singolo datore di lavoro che ha sciolto il vincolo associativo. La novità della condotta della Fiat nel panorama delle relazioni industriali ha introdotto spunti di riflessione su implicazioni che in precedenza non venivano considerate e rispetto alle quali, allo stato della elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, non si possono dare risposte di sicuro fondamento teorico, perché se il mandato è irrevocabile e riguarda l’intero contratto si potrebbe dubitare, ad esempio, che l’uscita dalla associazione datoriale possa essere utile per sottrarsi alle clausole di ultrattività. Anche in questa prospettiva emerge la particolarità di uno strumento, il contratto collettivo, il cui inquadramento sul piano giuridico sfugge perché è indissolubilmente condizionato dalla sua funzione di regolamento di conflitti sociali.
4. Il secondo arresto, che una volta escluso il diritto di recedere da parte del singolo datore di lavoro poteva essere ritenuto assorbito, è in realtà un “consolidato” giurisprudenziale che mantiene irrisolta la questione dei presupposti e dei limiti del potere di recesso dal contratto collettivo da parte delle organizzazioni sindacali.
Le disposizioni sui contratti in generale non contengono una disciplina del potere di recesso, che viene argomentato dall’art. 1373 cc nonostante si tratti di disposizione che nel suo tenore letterale consentirebbe di sciogliersi dal vincolo contrattuale con un atto unilaterale solo se previsto con apposita clausola e viene fondato per i contratti a tempo indeterminato sul più generale principio del disfavore dell’ordinamento per vincoli privi di durata e del favore per la libertà negoziale. Viene poi riconosciuto anche per i contratti di durata a termine quando il negozio è stato concluso con una clausola implicita di rebus sic stantibus e quando sia conforme a principio di correttezza e buona fede. Evidentemente queste condizioni non ricorrevano, né erano state dedotte nella controversia decisa dalla Corte di Cassazione.
Il giudice di legittimità ha quindi applicato rigorosamente il principio della vincolatività del termine apposto al contratto collettivo escludendo la possibilità di recedere prima della scadenza, con obbligo di dare applicazione al contratto nei confronti del lavoratori iscritti alla organizzazione sindacale non firmataria di un nuovo accordo sostitutivo (non era in discussione ed è infatti conforme ai principi la libertà negoziale delle altre organizzazioni di novare il contenuto del contratto anche eventualmente prima della scadenza del termine).
Per questa via appare però indirettamente confermata la teorica sopra richiamata della non parità di posizioni di datori di lavoro e lavoratori rispetto ai contratti collettivi, essendo forse discutibile per le organizzazioni sindacali dei lavoratori ma sicuro per i singoli lavoratori il diritto di rivendicare miglioramenti contrattuali a contratto in corso dovendo cedere il vincolo negoziale che deriva a loro dal contratto collettivo al diritto costituzionale di sciopero, che è lo strumento tipico di rivendicazione. E pur essendo la definizione della controversia arrivata con ritardo, a rapporti sostanziali nel frattempo definiti in ragione del semplice trascorrere del tempo, l’affermazione di principio con la quale si è conclusa non è sicuramente corrispondente quelli che erano gli intenti della Fiat.
[1] Un’ampia analisi storica del contratto collettivo, e dei diversi approcci dottrinali e giurisprudenziali in connessione con l’evoluzione delle relazioni industriali in Italia dai primi del ‘900 ad oggi, si può leggere in Legge e contrattazione collettiva nel diritto del lavoro post statutario, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro Napoli 16-17 giugno 2016, Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale, Annuario di diritto del lavoro n. 52, Ed. Giuffrè 2017.
[2] G. Giugni, Diritto sindacale, L’autunno “caldo” sindacale, in Il Mulino n. 1/1970.
[3] Per una analisi della giurisprudenza sulla questione G. Pacchiana Parravicini, Il recesso dal contratto collettivo, G. Giappichelli editore, Torino, 2010.
[4] Cassazione SU n. 11325/05; in realtà la questione è molto controversa, essendo dubitabile che una volta recepito nel contratto individuale il contenuto del contratto collettivo il recesso dal secondo possa estinguere anche gli obblighi assunti, sia pure per relationem, con il primo.
[5] Il richiamo o la delega al contratto collettivo ad integrazione di disposizioni di legge ha posto ripetutamente il problema della compatibilità con l’art. 39 Cost., venendo di fatto ad operare, secondo vari autori, una surrettizia estensione erga omnes del contenuto dell’accordo negoziale.