1. Due pagine, dense di giustizia e razionalità pratica, hanno ripristinato la legalità costituzionale.
E’ un dato pacifico, nella discussione svolta al seminario su “Rappresentatività, diritti sindacali e processo negoziale”, la pericolosità del modello Fiat di relazioni industriali e la sua tensione con i principi costituzionali.
La razionalità pratica che sorregge la decisione della Corte è quasi disarmante davanti alla constatazione della “eterogenesi dei fini” che il criterio selettivo posto dall’articolo 19 dello Statuto, nella versione post referendaria, subisce qualora “dalla mancata sottoscrizione del contratto collettivo (si fa) deriva(re) la negazione di una rappresentatività che esiste, invece, nei fatti e nel consenso dei lavoratori”.
Chi legge la sentenza con la lente d’ingrandimento del costituzionalista, ne mette in risalto la tecnica di giudizio singolare: sentenza additiva (non di principio), con monito al legislatore ed indicazioni al medesimo rivolte, di regolamentazione anche estranea all’ambito dell’articolo 19 (ad esempio, valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti); coglie l’importanza del riferimento alla collisione della norma in esame con l’articolo 2 della Costituzione (oltre che con gli articoli 3 e 39), ove si annida la tutela del consenso effettivo raccolto presso i lavoratori, fonte e contenuto della rappresentatività.
Già nel 1988 la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 334, valorizzava il modello intercategoriale “coerente al complessivo disegno cui è informata la Carta costituzionale…e cioè, sia al principio solidaristico, specificamente enunciato nell'art. 2…sia al principio consacrato nel secondo comma dell'art. 3 che, promuovendo l'eguaglianza sostanziale tra i lavoratori e la loro effettiva partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese, addita anche alle organizzazioni sindacali di rendersi, per la loro parte, strumenti di tale partecipazione…”.
Il costituzionalista sottolinea, inoltre, l’interpretazione unitaria che la Corte sembra dare dell’art. 39 Cost., del quale richiama espressamente il primo e il quarto comma, additando il principio democratico pluralistico quale fondamento della maggiore forza derivante dalla quantità di consenso.
L’effettiva rappresentatività sembra così trovare fondamento diretto nella Carta Costituzionale, quale espressione del consenso dei lavoratori verso una delle formazioni sociali contemplate dall’articolo 2, veicolo delle istanze partecipative e di uguaglianza sostanziale.
La Corte valorizza la funzione dei sindacati di “autotutela dell’interesse collettivo che, in quanto tale, reclama la garanzia di cui all’art. 2 Cost.” e il cui “rapporto con i lavoratori…rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività”.
2. Alla domanda “è finita la stagione dell’anomia del diritto sindacale?”, la risposta è stata semplice.
Certamente quella stagione è finita, complici la tentazione delle imprese di sottrarsi all’associazionismo sindacale per assecondare le esigenze localistiche e le divergenze tra le organizzazioni sindacali acuite dalla dialettica tra accentramento e decentramento.
Dopo cinquant’anni di equilibrio spontaneo, la crisi attuale del sistema sindacale richiede un intervento, un minimo di regole giuridiche, sindacali o legislative.
Occorrono quindi regole su rappresentanza, rappresentatività, esercizio dei diritti sindacali, effetti della contrattazione collettiva (nel settore confindustriale qualche passo avanti è già stato fatto con gli accordi interconfederali del 28.6.11 e 31.5.13).
Ma c’è un nuovo fantasma, originato dalla sentenza n. 231/2013, che non fa dormire sonni tranquilli: l’obbligo a trattare.
Il criterio selettivo introdotto dalla sentenza n. 231, la partecipazione alle trattative come indice di rappresentatività, viene censurato dalla dottrina.
E’ troppo fumoso e comunque per individuarne i confini occorre guardare alla disciplina in materia di contratti ed alla specifica regolamentazione sindacale che prevede la presentazione di una piattaforma e poi l’inizio delle trattative.
E’ un criterio che non risolve il problema dell’accreditamento ma semplicemente lo sposta dalla firma del contratto ad un momento antecedente, il prender parte alle trattative.
Adesso ci si interroga sulla portata delle espressioni usate nella sentenza: “la libertà di azione della organizzazione sindacale che…trova a monte, in ragione della sua acquisita rappresentatività, la tutela dell’art. 28 dello Statuto nell’ipotesi di un eventuale, non giustificato, suo negato accesso al tavolo delle trattative…”.
E prima ancora: il “…rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alle trattative”.
Può dirsi che con questa sentenza, o meglio con l’obiter dictum in essa contenuto, sia stato introdotto nel nostro sistema un obbligo a trattare? E che ciò sia accaduto senza cenno alcuno alla giurisprudenza, anche di legittimità, sul tema?
Le preoccupazioni si placano leggendo l’ultimo capoverso della sentenza, quello che, rivolto al legislatore, enumera le possibili soluzioni per affrontare il più generale problema dell’attuazione complessiva dell’articolo 39 Cost. e l’individuazione di un criterio selettivo della rappresentatività sindacale in caso di mancanza di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva.
Tra le soluzioni delineate dalla Corte è inclusa “l’introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento”, e ciò significa che allo stato un simile obbligo non esiste.
Ma, infatti, ciò a cui la Corte fa riferimento nel corpo della sentenza non è l’obbligo a trattare ma semmai l’obbligo di non escludere dalle trattative, senza giustificato motivo, associazioni sindacali dotate di effettiva rappresentatività.
Ciò sul presupposto, logico, che “l’effettivo consenso da parte dei lavoratori…ne permette e al tempo stesso rende non eludibile l’accesso alle trattative” da parte del sindacato. E
così si torna al punto di partenza, è la rappresentatività, che trova diretto fondamento nelle norme costituzionali, il dato valoriale preesistente ai diritti del sindacato e che ne legittima, di per sé, la partecipazione alle trattative, rilevando una esclusione non giustificata ai fini dell’articolo 28 dello Statuto.
Questo concetto era già stato chiaramente espresso dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 244/96) nel senso di attribuire rilievo unicamente alla “forza di un sindacato e, di riflesso, (alla) sua rappresentatività…alla capacità di imporsi al datore di lavoro…come controparte contrattuale”, elementi rispetto a cui la firma del contratto collettivo o la partecipazione attiva al processo di formazione del contratto in tanto erano rilevanti in quanto possibili “strumenti di misurazione” di quella forza e quindi della rappresentatività del sindacato.
Secondo parte della dottrina, un intervento eteronomo non deve toccare la libertà negoziale, che è cosa diversa dagli obblighi di informazione e consultazione di derivazione comunitaria.
L’ammissione al tavolo delle trattative deve restare non disciplinata.
No a giudici, Corte Costituzionale o legislatore che impongano organizzazioni sindacali al tavolo delle trattative.
E’ vero, non dovrebbe essercene bisogno se l’ammissione al tavolo delle trattative avvenisse secondo una interpretazione in buona fede del sistema vigente, quella che la Corte ha voluto dare per scontata.
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