L’occasione odierna mi è davvero gradita per la grande gioia di rivedere amici e colleghi dei miei anni presso l’Università trentina, ma soprattutto perché mi consente di ricordare insieme a voi un Maestro, anzi il Maestro, della disciplina cui è dedicato questo incontro: Rodolfo Sacco. È a Sacco, infatti, che si deve l’istituzione dell’insegnamento del diritto comparato non solo a Trento, ma in tutta Italia, ed è a lui che noi tutti dobbiamo un metodo, un approccio, alla comparazione del diritto del tutto originale, divenuto poi rapidamente globale. È dunque al ricordo del grande maestro della nostra disciplina -che ci ha purtroppo da poco lasciati- che vorrei dedicare le poche parole che seguiranno, aiutandomi all’uopo con un preziosissimo strumento, che il caso ha voluto io trovassi fra le mie carte poco dopo la sua dipartita. Si tratta di un manoscritto che Rodolfo Sacco aveva redatto nel febbraio del 2000, in cui il Maestro si racconta, e che ho avuto l’impressione fosse misteriosamente comparso sulla mia scrivania proprio perché io lo potessi condividere oggi con voi, suoi amici e colleghi di una vita.
Aiutandomi con le sue parole, vergate nel manoscritto in questione – procedendo quindi con lui idealmente mano nella mano – vorrei dunque provare a indicarvi quale è stata secondo me la cifra del lavoro di Rodolfo Sacco, la grande intuizione, cioè, che ha caratterizzato l’intero suo operato di studioso del diritto. Farò all’uopo riferimento a una storiella della tradizione sufi, quella resa nota da Jean Paul Fitoussi come Il teorema del lampione nel suo libro omonimo del 2013. Si tratta di uno dei tanti racconti del noto Mulla Nasruddin (o Mullah Nasreddin), figura favolistica e satirica, che a partire dal XIII secolo dopo Cristo hanno attraversato i secoli e le maggiori capitali d’Oriente per giungere immutate fino a noi.
Questa la storiella:
«Alcuni amici una notte incontrano Nasruddin che cammina carponi sotto un fanale. “Cosa stai cercando?”, gli chiedono. “Ho perduto la chiave di casa”, risponde. Tutti si chinano per aiutarlo. Dopo una ricerca infruttuosa, uno di loro pensa di chiedere dove ha perduto la chiave. “A casa”, risponde Nasruddin. “Ma allora, perché la stai cercando sotto questo fanale?”, gli chiedono. “Perché qui c’è più luce!”, replica Nasruddin».
Sovente – o forse sempre – quando studiamo i fenomeni, anche giuridici, cerchiamo la chiave della casa – ossia l’oggetto del nostro studio – laddove per noi c’è luce; nei luoghi, cioè, a cui conducono le nostre conoscenze pregresse. È spesso, tuttavia, dove la luce non c’è che esso si nasconde. Cambiare prospettiva, liberarsi dalle inconsapevoli costrizioni culturali che ci impongono di guardare solo sotto il lampione e cercare invece nei luoghi bui è, quindi, spesso essenziale per trovare davvero ciò che cerchiamo. A me pare sia questo l’insegnamento della storiella: un insegnamento che Rodolfo Sacco ha seguito nel corso di tutta la sua fulgida carriera di studioso. Egli, infatti, fin da subito ha saputo illuminare i luoghi bui del diritto, trovandolo laddove nessun altro l’aveva cercato prima, perché abbagliato dalla luce del lampione.
Seguiamolo allora estrapolando alcune parti dal racconto che, nel manoscritto di cui ho detto in apertura, Rodolfo Sacco offre di sé.
«Ricordi di Rodolfo Sacco (feb. 2000).
Dotatissimo per la matematica, amavo la storia. Circostanze in contrasto con i miei desideri vollero che studiassi giurisprudenza (anni 1941-1945). Dapprima pensai di dedicarmi alla storia del diritto medievale, ma l’incontro con Mario Allara mi indusse a dedicarmi al diritto civile.
Per indicare cosa fosse Mario Allara, dobbiamo immaginare un seguace del metodo concettuale (proposto da Puchta all’inizio del secolo XIX), deciso a seguire classificazioni rigorose come quelle invocate, nell’ambiente inglese, da John Austin e da Hohfeld. Allara mi interessò perché, con il suo culto per la precisione concettuale e terminologica, si poneva problemi epistemologici, cioè cercava di elaborare un sapere criticamente vagliato; era un uomo di scienza.
Però, già nella mia tesi di laurea iniziai un percorso autonomo, il cui punto di arrivo era già fissato in modo molto nitido nei primi corsi tenuti per l’Institut d’études européennes, all’inizio degli anni ’50.
In quel tempo, avevo già ben chiaro davanti agli occhi il fatto che all’interno di ogni sistema giuridico la regola legale, la decisione giurisprudenziale e la categoria concettuale utilizzata nella scuola (e anche inserita nella legge e nella sentenza) sono relativamente autonome; e che questa loro disarmonia è messa in evidenza dalla comparazione».
Ecco dunque un giovanissimo Rodolfo Sacco che, ancora nella veste di studioso del diritto interno, pur se affascinato dal metodo dogmatico-concettuale di Mario Allara, scardina tuttavia fin dalla sua tesi di laurea un dogma che all’epoca pareva inossidabile. Si tratta del principio dell’unitarietà della regola giuridica, secondo il quale alla formulazione legislativa corrisponderebbe una e una sola interpretazione dottrinale corretta, che a sua volta ripresa dalla giurisprudenza consegnerebbe alla società la regola democraticamente stabilita dal parlamento. In una tale prospettiva i contrasti giurisprudenziali o dottrinali rappresenterebbero una patologia del sistema, che prima poi però tornerebbe alla sua fisiologia con relativo allineamento interpretativo di quelli che Rodolfo Sacco chiamerà i formanti del diritto. La ricerca nei luoghi bui del giuridico, quelli che fino ad allora erano rimasti del tutto inesplorati, porta Sacco a vedere ciò che ci vorrà molto tempo prima che altri vedano. La regola, dice già allora Rodolfo, non è unitaria, ma plurale: i singoli formanti seguono cioè strade autonome, non necessariamente coincidenti, e ciò – sostiene Rodolfo – è del tutto fisiologico. Si tratta di una prima formulazione, per così dire ancora ‘debole’, di quella che sarà poi la sua teoria dei formanti, che regalerà ai comparatisti un metodo di studio nuovo, quello strutturale, da affiancare al classico metodo funzionale. Affermare e accettare il pluralismo della regola giuridica significa altresì riconoscere un ruolo creativo, o quanto meno cooperativo, al giudice nella costruzione del diritto, ciò che non poteva che apparire blasfemo al tempo in cui Rodolfo Sacco si laureava. Questo è vero soprattutto in ambito penalistico, settore nel quale perfino i sistemi di common law – assai più pronti ad attribuire un ruolo di fonte del diritto alla giurisprudenza – nell’ipotesi di mutamento giurisprudenziale sfavorevole per l’imputato, per tutelarlo contro la sostanziale retroattività della norma non facevano uso del prospective overruling – come capitava in ambito civilistico – ma ricorreranno all’escamotage del mistake of law (l’errore di diritto in cui sarebbe incorso l’imputato a causa della sua conoscenza della previa interpretazione giurisprudenziale a lui favorevole, che peraltro non si indagava neppure fosse avvenuta) in modo da occultare il ruolo creativo del giudice[1]. Rodolfo Sacco, insomma, illuminando con il suo sguardo vigile e dissacrante le stanze buie del diritto vede già da subito ciò che gli altri non riuscivano o temevano di vedere, anticipando quanto – per il settore penale – solo decenni dopo sarebbe stato affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, in sentenze come Del Rio Prada v. Spagna del 2013, e sarebbe quindi stato finalmente riconosciuto, sia pure a malincuore, anche a casa nostra[2].
È, però, nel momento in cui si misura con la comparazione che, attraverso una ricerca lontana dalla luce del lampione, Rodolfo Sacco esplora a tutto campo le vie della scoperta di regole giuridiche fino a quel momento invisibili ed elabora quella teoria “spessa” della dissociazione dei formanti che fra i tanti forse costituisce il suo lascito più straordinario.
Continuiamo dunque a seguirlo nel racconto del suo percorso accademico:
«L’Institut d’études européennes all’epoca praticava un insegnamento postuniversitario rivolto alla comparazione giuridica. Vi ebbe subito un posto di spicco René David, e io gli fui assegnato come assistente; dopo un anno mi fu affidato un corso, e così mi preparai a dare insegnamenti comparatistici. Per me questa prima occasione fu preziosa.
Mi sentii ben presto comparatista, ed ero fiero di praticare una disciplina che, secondo me, offriva la chiave per assicurare alla scienza giuridica uno strumento epistemologico adeguato, da contrapporre al metodo dogmatico.
La mia preparazione come storico e la mia padronanza delle lingue (a 24 anni tenevo conferenze in tedesco a Vienna e lezioni in francese, a 26 anni traducevo dal russo la grande opera sulla proprietà socialista dello Stato di Venediktov) mi aiutavano a praticare tecniche comparatistiche.
Ben presto, il mio legame con il mio maestro divenne poco visibile. Ma qualcosa della sua impostazione era rimasta nel mio metodo. Egli studiava distinguendo il dato giuridico (“giuridico puro”) dai suoi correlati sociali, ambientali, politici e così via. Anch’io ho sempre tenuto distinti i dati appartenenti a piani diversi. Ciò mi ha poi permesso di isolare con chiarezza, qualche decennio più tardi, le regole giuridiche dei paesi socialisti condizionate dalla scelta socialista, e quelle cui veniva data solo per declamazione una giustificazione socialista.
In breve: molto giovane, avevo avuto occasione di frequentare studiosi di vari Paesi (fra cui René David e Esser) e analizzare in cosa consistessero le differenze fra i loro modi di ragionare in materia giuridica; avevo studiato qualche tema in modo comparativo; avevo acquisito la certezza che la comparazione ha un posto privilegiato fra gli strumenti che ci consentono una conoscenza critica del diritto.
Nel 1955 vincevo un concorso a cattedra e venivo nominato professore a Trieste (per qualche anno ero già stato professore incaricato di diritto comparato a Torino). In quel tempo era uscito il libro di Gorla sul contratto. Cercai Gorla, entrai in contatto con lui, lo considerai il mio nuovo maestro. L’opera di Gorla chiariva cosa occorra perché una promessa sia vincolante in diritto inglese e in diritto francese. La lettura della sua opera confermava la mia tesi sulla dissociazione dei formanti: le regole operazionali in Francia e Inghilterra sono simili, ma le definizioni sono antitetiche. Passai decenni a tentar di convincere Gorla che i risultati da lui raggiunti erano importanti proprio perché mostravano falsa la ricostruzione di un sistema fondata sulla sola legge, sulle sole definizioni o sulla sola casistica.
Nell’estate del 1960 incominciai a insegnare alla Faculté internationale de droit comparé di Lussemburgo. Dovevo insegnare il contratto. Fu un’occasione per basare la comparazione sulla contrapposizione dei formanti e sulla scoperta delle regole implicite (latenti) nei varii sistemi.
Alla Faculté conobbi un gran numero di persone interessanti.
Subito dopo, iniziai il mio insegnamento a Pavia. Ivi fui ascoltato dai colleghi e, quando fui preside, potei predisporre un piano di studi che faceva un posto alquanto largo al diritto comparato (sei insegnamenti). Per diffondere la conoscenza dei sistemi, curai la traduzione italiana della classica opera di R. David.
Nel 1965 presentai al pubblico due articoli scritti con cura, in cui alcuni risultati e l’ossatura del mio metodo erano messi bene in vista (cf. specialmente Définitions savantes et droit appliqué, in R.I.D.C. di quell’anno).
Nel 1970 conobbi R. Schlesinger, che era in Italia per l’VIII congresso dell’Accademia di d.c. Gli fui presentato da Gorla. In quel momento non avevo ancora letto la Formation of Contracts. Intrapresi la lettura, e constatai che R. Schlesinger si era misurato con quelle circostanze svianti che il comparatista superficiale suole trascurare (diversa mentalità, diversi presupposti tacitamente assunti dai giuristi di aree non comunicanti), e aveva trovato la procedura corretta per neutralizzarle. Constatai anche che da tutto il lavoro guidato da R. Schlesinger veniva confermato come una conoscenza del diritto operata con il sussidio di un solo formante (legge, massima giurisprudenziale, conoscenza esplicitata di giuristi del paese dato) sia unilaterale e mutilata.
Resi note le mie impressioni con una recensione (apparsa in R.D.C., 1972, II,172), che piacque a R. Schlesinger».
L’occhio del Rodolfo Sacco comparatista gli permette, dunque, di portare alla luce regole giuridiche che il non comparatista avrebbe difficoltà a individuare, perché operanti a livello crittotipico. È infatti il gioco di quella che Rudolph Schlesinger chiamava «comparazione per integrazione»[3] – è cioè la ricerca delle analogie fra sistemi che richiede all’osservatore di entrare nella prospettiva dell’altro per poi riguardarsi e così rivedersi nell’acquisita nuova luce, o che permette all’osservatore straniero di vedere in atto altrove ciò che capita a casa sua, ma che l’osservatore interno non riesce a scoprire – che consente a Rodolfo Sacco di notare la possibile discrasia fra regola declamata e regola operazionale ai vari livelli di formanti, nei differenti sistemi che analizza. La scoperta è esplosiva per la comparazione giuridica e per la conoscenza scientifica tutta, poiché idonea a rivoluzionare le conclusioni cui si sarebbe pervenuti laddove si fosse rimasti al livello superficiale delle mere declamazioni. È una comparazione spessa, profonda, quella immaginata da Sacco, laddove l’occhio terzo del comparatista illumina le regole operazionali vigenti – pur tuttavia nascoste alla vista del giurista interno – nei diversi sistemi, trovando spesso convergenze inaspettate, insospettate e invisibili per il non comparatista. È il metodo strutturale realizzato attraverso una dissociazione dei formanti complessa, che trova nutrimento nella comparazione, la cui paternità – con grandissima umiltà – Rodolfo non attribuirà a se stesso, ma ai suoi maestri, Gino Gorla e Rudolph Schlesinger, di cui dirà di aver semplicemente messo in bella copia le idee[4]. È in realtà un metodo completamente nuovo, che Rodolfo Sacco –pur ispirato dal lavoro dei suoi maestri – mette a punto in modo del tutto originale (ed esplicita poi nelle famose Tesi di Trento del 1987[5]), consegnando alla comparazione l’importantissimo compito di illuminare le zone d’ombra del diritto ovunque. Un compito “sovversivo”, come poi George Fletcher[6] e Horatia Muir-Watt[7] rimarcheranno, ideato paradossalmente da chi nella vita quotidiana è sempre stato estremamente attento a rispettare le convenzioni sociali, ma il cui spirito di combattente partigiano in tempi di pace sembra essersi trasposto sul piano della ricerca accademica.
Mosso dal desiderio di illuminare i luoghi bui del diritto per svelarlo nella sua interezza e complessità, Rodolfo Sacco non può certo fermarsi all’analisi della tradizione giuridica occidentale. Ecco, dunque, nel suo racconto come egli allarga i confini della sua ricerca:
«Intanto le circostanze vollero che mi recassi con un certo ritmo in alcuni paesi socialisti (Cecoslovacchia, Bulgaria, Polonia, dal 1964 al 1975) e africani (Somalia, Marocco, dal 1970 al 1988).
[…] Dagli ultimi anni ho preso a sottolineare come il diritto sia stato rivoluzionato da innovazioni di importanza primordiale – incominciando dall’ultimo in ordine di tempo: il legislatore onnipotente, il giurista, lo Stato e il potere centralizzato, il soprannaturale, il linguaggio articolato –.
La contrapposizione dei vari formanti mi ha fatto constatare che anche in un paese di diritto legislativo e dunque scritto il diritto non si trova tutto nella legge scritta. Altri elementi (non scritti) sono anch’essi fonte concorrente di diritto. Parte del diritto è dunque latente (io parlo a questo proposito di crittotipi). Negli ultimi dieci anni ho sviluppato ampiamente questa conclusione. È sopravvissuta nell’epoca contemporanea la tecnica giuridica senza linguaggio, che operava quando i nostri antenati non possedevano il linguaggio articolato (la consuetudine è appunto una fonte che non adopera la lingua, e ha un campo d’azione molto superiore a quello che si crede). L’interpretazione, per parte sua, mobilita una serie di fattori non scritti, e li rende attivi nell’applicazione della legge o delle altre fonti che usano la parola (precedente giurisprudenziale e insegnamento dottorale)».
L’incontro in particolare con l’Africa, gli fa vestire i panni dell’antropologo giurista e, precorrendo i tempi, in un periodo in cui fra i giuristi italiani Bronislaw Malinowski era certamente ancora poco noto, Rodolfo Sacco diviene “osservatore partecipe”, scoprendo l’esistenza di un diritto senza legislatore, senza giurista, senza Stato e senza potere centralizzato[8]. Il diritto praticato in Africa non è, o non è solo, il diritto insegnato all’Università, scritto nei codici o applicato dalle Corti formali di giustizia: è anche – e soprattutto – un diritto invisibile agli occhi del giurista occidentale, poco disposto a far rientrare nell’ambito del giuridico ciò che non corrisponde alla sua idea di giuridicità. Come sempre capace di trovare la “chiave di casa” nei luoghi carenti di illuminazione, Rodolfo Sacco si cala dunque in un mondo ancora sconosciuto al giurista di casa sua e porta alla luce regole giuridiche non scritte e a volte neppure esplicitate. Scopre così l’esistenza di un diritto stratificato, laddove più registri giuridici si applicano all’interno di uno stesso contesto spazio-temporale, alcuni dei quali visibili e altri non visibili agli occhi di chi limita i confini del giuridico al piano formale. Comprende anche che un diritto sfuggente e inconscio esiste al di là del linguaggio: è il diritto «il cui rispetto è garantito da un gioco di ghiandole ed ormoni, un diritto che Sacco definisce muto perché formato da regole non verbalizzate ma direttamente attuate in presenza di certi stimoli»[9].
Così, mentre interroga il diritto nella sua macrostoria[10], riguardando se stesso e il proprio sistema con le nuove lenti teoretiche ormai acquisite, Rodolfo Sacco ci rende consapevoli del fatto che le dinamiche giuridiche dell’altro sono anche le nostre: il diritto informale e il diritto muto sono ancora parte pure della nostra realtà giuridica. Seguendo un’impostazione di analisi lontana dalla positional superiority condannata da Edward Said, coerente invece con quella comparative consciousness di cui ci parla Laura Nader[11] o con la pratica di «dialogo dialogico» con l’altro consigliata da Raimon Panikkar[12], Sacco mette tutti i sistemi sullo stesso piano ed esplora a 360 gradi il panorama giuridico, realizzando l’aspirazione dei realisti statunitensi, come Herman Oliphant, di uscire dalle biblioteche per studiare un diritto che in fondo «è ampio quanto la vita stessa», secondo il punto di vista di Karl Llewellyn[13].
Sacco rappresenta, dunque, in grande misura il passato e il presente della comparazione. Egli ci offre però anche un’importante lezione per il futuro. In tempi di alta conflittualità, in un momento storico in cui per la prima volta da tanto tempo a questa parte le grandi potenze globali sono tutte pericolosamente coinvolte, il suo sembra essere un messaggio di possibile incontro fra diversi. Il mondo multipolare, che un giorno forse vedremo realizzato, potrà essere pacificamente mantenuto in vita se, così come la teoria sacchiana della dissociazione dei formanti ci ha insegnato, saremo capaci di guardare oltre il lampione, dove la luce non c’è, per trovare i tanti punti di incontro nascosti sotto la superficie delle assai visibili ragioni di scontro.
[1] Sul punto si consenta un rinvio al mio La sentenza 364/88 della Corte Costituzionale e l’esperienza di common law. Alcuni possibili significati in tema di errore di diritto, in Il Foro Italiano, 113, 1990 e Giurisprudenza costituzionale e civile, 1990, pp. 415/416-427/428; o a Principio di legalità e diritto giurisprudenziale: un antinomia?, in Politica del diritto, 1996, pp. 469 ss.
[2] Cfr. fra i tanti lavori, l’analisi svolta sul punto da S. Riondato, Retroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole tra legalità e ragionevolezza, in Diritto e Clinica per l’analisi della decisione del caso, Atti di un Seminario, Padova, 2000, pp. 239 ss.
[3] R.B. Schlesinger, Il passato e il futuro della comparazione giuridica. Lezione tenuta in occasione della laurea honoris causa attribuitagli dall’Università degli studi di Trento l’8 marzo 1995.
[4] Cfr. Intervista a Rodolfo Sacco di P. Cendon (a cura di), in Cos’è il diritto comparato, Milano, 1992.
[5] Le si veda al sito: http://www.jus.unitn.it/faculty/guida/tesi.html.
[6] G. P. Fletcher, Comparative Law as a Subversive Discipline, in The American Journal of Comparative Law, 46, 1998, p. 683.
[7] H. Muir-Watt, La fonction subversive du droit comparé, in Revue internationale de droit comparé, 2000, p. 503.
[8] Su cui poi si veda il suo Le Grandi epoche del diritto, Torino, 1996.
[9] Così A. Gianola, Evoluzione e diritto, in Rivista di diritto civile, 2, 1997, p. 413 ss., nota 9. Per approfondimenti si veda R. Sacco, Il diritto muto. Neuroscienze, conoscenza tacita, valori condivisi, Bologna, 2015.
[10] R. Sacco, Per una macrostoria del diritto, in Rivista di storia economica, 3, 2011, p. 393.
[11] Cfr. fra gli altri L. Nader, A Comparative Consciousness, September 10, 2019, disponibile al link: https://culanth.org/fieldsights/a-comparative-consciousness.
[12] Cfr. https://www.raimon-panikkar.org/english/gloss-dialogical.html.
[13] Si confronti quanto riportato da W. Twining, Karl Llewellyn and the Realist Movement, Londra, 1973, p. 571.
Lo scritto è destinato a una raccolta in suo onore in corso di stampa presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, fondata da Rodolfo Sacco (Trento e la comparazione giuridica: voci, esperienze e riflessioni, a cura di L. Antoniolli, F. Cortese, E. Ioriatti e B. Marchetti).