Un risveglio diverso quello di lunedì nove marzo per noi tirocinanti del Tribunale di Pisa: esonerati dal frequentare gli Uffici giudiziari in ossequio alle direttive rilasciate a seguito dell’emergenza sanitaria.
Alla luce del decreto 8 marzo 2020, in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Corona Virus, la Lombardia e quattordici province, attanagliate dal contagio, diventavano zona rossa.
In un clima di incertezza assoluta, a scopo precauzionale, siamo stati dispensati dal presenziare nelle aule di tribunale. Una scelta che alcuni di noi hanno mandato giù, non comprendendone fino in fondo le ragioni, dato che Pisa ci sembrava lontana dal mirino del COVID-19 o, perlomeno, eravamo convinti che, con le dovute cautele e nel rispetto delle indicazioni di carattere igienico-sanitario, fossimo in grado di tenere la situazione sotto controllo. Sin da subito il nostro tribunale ha provveduto a spalmare su più giorni le udienze coincidenti per data, per evitare ingestibili assembramenti; ad organizzarsi per effettuare le udienze indifferibili e urgenti in videoconferenza e ha concesso una serie di rinvii. Nel frattempo, in poche ore, un’escalation di eventi fuori controllo ha condotto il Presidente del Consiglio ad emanare l’ormai noto Dpcm 11 marzo 2020. L’Italia si è trasformata in un gigantesco stivale rosso. Le misure adottate sono diventate via via più restrittive per far fronte al numero dei contagi che cresce esponenzialmente. La regola madre è semplice, tre possono essere le ragioni degli spostamenti: motivi di lavoro, di salute o di necessità.
È impossibile pensare ad uno stop della “macchina Giustizia”. È un servizio essenziale per antonomasia. Il cittadino ha bisogno di tutela, di accertamenti, di sicurezza nei rapporti giuridici. Il tribunale non ha serrande da abbassare, ha, invece, l’obbligo di lasciare la porta sempre aperta per dare “udienza” a chi lo richiede. E corrisponde a verità che si parla di un luogo in cui gli assembramenti sono all’ordine del giorno e si viene in contatto con gente di tutti i tipi e di tutte le estrazioni di cui non si può stabilire sempre la provenienza. È comprensibile che, durante l’ondata di panico generale, alcuni “utenti della Giustizia” abbiano richiesto chiara e inequivocabile protezione al ministro della Giustizia, alla luce della chiusura di scuole, cinema e stadi. È parimenti intelligibile che la primaria esigenza di comprimere l’epidemia dovesse sposarsi con l’altrettanto basilare necessità di non cancellare l’esercizio del potere giudiziario. Voglio credere che sia questa l’ottica con cui sono state varate le norme attualmente vigenti.
Per evitare il tracollo del nostro sistema sanitario nazionale ci hanno esortato prima e obbligato poi a stare a casa. Poiché si è rivelato insufficiente affidarsi al buon senso del cittadino medio, le disposizioni accavallatesi in pochi giorni hanno preso una deriva fortemente limitativa delle libertà nel nome di interessi superiori. Noi, operatori del diritto, siamo i primi a doverci attenere pedissequamente alle norme. Cercando in tutti i modi di capirne la ratio anche se, in ultimo, non la condividiamo. In tribunale siamo esortati ad approfondire, a studiare, a comprendere la volontà del legislatore che deve “farsi carne”. E questa missione non può andare in quarantena.
Sì, io resto a casa, ma il mio tirocinio continua. Prontamente i nostri magistrati affidatari ci hanno assegnato dei lavori da poter condurre a casa, come casi di studio e redazione di bozze di provvedimenti. È innegabile, però, che il confronto con le aule in cui si decide della sorte delle parti è un aspetto irrinunciabile di questo affascinante mestiere. È quello il luogo in cui puoi imparare a calibrare il tuo personale grado di oggettività. Ed è solo osservando e ascoltando chi, con competenza, professionalità e assennatezza, si vota a questo lavoro che puoi tratteggiare l’immagine del magistrato che vuoi essere. Allontanarsi da un ambiente stimolante non è semplice.
Con orgoglio riporto che il mio tribunale ha cercato subito di tenere vivo il nostro coinvolgimento. Ci è stato assegnato un tema di diritto civile, prevedendo una fase di studio, con indicazione di materiali a supporto, e una deadline per la stesura. È prevista poi una correzione e discussione collettiva. Auspico che questa iniziativa sia presa come un buon esempio da emulare da parte di altri magistrati, i quali metteranno a disposizione dei proprio tirocinanti il loro tempo e la loro esperienza. E sono certa che questa disponibilità sarà lautamente riconosciuta da noi, “apprendisti del diritto”, con una dedizione ancora più grande nel portare a termine i compiti che ci vengono assegnati.
Da parte nostra, non deve sfuggirci di essere parte di una generazione assai fortunata. Possiamo avere accesso a tutto, come direbbe qualche slogan pubblicitario, “comodamente da casa”. Siamo iper-connessi a tutte le ore, bombardati da mille informazioni e spunti. Possiamo abbattere le distanze con un solo click ed esplorare quasi tutte le fonti disponibili in maniera gratuita. Possiamo partire da qui.
Mezzi come Skype, Hangout, Microsoft Teams e tanti altri, ci permettono di non vivere una vera e propria reclusione. E non approfittarne sarebbe un sacrilegio. Possiamo utilizzare questi strumenti per dar vita, ad esempio, a dei talk, organizzati in sessioni, su precisi argomenti, in cui ogni tirocinante cerca di condensare, in un massimo di quindici minuti, un tema. E questo potrebbe essere utile sia allo scopo di ripetere argomenti a cui è sempre bene dare una rinfrescata, sia al fine di approfondire tematiche che, durante le giornate più impegnative, ci ripromettiamo di andare a riscovare, ma che puntualmente rimangono insondate.
Possiamo utilizzare questi spazi virtuali anche per confrontarci sui nostri rispettivi metodi di studio, scambiarci le competenze, confrontarci sui libri di testo adottati. Creare una community viva, dove non si seminano angoscia e frustrazione nell’attesa di affrontare l’impegnativo concorso che ci attende. E, non da ultimo, spronarsi a vicenda. Cercare la forza nella motivazione e trasfonderla negli altri colleghi. Fare gruppo dentro e fuori il Palazzo di Giustizia. Perché il lavoro in team è un lavoro più produttivo che porta con sé una visione d’insieme delle cose, che colma le lacune del singolo grazie al potere dell’insieme. E se da una parte il lavoro del magistrato è un lavoro soprattutto individuale è anche vero che è l’ufficio nel suo complesso a dover funzionare, in nome del corretto funzionamento della Giustizia. Non si possono avere mire lontane se tutti gli ingranaggi non sono allineati.
“Tempi bui che necessitano di competenze”, così ha tuonato un giudice mentre ci ha augurato buon lavoro, deciso a non abbandonarci davanti a Netflix. Questo rappresenta l’affidatario per noi. Un maestro che col buon esempio e la fiducia nelle tue capacità, ti offre tutto ciò ha visto, ha assorbito, ha eviscerato e poi, ti conduce fino al punto in cui devi spiccare il volo, da solo. Non distoglie lo sguardo dal tuo operato e redige con te il bilancio finale.
Sfruttando al massimo queste opportunità in maniera coscienziosa e contribuendo vicendevolmente a fare chiarezza sulle cose possiamo conquistare un quid pluris. Questo percorso può aiutarci ad essere sempre più solidi durante gli attacchi di panico generale e più impermeabili rispetto al mare di fake news in cui sguazziamo.
Concludo con l’immagine delle file ordinate dei giapponesi, all’alba dell’11 marzo 2011, dopo che un violentissimo tsunami si abbatté sul Giappone, causando quasi sedici mila morti e un guasto alla centrale elettrica di Fukushima. La nazione stremata fu chiamata a fronteggiare l’isolamento interno, la scarsità di energia elettrica, l’evacuazione di alcune zone, la redistribuzione degli sfollati e il razionamento di cibo e risorse. In quella circostanza il mondo ha assistito ad una grande lezione di civiltà. I giapponesi ci hanno mostrato come si gestisce uno stato di emergenza: niente fuga, se non ordinata; rispetto delle regole, con code lunghe centinaia di metri per fare una telefonata, fare benzina o prendere la razioni di cibo. Un caos calmo.
Solo l’etica pubblica e il rispetto delle regole possono rappresentare la via da percorrere per uscire da queste situazioni e tornare ad una vita normale. Ognuno di noi deve fare propri i principi della Costituzione. Mentre le terapie intensive italiane sono messe in ginocchio, dovremmo ricordarci cosa i nostri padri costituenti hanno scritto in merito ai temi della salute. All’art. 32 della Costituzione si legge “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”. Questo diritto non è garantito in tutti i paesi del mondo. Per il nostro Paese, la creazione del Sistema Sanitario Nazionale è stata una grande conquista. Quindi, in un momento drammatico come questo, cerchiamo individualmente di rispettare le disposizioni delle istituzioni e di rappresentare al meglio questo principio.
Voglio fare mie le parole di una celebre scrittrice giapponese, Banana Yoshimoto, la quale, alla luce del disastro nucleare di Fukushima, regalò questa iniezione di coraggio: “Io non voglio smettere di sorridere, voglio mantenere la mia libertà di pensiero e affrontare con coraggio le avversità”.