La capacità del pubblico ministero di effettiva guida delle indagini nei rapporti con la Polizia giudiziaria
Il ruolo del pubblico ministero nel codice di procedura penale è connotato da un peculiare carattere garantista, che si esprime con particolare intensità nella funzione di direzione delle indagini che gli è attribuita. I rapporti con la Polizia giudiziaria richiedono specifiche capacità professionali del pubblico ministero, indispensabili per svolgere quel ruolo di direzione, che non si limitano alle conoscenze giuridiche ma che a quel fine consistono anche nell’autorevolezza, nella capacità di ascolto e nella conoscenza effettiva dello svolgimento del lavoro di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria.
Munito di questi presidi, il pubblico ministero è in grado di evitare effetti distorsivi, potenzialmente derivanti dall’inquadramento professionale della Polizia giudiziaria in organismi gerarchicamente organizzati e che rispondono al potere esecutivo.
A fronte di queste esigenze positive stanno talune prassi patologiche che non attengono a carenze di professionalità, ma alla torsione patologica della funzione: rapporti di tipo personalistico, finalità che non si esauriscono nel fisiologico perimetro processuale, ricerca di risonanza mediatica o di realizzazione di obiettivi del tutto personali.
Il delicato equilibrio disegnato dal legislatore va presidiato garantendo qualità ed effettività al ruolo di direzione delle indagini assegnato al pubblico ministero: in questo senso decisiva è la sensibilità che sono in grado di porre in campo la dirigenza degli uffici e il circuito dell’autogoverno.
1. Il pubblico ministero nelle indagini: una connotazione garantista
Il codice di procedura penale stabilisce in modo perentorio (art. 327) che «Il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della Polizia giudiziaria».
La scelta del legislatore è, come si vede, molto netta; è una scelta forte, in virtù della quale un soggetto inserito appieno nella giurisdizione – e dotato pertanto di uno Statuto assai marcato di autonomia ed indipendenza – è insediato nel cuore dell’attività d’indagine con funzioni di esclusiva direzione delle stesse.
Questa peculiarità del nostro sistema processuale e ordinamentale è, a mio avviso, estremamente preziosa: non dovremmo mai sottovalutare il ruolo essenziale per gli stessi equilibri democratici che la magistratura requirente ha avuto negli ultimi decenni nel nostro Paese, grazie alla capacità di sviluppare indagini incisive a 360°, vincendo pressioni e condizionamenti e contrastando in modo efficace pulsioni eversive ed antidemocratiche che talora avevano coinvolto anche segmenti importanti delle istituzioni. E non vi è alcun dubbio che l’efficacia di questa iniziativa della magistratura requirente nell’Italia repubblicana è stata resa possibile anche dalla felice sinergia con molta parte della Polizia giudiziaria, che a sua volta si deve, in larga misura, all’assetto più sopra sommariamente tratteggiato e al peculiare equilibrio disegnato dal nostro sistema processuale.
Si tratta, va detto subito, di un assetto connotato strutturalmente da un peculiare carattere “garantista” del ruolo del pubblico ministero che traspare in tutto l’ordito del codice Vassalli, dalla assai nota previsione dell’art. 358 alla fitta trama di regole processuali dettata dal codice: le indagini sono condotte dal pubblico ministero per assicurare che le attività «necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale» (art. 326 cpp) non comprimano i diritti dei cittadini oltre il limite segnato dalle norme della Costituzione e si sviluppino senza trascurare gli accertamenti su «fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini». In coerenza con tale disegno, la legge attribuisce al procuratore della Repubblica il dovere di assicurare il «corretto esercizio dell’azione penale», laddove il riferimento alla correttezza delle indagini deve indubbiamente intendersi finalizzato principalmente alla necessaria garanzia del rispetto delle regole nel corso delle investigazioni.
Con questa connotazione garantista è, del resto, del tutto coerente la posizione ordinamentale del pubblico ministero, perché insediare un magistrato nel cuore stesso dell’attività d’indagine significa valorizzare non solo la sua inevitabile funzione garantista “in negativo” (limitazione delle manifestazioni di potere della Polizia giudiziaria che intacchino i diritti di libertà del cittadino) ma anche e soprattutto esaltarne la declinazione “positiva” che si manifesta nell’ancorare saldamente la direzione dell’attività d’investigazione penale - dei suoi indirizzi e delle scelte, spesso delicate, che comporta - allo Statuto di autonomia e indipendenza proprio del pubblico ministero, uno Statuto del tutto equiparato, nel nostro Paese, a quello del giudice.
Si tratta di un equilibrio prezioso e delicato che dovremmo tutti avere a cuore e che esige di essere preservato, perché inevitabilmente soggetto ad appannarsi o addirittura ad infrangersi se non adeguatamente e attentamente presidiato.
Questo equilibrio poggia soprattutto sulla effettività (e qualità) della direzione delle indagini da parte del pubblico ministero.
Il punto merita di essere approfondito, perché tocca un tema particolarmente complesso e difficilmente riconducibile a un preciso schema normativo. Anzi, il concetto stesso di “direzione” modella una funzione di primazia il cui fulcro non è l’esercizio del formale potere di decidere, ma la capacità di orientare i comportamenti di soggetti diversi e distinti in virtù, in primo luogo, della capacità di esercitare con piena consapevolezza ed autorevolezza il proprio ruolo istituzionale.
Spetta agli uffici del pubblico ministero determinare le condizioni perché questo possa avvenire, e competono più in generale ai vari protagonisti del sistema ordinamentale – a partire dagli organi dell’autogoverno e della formazione – azioni proattive volte a favorire che queste condizioni si determinino.
È bene essere consapevoli di un ulteriore aspetto rilevante: non viene qui in gioco, in primo luogo, il contenuto delle regole processuali, perché le condizioni che consentono di mantenere nell’effettiva sfera del pubblico ministero la direzione delle indagini maturano (o non maturano) all’interno del complesso sistema delle prassi che si diffondono tra i pubblici ministeri e nei vari reparti di Polizia giudiziaria e interferiscono con gli assetti di potere e di effettiva decisione che vigono nelle Procure della Repubblica.
Se questo è il terreno su cui occorre misurarci, la difficoltà di approccio è evidente. Affronterò la questione toccando tre aspetti tra loro inevitabilmente collegati: la professionalità del pubblico ministero, le prassi patologiche più ricorrenti, il ruoli della dirigenza degli uffici e dell’autogoverno
2. La professionalità del pubblico ministero e la direzione delle indagini
Dovrebbe essere evidente – certamente lo è per tutti i pubblici ministeri – che la professionalità del pubblico ministero, se pure si articola in molteplici competenze, dipende in misura estremamente significativa dalla qualità che è in grado di esprimere nell’attività di direzione delle indagini.
È tuttavia altrettanto rilevante che, la centralità del tema non lo rende adeguatamente visibile né nelle procedure di elaborazione delle attività di organizzazione degli uffici, né nei percorsi di valutazione dei magistrati e dei dirigenti, né infine nelle occasioni di carattere formativo. Per meglio dire: vi è una certa attenzione al tema generale della professionalità del magistrato e una focalizzazione già un po’ minore sui temi della specifica professionalità del magistrato inquirente, ma il tema della peculiare professionalità richiesta nell’attività di direzione della Polizia giudiziaria è appena lambito.
La conseguenza è che, a partire dal “sapere” che si forma e circola nella rete dell’autogoverno e della formazione, manca adeguata elaborazione.
Quali sono i tratti che contraddistinguono questo peculiare segmento di professionalità?
In prima approssimazione direi che sono essenziali due aspetti: autorevolezza e consapevolezza del proprio ruolo.
3. Il pubblico ministero autorevole: specializzazione e lavoro sulle carte
L’autorevolezza è la chiave di volta di ogni seria attività di direzione, perché il proprium dei ruoli direttivi è, come si accennava, la capacità di orientare i comportamenti di soggetti diversi e distinti mediante l’uso della persuasione e grazie alla capacità di leadership, facendo uso solo in via eccezionale dei poteri formalmente attribuiti. Naturalmente l’autorevolezza è legata in primo luogo alla competenza.
Diamo per scontata la preparazione giuridica (di cui comunque molta parte del sistema si occupa). La competenza specifica che il pubblico ministero dovrà mettere in campo, quella che peserà inevitabilmente nei rapporti con la Polizia giudiziaria è piuttosto la capacità di calare il sapere giuridico acquisito nelle concrete vicende connesse alle investigazioni.
A questo fine rilevano in particolare due aspetti essenziali.
In primo luogo, la funzione del pubblico ministero in una società sempre più complessa richiede una crescente specializzazione, perché l’oggetto delle indagini e dei processi più rilevanti interseca con grande frequenza ambiti tecnici e saperi settoriali, nell’ambito dei quali il pubblico ministero, per svolgere adeguatamente la propria funzione, dovrà avere acquisito conoscenze non giuridiche “di settore”: nelle indagini per reati economici occorre avere un minimo adeguato di nozioni sulla contabilità, sui bilanci, ecc.; se si trattano gli infortuni sul lavoro sono parimenti necessarie alcune conoscenze settoriali “di base”, e così via. Si tratta di un fenomeno ben noto, che ha dato luogo alla creazione, in tutte le Procure di dimensioni almeno medio-piccole, ai gruppi di lavoro specializzati ed alla ben nota normativa volta a gestire anche le ricadute pericolose della indispensabile specializzazione.
Date le premesse, è evidente che solo un magistrato che si doti delle necessarie competenze settoriali potrà esercitare il suo ruolo di direzione delle indagini in modo credibile, consapevole ed efficace. Occorre del resto tener presente che, in molti casi, la Polizia giudiziaria è specializzata e se il pubblico ministero ignora i rudimenti delle conoscenze settoriali implicate dalle indagini, l’interlocuzione con chi conduce le indagini sarà fatalmente inefficace e quindi risulterà quasi impossibile una effettiva direzione delle stesse.
In secondo luogo, è indispensabile che il pubblico ministero curi di acquisire una conoscenza approfondita degli atti del procedimento: è, anch’essa una precondizione di base per esercitare credibilmente ed efficacemente un ruolo di direzione effettiva delle indagini.
Attenzione: l’enunciazione astratta del principio è ovviamente generalmente condivisa. Le prassi, tuttavia, sono spesso di segno diverso. Gli esempi si sprecano. Si pensi al diffuso costume di “appaltare” totalmente alla Polizia giudiziaria la gestione delle intercettazioni telefoniche (redazione delle richiesta di proroga, ecc.), limitando l’intervento del pubblico ministero alla verifica superficiale della minuta predisposta ad opera degli operanti o del personale applicato in Procura e riservando un’analisi approfondita del materiale al momento del deposito dell’informativa finale. Questa prassi non solo elude il dovere di direzione delle indagini, ma non giova all’autorevolezza del pubblico ministero nel momento in cui dovranno essere effettuate scelte operative anche assai delicate (estendere o meno a un certo soggetto le intercettazioni, effettuare o meno una perquisizione o un pedinamento, ecc.). La professionalità, in simili casi, si esprime nella redazione personale delle richieste e nel colloquio costante con la Polizia giudiziaria che organizza l’ascolto sugli esiti delle attività intercettive, giungendo sino all’ascolto personale delle fonie nei casi, pur non frequenti, in cui questo sia necessario o opportuno per una maggiore consapevolezza dell’effettivo contenuto delle stesse (un certo tono di voce, ecc.).
4. La capacità di ascolto
L’esempio appena tratteggiato consente di evidenziare un altro profilo della professionalità del pubblico ministero che ha molto a che fare con la sua necessaria autorevolezza: la capacità di ascolto.
Rispettare il ruolo che l’ordinamento assegna alla Polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini non solo è conforme a quanto previsto dal codice («il pubblico ministero e la Polizia giudiziaria svolgono, nell'ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie», art. 326 cpp), ma è, prima ancora, il modo corretto di dirigere le investigazioni non “sulla carta” ma in modo effettivo. Questo rispetto significa, anzitutto, capacità di ascolto: la Polizia giudiziaria ha strutturalmente una conoscenza dei fatti più approfondita ed estesa rispetto al pubblico ministero ed ha solitamente un’esperienza e una competenza superiore al pubblico ministero con riferimento agli aspetti tecnici della conduzione degli specifici atti di indagine. È importante che questi saperi e queste competenze entrino in comunicazione con il pubblico ministero, così che questi riesca a trasmettere, a sua volta, il proprio sapere, che è sostanzialmente quello legato al rispetto rigoroso delle regole e alla proiezione processuale delle investigazioni. Il dialogo è indispensabile e si può fondare solo sulla reciproca capacità di interlocuzione con mente aperta.
Questo, si badi, vale sia nei casi meno rilevanti, sia con riferimento alle più articolate e complesse attività d’indagine. Ad esempio, anche un banale colloquio con la Polizia giudiziaria in occasione di un arresto in flagranza di cui dovrà esser chiesta la convalida esige che si sviluppi un confronto attento alle ragioni dell’interlocutore, specialmente quando, come non di rado accade, si profili una situazione quantomeno dubbia in ordine ai presupposti dell’arresto: una decisione che giunga “prima e a prescindere” da un’adeguata interlocuzione con coloro che hanno operato l’arresto sarà comunque sbagliata, perché destinata a minare il rapporto di fiducia e di ascolto che deve strutturalmente connotare l’attività di direzione del pubblico ministero, incidendo negativamente sull’autorevolezza del magistrato. Il pubblico ministero che dispone la liberazione di un arrestato limitandosi ad esercitare il potere che gli compete senza spiegare le ragioni della sua scelta e senza prendersi l’onere di confutare pazientemente le osservazioni di coloro che stanno operando “sul campo” non ha esercitato correttamente e professionalmente il proprio potere/dovere di direzione. Nello stesso tempo il pubblico ministero che non sia in grado, dopo aver ascoltato adeguatamente, di assumere motivatamente decisioni sgradite agli interlocutori di Polizia giudiziaria che hanno operato l’arresto, non solo viene meno al proprio ruolo fondamentale di garanzia, ma non acquisisce certo autorevolezza presso i suoi interlocutori.
La necessità di ascolto, naturalmente, è ancora più necessaria quando si tratti di complesse indagini. In tal caso è essenziale che si crei una virtuosa sinergia tra i vari soggetti che, a diverso titolo, conducono le investigazioni e, quindi, è indispensabile che il pubblico ministero, oltre ad approfondire la conoscenza degli atti, sia continuamente disponibile all’interlocuzione e aperto alle ragioni degli interlocutori. Solo in tal modo potrà essere effettivamente ascoltato e potrà operare al meglio per dirigere le investigazioni secondo la logica processuale dell’esito dibattimentale.
5. La consapevolezza del proprio ruolo di garanzia
Ma, nei rapporti con la Polizia giudiziaria, il profilo professionale del pubblico ministero deve connotarsi, oltre per l’autorevolezza, anche per la consapevolezza del proprio ruolo. Giova ribadire quanto già richiamato in premessa: l’ordinamento assegna al pubblico ministero un ruolo centrale nell’attività di indagine per valorizzare, tra l’altro, le potenzialità della sua collocazione ordinamentale e del suo Statuto forte di autonomia e indipendenza, anche, se del caso, nei rapporti con la Polizia giudiziaria.
Gli effetti si produrranno in molte direzioni.
Da un lato il ruolo centrale del pubblico ministero consente un presidio certamente più efficace dei diritti di libertà del cittadino costituzionalmente garantiti: gli interventi “di garanzia” del pubblico ministero rappresentano il segnale – normativamente disciplinato – di un dovere “rafforzato” di verifica in presenza della possibile, peculiare, interferenza delle indagini con beni primari. Un intervento, quindi, particolarmente efficace, perché del tutto “interno” all’attività di indagine, ben diverso da quello del giudice che le indagini non solo non dirige, ma che, in generale, neppure conosce se non per la parte indispensabile all’esercizio dei poteri di controllo che gli competono.
In secondo luogo il legislatore, affidando al pubblico ministero la direzione delle indagini, intende ancorare saldamente le attività di investigazione ai fini istituzionalmente stabiliti, il cui esclusivo sbocco sono le «determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale» (art. 326 cpp). Lo Statuto di indipendenza del pubblico ministero dovrebbe quindi rappresentare una garanzia anche con riferimento alle possibili interferenze che potrebbero prodursi per effetto della diversa connotazione delle forze di polizia, alle quali solitamente sono affidate le indagini. L’inquadramento professionale degli ufficiali di Polizia giudiziaria in organismi gerarchicamente organizzati e che rispondono al potere esecutivo, così come i meccanismi che governano i percorsi di carriera nelle forze di polizia sono infatti fattori che possono introdurre nell’attività di indagine, anche in modo inconsapevole, elementi impropri idonei a produrre effetti distorsivi. Anche in questo caso qualche esempio può soccorrere.
È noto che frequentemente sui profili professionali di coloro che dirigono reparti territoriali (commissariati di Polizia, stazioni o compagnie dei Carabinieri, ecc.) si assegna un peso non trascurabile al numero di arresti effettuati o di sequestri eseguiti. Sino a che questo fattore genera un maggiore impegno nel controllo del territorio e nell’attività di contrasto, nulla quaestio. Il rischio è che questa legittima spinta si traduca in una tendenza degli operatori a forzare i limiti fissati dalla legge, ed è ovvio il dovere “professionale” di un pubblico ministero consapevole del ruolo di garanzia che gli assegna l’ordinamento.
Ancora: poiché sulla carriera degli ufficiali delle forze di Polizia pesano gli effetti talvolta anche mediatici delle indagini da loro condotte, tutte le volte in cui le investigazioni giungono in prossimità di ambienti che finirebbero per conferire ad eventuali provvedimenti una significativa risonanza esterna (ad esempio per il coinvolgimento di persone dello spettacolo, noti imprenditori, importanti amministratori o personaggi politici) vi sarà il serio rischio che l’attività della Polizia giudiziaria venga surrettiziamente influenzata dall’ansia di conseguire risultati mediaticamente spendibili. Anche in questo caso è abbastanza ovvio il dovere “professionale” di un pubblico ministero consapevole del ruolo di garanzia che gli assegna l’ordinamento, garanzia che deve valere a 360°.
Per converso, analogo ruolo di garanzia deve essere attivamente esercitato nel caso opposto, che pure si verifica: vale a dire nelle ipotesi in cui l’incardinamento della Polizia giudiziaria in organismi che fanno capo al potere esecutivo finisca per favorire inerzie o addirittura opacità. Spetterà in questi casi ad un corretto e fermo esercizio del potere/dovere di direzione delle indagini contrastare la creazione, in via di fatto, di vere e proprie “zone franche” per questo o quel potere di diritto o di fatto. La storia di questo Paese ci offre numerosi esempi virtuosi in tal senso e indica che in questi casi, se il magistrato non è lasciato solo, la forza della “giurisdizione dentro le indagini” può prevalere su indebite inerzie o timidezze.
6. Le prassi patologiche
Nel descrivere “in positivo” i tratti del profilo professionale del pubblico ministero con riferimento al suo potere/dovere di direzione delle indagini, ho già fatto numerosi riferimenti a prassi non corrette o seccamente sbagliate che sono tuttavia largamente diffuse. Non mi ripeterò, perché sono facilmente decifrabili anche su questo specifico terreno le carenze di professionalità riconducibili a modelli di magistrato del pubblico ministero caratterizzati da sciatteria, disinteresse, atteggiamenti burocratici, ecc.
Vi sono però, variamente diffuse, patologie che non attengono a carenze di professionalità, ma alla torsione patologica della funzione o a inadeguatezze nell’esercizio dei poteri/doveri di direzione degli Uffici di procura.
La prima patologia rappresenta, in qualche modo, la degenerazione di quella sinergia tra pubblico ministero e Polizia giudiziaria che è in generale un obiettivo da perseguire, perché è un presupposto importante dell’efficace azione e del corretto indirizzo delle investigazioni. Tuttavia è importante che questa sinergia non finisca per creare un rapporto di tipo personalistico tra un pubblico ministero specifico ed uno specifico reparto di Polizia giudiziaria.
Sul punto è bene non fare confusione: sia nelle piccole Procure, sia negli Uffici di più grandi dimensioni è del tutto normale che, a partire dalle reciproche competenze ed attitudini e senza trascurare anche gli aspetti umani e caratteriali, si sviluppino rapporti particolarmente fecondi e stretti tra questo o quel pubblico ministero e uno o più reparti della Polizia giudiziaria. È anzi un fenomeno in parte inevitabile che, entro certi limiti, deve essere valorizzato, perché può portare grande giovamento all’attività istituzionale della Procura.
Occorre tuttavia evitare degenerazioni. Un singolo reparto di Polizia giudiziaria non può essere il “prolungamento” di un solo pubblico ministero e non solo perché questo può mettere a repentaglio l’effettività del ruolo di garanzia che compete al magistrato del pubblico ministero, ma per ragioni più generali.
Questi rapporti di eccessiva vicinanza generano infatti patologie specifiche anche gravi. Si pensi al caso, non infrequente, in cui questo implica che sia la Polizia giudiziaria stessa a “scegliersi il pubblico ministero”, così incidendo sulla stessa attribuzione delle regiudicande.
Anche in questo caso è bene distinguere: non è patologico che, nell’interesse dell’Ufficio, alcune notizie di reato possano essere affidate ad uno specifico pubblico ministero perché operi con uno specifico reparto con il quale ha mostrato di saper interagire in modo corretto e particolarmente efficace
Ma deve sempre trattarsi di una decisione del procuratore della Repubblica assunta in trasparenza, nell’esclusivo interesse dell’Ufficio e, preferibilmente, sulla base di indirizzi discussi e condivisi. Non è accettabile che, invece, il risultato sia perseguito – come talora avviene in piccoli Uffici – mediante il programmato deposito ad una certa ora o in un certo giorno della comunicazione della notizia di reato (Cnr). Oppure, come avviene ovunque, che le regole di assegnazione vengano programmaticamente violate mediante il deposito di Cnr artatamente costruite in modo da creare un collegamento (in realtà fittizio) con altro procedimento già assegnato al magistrato “preferito”. Si tratta di casi nei quali il potere di fatto di “pubblici ministeri forti” – consolidato da un rapporto anomalo con “Polizie giudiziarie forti” – finisce per espandersi in modo del tutto anomalo creando un serio vulnus sia alla correttezza e alla trasparenza nella gestione degli Uffici, sia alla stessa funzione di garanzia propria del pubblico ministero: è appena il caso di richiamare l’attenzione sulle insidie per i diritti del cittadino che si annidano in simili rapporti personalistici e di potere tra il singolo sostituto e questo o quel reparto che conduce le indagini.
La personalizzazione raggiunge un grado di ulteriore patologia nei casi in cui diventa espressione non già di una malintesa tensione al più efficace perseguimento dei fini istituzionali, ma si connota per il comune perseguimento di finalità diverse da quelle inerenti strettamente l’attività processuale.
Si è già detto che fa parte della professionalità del pubblico ministero esercitare appieno – nel rapporto con la Polizia giudiziaria – il proprio ruolo di garanzia, dedicando vigile attenzione alle possibili interferenze sulle indagini che possono giungere da eventuali finalità extra-processuali della Polizia giudiziaria. Tuttavia non mancano casi (patologici) nei quali anche il pubblico ministero opera secondo finalità che non si esauriscono nel fisiologico perimetro processuale, che è segnato (e limitato rigorosamente) dalla finalità di chiarire nel miglior modo possibile se vi sia materiale per l’esercizio dell’azione penale e per condurre il successivo processo portando tutte le prove necessarie per l'affermazione di responsabilità o per l'esclusione della responsabilità stessa.
In generale il rischio che si manifesta è quello che il pubblico ministero persegua – in sinergia con la Polizia giudiziaria e con finalità in parte comuni – la risonanza mediatica o anche, nei casi più gravi, la realizzazione di obiettivi del tutto personali di natura carrieristica, dentro o addirittura fuori dalla magistratura.
Ancora più grave è quando questo circuito “di potere” pubblico ministero/Polizia giudiziaria si completa con ulteriori sinergie “strutturali” con gli operatori dell’informazione. Lo schema è piuttosto chiaro e affiora sia in Procure che operano in centri di modeste dimensioni, laddove è facile la risonanza mediatica delle indagini, sia in Procure medie e grandi, nelle quali è spesso l’oggetto delle indagini a rivestire un particolare interesse degli organi di stampa. Naturalmente non si vuole qui indulgere alla vulgata - spesso piuttosto rozza e volutamente disinformata e comunque quasi sempre animata da secondi fini - che evoca lo spettro del “circuito mediatico/giudiziario” in ogni inevitabile ricaduta informativa di indagini aventi ad oggetto fatti di rilevanza pubblica. Tuttavia è innegabile che in casi non isolati si abbia la forte percezione che le indagini possano essere condizionate da finalità extra istituzionali oggetto di convergenza da parte di un anomalo e patologico circuito tra specifici pubblico ministero, determinati organi di Polizia giudiziaria e questo o quell’organo di stampa. In questi casi si è al cospetto di patologie gravi, non solo per le conseguenze che può produrre sull’esito e sulla correttezza delle investigazioni il sostanziale tradimento della funzione di garanzia del pubblico ministero, ma anche per gli effetti che si determinano fuori dal processo: la torsione della funzione giudiziaria a finalità terze e sostanzialmente private inquina la vita pubblica e, nel medio periodo, delegittima l’azione della magistratura, appannandone l’immagine di terzietà e indipendenza.
7. I doveri dei dirigenti e il ruolo dell’autogoverno
Si è detto in premessa dell’importanza di preservare il delicato equilibrio disegnato dal legislatore, che va presidiato garantendo qualità ed effettività al ruolo di direzione delle indagini assegnato al pubblico ministero.
Credo che vi sia materia perché i vari soggetti che possono efficacemente incidere sul complesso sistema del “diritto vivente” negli uffici di Procura modifichino alcuni atteggiamenti.
Non mi riferisco, qui, ai singoli magistrati del pubblico ministero: è evidente che tutti i pubblici ministeri dovrebbero operare in modo corretto. Ritengo però che questo obiettivo potrebbe essere meglio perseguito se i soggetti istituzionali in vario modo coinvolti contribuissero a delineare più precisamente il contenuto delle prassi virtuose e di quelle scorrette o addirittura patologiche e se intervenissero attivamente per orientare il comportamento dei singoli.
L’individuazione dei contenuti che dovrebbero caratterizzare l’attività di direzione delle indagini dovrebbe essere effettuata da un lato dalla Scuola e, in generale dalla Formazione e, dall’altro, dal circuito dell’autogoverno. Quest’ultimo, in particolare, dovrebbe differenziare maggiormente – nei criteri e nelle relative “griglie” – la valutazione dei magistrati del pubblico ministero e, in tale contesto, focalizzare maggiormente gli indici riferibili ai rapporti con la Polizia giudiziaria. Inoltre dovrebbe attivare verifiche effettive sulle modalità di esercizio, sul punto, della funzione direttiva e semidirettiva dei procuratori e dei procuratori aggiunti.
Questo mi pare uno snodo fondamentale.
Il procuratore ha il dovere di assicurare ai cittadini «il corretto esercizio dell’azione penale»; tradotto, compete al procuratore di creare le condizioni perché la funzione di garanzia del pubblico ministero nel corso delle indagini si sviluppi nel modo più pieno. E ha il dovere di farlo in modo trasparente e partecipato, perché un importante profilo di quella presenza della giurisdizione nel cuore dell’attività di indagine di cui abbiamo parlato è rappresentato precisamente dalla cultura delle regole di cui la magistratura è inevitabilmente e strutturalmente portatrice.
Pertanto spetterà al procuratore – con le regole di interlocuzione previste dalla normativa secondaria vigente – garantire, mediante le necessarie misure organizzative, che tutti i magistrati del suo ufficio possano maturare un’idonea formazione anche specializzata e che di tutti i magistrati venga adeguatamente promossa la crescita professionale. Questi obiettivi debbono essere perseguiti in primo luogo attraverso una ragionata creazione di gruppi di lavoro e la trasparente gestione della loro formazione e delle necessarie rotazioni.
Un profilo delicato – e spesso trascurato – è poi rappresentato dalla distribuzione tra i pubblici ministeri delle “risorse investigative”. È una questione di tutela concreta della professionalità dei vari magistrati dell’ufficio: gli esiti di ogni procedimento di una qualche rilevanza dipendono in larga misura dalla professionalità della Polizia giudiziaria e la crescita professionale del pubblico ministero è strettamente collegata alla possibilità di lavorare con reparti di qualità.
È evidente che la materia non può essere oggetto di una regolazione rigida, da una rete di norme d’azione di contenuto determinato: sarebbero regole assai difficili da scrivere e, comunque, gli uffici di Procura non possono prescindere dall’esigenza di perseguire nel modo più efficace, nell’interesse della collettività, le finalità istituzionali affidate alla funzione inquirente. In questa prospettiva, in particolare, diventa importante anche favorire sinergie positive e assecondare le diverse attitudini e qualità dei singoli magistrati dell’ufficio, così come non può essere trascurata la diversa formazione e dotazione di uomini, mezzi e competenze specifiche dei vari reparti delle Polizie.
L’impossibilità di gestire la delicata questione mediante una regolazione capillare non può però significare che si debba ritenere normale ed accettabile un assoluto vuoto di regole. Come per molti altri aspetti della vita di Procura, laddove non sia possibile dettare regole rigide, è tuttavia importante che siano affermate linee di indirizzo, regole di scopo elaborate in modo condiviso e trasparente e gestite dai dirigenti secondo logiche di correttezza. Si tratta dell’unico modo credibile per prevenire che la distribuzione delle risorse investigative avvenga sulla base di decisioni del tutto arbitrarie e/o che finisca per seguire linee di forza espressione dei poteri di fatto che non di rado nascono e si cristallizzano nelle Procure al di fuori da ogni logica istituzionale.
Vi è poi la necessità che le dirigenze degli Uffici (e l’autogoverno) reagiscano allorché si manifestano alcune patologie, talora abbastanza visibili, che non dovrebbero essere tollerate e che, per il dirigente rimasto inerte, dovrebbero implicare conseguenze negative in sede di valutazione.
Quando i fenomeni di patologica personalizzazione del rapporto Polizia giudiziaria/pubblico ministero finiscono per incidere sulle assegnazioni o per alterare il quadro – sempre delicato – della corretta distribuzione, tra i magistrati dell’Ufficio, delle deleghe e della collaborazione con i reparti di Polizia giudiziaria più efficienti e motivati, il procuratore non può non rendersene conto. E qualora se ne renda conto non può astenersi dall’intervenire. Non mi riferisco solo alle ipotesi – gravemente patologiche, ma fortunatamente isolate e limitate a piccole sedi – di procuratori della Repubblica sostanzialmente succubi del “potere mediatico” di questo o quel sostituto, ma, più in generale, alla necessità che la distribuzione di tutte le risorse si mantenga, come si diceva, trasparente, oggetto di confronto e al riparo da logiche personalistiche.
Sotto questo profilo il quadro che si presenterebbe a chi, oggi, volesse impegnarsi ad una ricerca sul campo sarebbe probabilmente abbastanza carente: poca trasparenza, nessuna linea-guida, poteri effettivi situati in ambiti non regolati.
Spetta quindi, a mio avviso, all’autogoverno il non facile compito di avviare un percorso in grado di orientare gli uffici di Procura così da difendere anche nei fatti, e non solo nelle enunciazioni di principio, un equilibrio che il passato, anche recente, ha mostrato essere particolarmente virtuoso.