La terzietà come legittimazione
L’obiettivo riformatore che si ipotizza non è quello di una semplice “separazione delle carriere” requirenti e giudicanti in ambiti operativi disgiunti (già di fatto realizzata a seguito di diversi interventi del legislatore) bensì una separazione ordinamentale delle due funzioni, che superi l’“unità della giurisdizione”. L’assenza di rapporti ordinamentali tra giudice e pubblico ministero deve costituire anche un’evidenza percepibile; superando l’idea, transitata nell’immaginario collettivo, della comune identità di scopo tra i due ruoli, visti come complementari all’interno di un’unica azione di contrasto ai fenomeni criminali. La collocazione del giudice nella dimensione legittimante della sua terzietà ne rafforzerebbe la figura, riconquistando ad essa la centralità del sistema; mentre è attualmente immanente la distorsione costituita dall’esposizione mediatica e politica del pubblico ministero, ritenuto vero interprete del processo penale.
Uno sguardo sufficientemente laico sul tema della riforma ordinamentale della separazione delle carriere consente di sottrarre la discussione ad inutili e dannosi condizionamenti ideologici e dogmatici[1].
Eliminare del tutto questi condizionamenti non sempre è possibile, ma delimitare il campo di indagine all’essenziale giova al gioco dialettico e ad una più esatta individuazione dei problemi. L’operazione implica anche la rinuncia ad alcune ingenuità e ad alcuni equivoci lessicali che hanno spesso contribuito a confondere il quadro[2].
La stessa espressione “separazione delle carriere”, oramai divenuta di uso corrente, determina una apparente dislocazione dell’intervento riformatore in realtà eccentrica rispetto al focus del problema. L’ipotesi di lavoro non mira, infatti, ad una semplice separazione delle carriere requirenti e giudicanti in ambiti operativi disgiunti (il che, si potrebbe dire, è già di fatto realizzata nel nostro Paese a seguito di diversi interventi del legislatore), bensì una separazione “ordinamentale” delle due funzioni[3].
Che si tratti di due prospettive assai differenti è facile da comprendere: anche laddove le due “carriere” fossero del tutto separate e distinte (attraverso una norma che impedisse tout court il passaggio dall’una o dall’altra funzione), le due magistrature requirente e giudicante resterebbero sostanzialmente e formalmente “unite” in un vincolo condizionante[4].
Non vi è dubbio, dunque, che quello della “unità della giurisdizione”, e del conseguente nodo ordinamentale, sia la vera questione sulla quale riflettere con urgenza.
Non sfugge come questa unitarietà si ponga in contrasto, oramai da un trentennio, con il nuovo modello accusatorio, impedendo una piena realizzazione di quella forma di legalità processuale che tale modello presuppone, e come la stessa risulti in conflitto con il principio costituzionale della “terzietà” del giudice[5].
“Terzo” è quel giudice che non ha rapporti ordinamentali con le parti. Questa assenza di vincoli deve costituire anche una evidenza percepibile[6]. Per apparire “terzo” dinanzi alla collettività intera, oltre che alle parti in causa, il giudice deve collocarsi in uno spazio di maggiore indipendenza ed autonomia, rafforzando il proprio ruolo di garante dei diritti del cittadino. Con ciò fornendo agli esiti stessi della giurisdizione una nuova e compiuta legittimazione.
Non vi è dubbio che il profilo di riorganizzazione dei poteri giochi oggi un ruolo fondamentale nella difesa delle libertà e nell’avanzamento della democrazia.
Il progetto di riforma ordinamentale delle due diverse magistrature si colloca proprio all’interno di questo sviluppo democratico dei rapporti fra poteri e di modernizzazione dell’intero assetto della giurisdizione.
Ha ricordato di recente Biagio De Giovanni come «il problema della cultura del limite» sia strettamente connesso «all’organizzazione dei rapporti tra i poteri» in quanto «le due cose sono connesse, se si vuole che una “cultura del limite”[7] cammini sui giusti binari è necessario che ci sia anche una cultura dell’organizzazione dei rapporti fra poteri»[8].
Tramontate le vecchie organizzazioni statuali, nell’ambito delle quali la figura del pubblico ministero non era oggetto di particolare attenzione, nel nostro Paese l’idea stessa di “unitarietà della giurisdizione” è stata il prodotto di una concezione autoritaria dello Stato, nell’ambito della quale le due magistrature dovevano concorrere assieme all’azione repressiva. Nella relazione del Guardasigilli Grandi[9] si sottolineava, infatti, la necessità di superare «la distinzione, fondamentalmente erronea, tra i poteri dello Stato» e di riaffermare in campo giurisdizionale la «sostanziale unicità della funzione»[10].
Quale sia stato, e quale sia tuttora, il successo conservativo di questa idea “unifunzionale” è fuori discussione[11], così come risultano evidenti le implicazioni che una simile impostazione eidetica produce all’interno dell’ordinamento.
La medesimezza della funzione comporta infatti una identità di scopo ed implica che i ruoli di giudice e di pubblico ministero vengano interpretati come complementari all’interno di un’unica azione di contrasto ai fenomeni criminali. Anche nell’immaginario collettivo[12].
Il nuovo giudice, forte della cultura del limite, garante delle libertà e dei diritti dei cittadini, deve essere necessariamente un giudice indipendente ed autonomo, non soltanto da ogni potere “esterno”, ma al tempo stesso libero da ogni condizionamento “interno”. La riforma mira a sciogliere il vincolo che internamente lega le due magistrature, e che fa si che all’interno di un medesimo organo di governo giudici e pubblici ministeri si giudichino reciprocamente in sede disciplinare, decidano dei rispettivi avanzamenti delle carriere, condizionino elettoralmente le reciproche aspettative politiche e rappresentative[13].
Una commistione che, vista sia dall’interno sia dall’esterno, nuoce in radice alla legittimazione stessa del giudice. Appare evidente che la riforma ordinamentale della separazione delle carriere non è volta al ridimensionamento del ruolo del pubblico ministero (la cui indipendenza resta tutelata con la costituzione di un autonomo organo di governo)[14], bensì al potenziamento della figura e della funzione del giudice. Un potenziamento tanto più necessario dato che tale funzione è chiamata attualmente a confrontarsi con una sempre più ampia gamma di fenomeni la cui complessità sfugge anche al sapere scientifico e tecnologico più avanzato, a contenere la straripante globalizzazione dei diritti, a riorganizzare la dialettica “multilivello” delle giurisdizioni nazionali e sovranazionali, a garantire i diritti della persona dalle infinite distorsioni (legislative e mediatiche) che il processo penale sempre più spesso produce.
Solo un giudice modernamente collocato nella dimensione legittimante della sua terzietà, può infatti rispondere a tali nuove sfide, senza recedere di un passo sul terreno della indipendenza e della democrazia[15].
Questo rafforzamento della figura del giudice finisce con il risolvere il problema che si è più volte agitato, relativo alla possibilità che il corpo della magistratura requirente, sebbene minoritario, una volta “separato” da quello maggioritario della magistratura giudicante[16], unica presunta titolare della “cultura della giurisdizione”[17], possa declinare il suo ruolo in maniera troppo “aggressiva”, ricercando nell’opinione pubblica un sostegno alla propria azione investigativa e repressiva, con una conseguente grave distorsione dell’intero sistema penale[18]. In realtà questa opinione fotografa, purtroppo, una condizione già immanente al nostro sistema giudiziario, il che dimostra come tali distorsioni non trovano evidentemente alcun freno nella “unificazione” delle carriere. Si deve al contrario ritenere che sono proprio questi nuovi moduli operativi di esposizione mediatica e politica del pubblico ministero, quale vero ed unico interprete del processo penale, ad originare ed a trovare spazio a causa della progressiva marginalizzazione della figura del giudice.
Tutto questo deve indurre a riflettere su quanto sia davvero necessaria una reale ed organica riorganizzazione della giurisdizione, che riaffermi la strumentalità delle indagini preliminari e ricollochi il baricentro del processo nel dibattimento. Dove una figura nuova di giudice, costruttore e portatore di una vera cultura del limite, riconquisti la centralità del sistema restituendo così autorevolezza alle proprie decisioni. Se il giudice è chiamato ad assolvere istituzionalmente al compito di “controllore” dell’azione dei pubblici ministeri, non potremo non riconoscere che “controllore” e “controllato” non possono appartenere ad un medesimo ordine. Come ci ha ricordato efficacemente Luigi Ferrajoli, «la scienza giuridica, proprio perché il suo oggetto è interamente artificiale e largamente modellato dal suo stesso ruolo performativo, non può non tenere conto e non assumersi la responsabilità degli effetti delle proprie teorizzazioni» ed in tal senso non «”limitarsi alla contemplazione” della crisi del processo come questa “fosse un fatto naturale”»[19]. Occorre prendere atto che la teoria della unitarietà della giurisdizione si rivela essa stessa produttiva di opacità, di squilibri e distorsioni; si manifesta come il risultato vischioso ed obsoleto di una radice ideologica sostanzialmente illiberale ed antimoderna, e si offre, solo per questo, ad un serio e radicale ripensamento.
[1] I dogmi «sono dei ceppi al pensiero; quando entrano in gioco il discorso non presenta il minimo residuo d’alea; si sa dove comincia e dove finisce», F. Cordero, Risposta a Monsignore, De Donato Editore, Bari, 1974; che, al contrario, la questione attinga trasversalmente professioni e culture diverse lo dimostrano le posizioni espresse nel tempo da Giovanni Falcone, Giovanni Conso, Sabino Cassese, Biagio De Giovanni, Carlo Nordio e molti altri; che le mutate condizioni del dibattito politico consentano oggi «di ragionare con maggior freddezza rispetto a pochi anni fa allorché il tema era oggetto di frequenti strumentalizzazioni, non certo commendevoli», lo prospetta Armando Spataro, relazione al convegno, La separazione delle carriere dei magistrati: una riforma ineludibile, Sanremo, 1-2 luglio 2016.
[2] Nel senso che non interessano ai fini del presente ragionamento i rapporti personali correnti fra i magistrati appartenenti alle due funzioni, ivi compreso il darsi del “tu” e tanto meno il presentarsi “con il cappello in mano”. Il profilo di sofferenza del nostro sistema non è costituito dalla “amicizia”, in senso psicologico, fra giudice e pubblico ministero, ma piuttosto dalla assenza di una “inimicizia” intesa in senso politico-istituzionale, come condizione di indispensabile conflitto e di fisiologico antagonismo, volta alla efficienza ed all’equilibrio di ogni sistema organizzativo democratico.
[3] Sul punto, O. Dominioni, Giudice e pubblico Ministero. Le ragioni della “separazione delle carriere”, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, Giuffrè, Milano, 2006.
[4] Cfr. M. Pirani, Intervista a Giovanni Falcone, La Repubblica, 3 ottobre 1991.
[5] Quella racchiusa nella espressione “giudice terzo ed imparziale” non può essere ritenuta una semplice endiadi, consistendo l’imparzialità nella semplice indifferenza del giudice all’oggetto del processo, mentre l’attributo della terzietà implica piuttosto l’estraneità ordinamentale del giudice alle due parti processuali.
[6] F. Alonzi, Le attività del giudice nelle indagini preliminari. Tra giurisdizione e controllo giurisdizionale, Cedam, Milano 2011, pp. 117 ss.
[7] Il riferimento è al contenuto della relazione del primo presidente della Corte di cassazione Giovanni Canzio alla inaugurazione dell’anno giudiziario 2017.
[8] B. De Giovanni, intervento alla inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti, Il Giudice e la cultura del limite, Matera, 11 febbraio 2017; dove, all’esito delle sue valutazioni, il filosofo della politica si interroga chiedendo: «è proprio un dogma l’unità della carriera giudiziaria? O si può pensare che in fondo è nell’interesse della stessa magistratura»; sul punto vedi C. Guarnieri, Divisione del potere, Giusto Processo e separazione delle carriere, atti del XVI convegno Associazione tra i studiosi del processo penale, Udine 22-24 ottobre 2004, ove si sottolinea come «la separazione fra giudice e pubblico ministero … assicura il rispetto di uno dei tratti fondamentali del procedimento giudiziario e introduce il principio della divisione del potere all’interno del sistema giudiziario».
[9] Gazzetta ufficiale 4 febbraio 1941, n. 28, edizione straordinaria, p. VI.
[10] Tale unitarietà evocava «l’unità spirituale e politica della Nazione» attribuendo esplicitamente alla funzione di amministrazione della giustizia il «carattere di sacerdozio».
[11] Fra tanti, Francesco Saverio Borrelli si espresse duramente contro «l’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee», MicroMega, n. 1/2003, citato da Armando Spataro, cfr. nota 9 della relazione al convegno, La separazione delle carriere dei magistrati: una riforma ineludibile, Sanremo, 1-2 luglio 2016.
[12] I meno giovani ricorderanno un famoso articolo di Angelo Panebianco, scritto all’epoca di “Tangentopoli”, nel quale l’editorialista affermava di aver fatto uno scoop, e di aver cioè “scoperto” che il dott. Di Pietro non era un “giudice”, ed in effetti tutti i giornalisti lo chiamavano “giudice Di Pietro” e tale era per l’intera opinione pubblica.
[13] C. Guarnieri, cit., ove si sottolinea come «il vero nodo è l’appartenenza alla stessa organizzazione e soprattutto il fatto che giudici e pubblici ministeri siano governati dallo stesso organo»; si deve infatti ritenere, in base a condivisibili generalizzazioni empiriche, che tali condizionamenti “interni” siano molto più rilevanti rispetto ad eventuali sollecitazioni “esterne”; sul punto, B. Ferramosca, L’iniziativa di legge popolare promossa dall’Unione delle camere penali italiane sulla separazione delle carriere dei magistrati, in La Magistratura, Maggio - Agosto 2017 - Anno LXVI, Numero 3, ove si afferma che, «divenuti giudici, l’habitus mentale terzo ed imparziale resiste a forme di influenza ben più pregnanti del mero dato formale della unicità della carriera con i magistrati requirenti».
[14] Sul fatto che la separazione delle carriere non implichi necessariamente sotto il profilo delle teorie politiche e costituzionali la subordinazione del pm all’esecutivo (come in effetti con forme e risultati assai differenti avviene in quasi tutti i Paesi europei di civil law e di common law), vedi i contributi di Patrizia Pederzoli e di Gaetano Tomaso Giupponi, inaugurazione dell’anno giudiziario 2018 dei penalisti, I Penalisti e la Costituzione, Firenze 2018.
[15] Se è pure vero che «interrogarsi sui principi di indipendenza e di autonomia della magistratura vuol dire, oggi, riscoprire il fondamento della legittimazione del magistrato nella società postmoderna, insieme con le ragioni della fiducia dei cittadini nell’ordine democratico» così G. Canzio, L’indipendenza della magistratura, Il Dubbio, 21 febbraio 2018, non si vede come tale interrogativo possa non tenere conto del ruolo che la teoria della unitarietà della magistratura ha avuto nei regimi totalitari, e se questo non implichi un ripensamento di tale teoria ed una conseguente riorganizzazione della intera “magistratura” ai fini di uno sviluppo in senso liberale e democratico dello Stato.
[16] Di cui costituisce in proporzione circa un terzo.
[17] Se tale cultura (correttamente intesa come adesione ai valori del giusto ed equo processo) fosse davvero monopolio della giurisdizione unitaria significherebbe escluderne del tutto, a priori – ed a maggior ragione – l’intera avvocatura penale; molto diversa, tuttavia, l’idea che Armando Spataro fornisce di tale cultura come tensione verso il “raggiungimento degli obiettivi di giustizia”.
[18] Questa prospettiva è stata diffusamente rappresentata negli interventi di diversi qualificati magistrati, nell’ambito dell’interessante convegno organizzato da AreaDg, La proposta della separazione delle carriere dei magistrati: opinioni a confronto”, Roma, 11 settembre 2017.
[19] L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa - Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in questa Rivista trimestrale, edizione cartacea, Franco Angeli, Milano, 4/2016, p. 22.