Pubblico ministero e persona: i procedimenti in materia di status, famiglia e minori
La presenza del pubblico ministero nel processo civile, risalente all’epoca in cui esso era ancora di fatto fuori dalla giurisdizione, è da tempo messa in discussione, considerata anacronistica, poco utile alla tutela degli interessi pubblici a cui è sottesa ed addirittura dannosa per le sempre più pregnanti ragioni di economia processuali; tuttavia, pur ammettendo che in moltissime occasioni essa si risolve in un intervento meramente virtuale di cui in effetti si potrebbe anche fare a meno, tant’è che lo stesso legislatore in materia di processo civile telematico non lo aveva inizialmente considerato, residuano settori in cui il pubblico ministero resta obiettivamente l’unico soggetto che può agire per la tutela dei soggetti deboli e incapaci. Senza dubbio degno di nota è poi il dinamismo con cui molti Uffici di Procura hanno interpretato il nuovo ruolo del pubblico ministero nel procedimento di negoziazione assistita.
1. Il ruolo del pubblico ministero nel processo civile e di famiglia: attore non protagonista o illustre comparsa?
La presenza del pubblico ministero nel processo civile ha origini lontane, e risale al codice di rito del 1865, epoca in cui com’è noto, in base ai principi che il Rd 6 dicembre 1865, n. 2626 (di riforma dell’ordinamento giudiziario) aveva mutuato dalla disciplina francese dell’epoca del Consolato, detto organo era ancora il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria ed era posto sotto la direzione del Ministro della giustizia.
Tale presenza, nonostante il passaggio all’ordinamento Zanardelli con il pieno rientro del pubblico ministero nella giurisdizione e l’unificazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, e pur a fronte di un’ampia e prolungata riflessione circa la sua effettiva utilità[1], è rimasta immutata e permane ancora oggi, trovando la sua disciplina generale negli artt. da 69 a 73 del codice di procedura civile nonché, sotto il profilo ordinamentale, negli artt. 75 e 76 del Rd 30 gennaio 1941, n. 12, che costituiscono applicazione della disposizione sancita dall’art. 73 della legge sull’ordinamento giudiziario, secondo cui: «il pubblico ministero veglia all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, richiedendo, nei casi di urgenza, i provvedimenti cautelari che ritiene necessari».
In un processo tradizionalmente ispirato al principio dispositivo, in cui i poteri di richiedere la tutela giurisdizionale, di allegare in giudizio fatti e circostanze e di esercitare le connesse facoltà istruttorie spettano di regola alle parti in causa, titolari del rapporto controverso, la soluzione adottata per garantire una maggiore ed effettiva protezione giurisdizionale alle situazioni soggettive indisponibili (a cui sono di regola sottesi anche profili di interesse più o meno marcatamente pubblicistico) è stata dunque quella di attribuire al pubblico ministero poteri processuali che consentano un miglior accertamento della verità materiale.
Ciò non toglie che nel giudizio civile il pubblico ministero resti comunque una figura sostanzialmente ambigua, essendo «tecnicamente una parte e funzionalmente un interprete degli interessi pubblici»[2], in una posizione in un certo senso intermedia tra quella del giudice e quella di una parte vera e propria, non a caso a norma dell’art. 73 cpc anche ai magistrati del pubblico ministero che intervengono nel processo civile si applicano le disposizioni in tema di astensione dei giudici sebbene non anche quelle in materia di ricusazione[3] ed in giurisprudenza si è negato il ruolo di parte in quei procedimenti di volontaria giurisdizione in cui il pubblico ministero debba essere sentito (nel caso di specie in materia di fondo patrimoniale ai sensi dell’art. 32 disp. att. cpc), pur non disponendo di autonomi poteri di azione o impugnazione del provvedimento terminativo del rito camerale[4].
Inoltre, non può certo negarsi che, nella pratica, l’esercizio delle attribuzioni civili non solo costituisce per i magistrati addetti agli uffici di Procura un impegno nettamente minoritario rispetto alle loro ordinarie occupazioni, ma è vissuto da molti di essi come un incombente quasi burocratico che li sottrae di fatto ad esigenze ben più importanti e pressanti, non a caso nella stragrande maggioranza dei casi le conclusioni rassegnate dal pubblico ministero si riducono ad un timbro o in una formula stereotipa, ed anche quando sono più specifiche di solito non contengono alcuna effettiva motivazione, con la conseguenza che la presenza di tale organo nel processo è vista dalle parti, dai difensori e dagli stessi giudici civili come assolutamente marginale se non addirittura dannosa nell’ottica delle ragioni di economia processuale.
Una riflessione sull’attuale ruolo del pubblico ministero nel processo civile ed in particolare in quello in materia di famiglia, stato e capacità, afflitto anch’esso da gravi e atavici problemi di sovraccarico del contenzioso e sempre alle prese con una selva di riti che solo in minima parte il legislatore è riuscito a semplificare, non può non partire da tale inconfutabile dato di fatto, sebbene una analisi più dettagliata delle numerose fattispecie normative e delle principali problematiche applicative[5] possa essere utile a comprendere in quali ambiti l’azione o l’intervento del pubblico ministero potrebbe rivelarsi più incisivo e soprattutto in che modo ciò potrebbe davvero avvenire, con particolare riferimento alla tutela della persona e dei diritti indisponibili.
2. Il pubblico ministero agente ma senza obbligo di esercitare l’azione civile a tutela dei diritti indisponibili
Ai sensi dell'art. 69 cpc il pubblico ministero esercita l'azione civile nei casi stabiliti dalla legge, assumendo a seconda dei procedimenti la veste di ricorrente, opponente, appellante.
Come già in parte chiarito,< in questi casi, apparendo particolarmente pregnante l'interesse pubblico sottostante alla situazione sostanziale, il legislatore ha demandato al pubblico ministero un potere autonomo di agire per far valere quel diritto in via sostitutiva, qualora il titolare del diritto resti inerte, o manchi un titolare del diritto o un soggetto in grado di farlo valere.
Non è peraltro agevole ricercare e scrutinare i casi in cui al pubblico ministero sono conferiti poteri di azione senza correre il rischio che l’elencazione risulti incompleta, trattandosi di un numero di ipotesi nutrito e variegato, ad ogni modo, volendosi limitare ai procedimenti in materia di persone e famiglia, il più cospicuo gruppo di norme devolutrici di un potere di azione a detto organo può rinvenirsi nel codice civile, in coerenza con il dettato dell’art. 2907 cc, e nello specifico:
- in materia di associazioni (artt. 23 comma 1, 27 cc e 11 disp. att. cc);
- in materia di assenza e di dichiarazione di morte presunta (artt. 48 comma 1, 50, 58 comma 1, 62 comma 2, 67 cc; 721 cpc);
- in materia matrimoniale (artt. 85 comma 2, 102 comma 5, 117, 119, 125 cc);
- in materia di disconoscimento della paternità (artt. 244 comma 6, 264, 279 comma 3 cc);
- in materia di tutela dei minori (artt. 321, 336, 361 cc);
- nell'amministrazione di sostegno (artt. 406, 410 comma 2, 412 comma 1, 413 comma 1 cc);
- in materia di interdizione e inabilitazione (artt. 417 comma 1, 418 comma 2, 429 comma 1 cc).
Altre ipotesi di azione esercitabile direttamente da parte del pubblico ministero si rinvengono poi nell’ambito della legislazione speciale in materia di adozione (art. 9 legge 4 maggio 1983, n. 184, con riferimento all’accertamento dello stato di abbandono finalizzato alla dichiarazione di adottabilità), di stato civile (artt. 78, 95, 96, 98, dPR 3 novembre 2000, n. 396), di impugnazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso (art. 1, comma 6, legge 20 maggio 2016, n. 76), di rifiuto delle cure mediche proposte da parte del rappresentante legale del minore o incapace in mancanza di D.A.T. (art. 3, comma 5 della recentissima legge 22 dicembre 2017, n. 219 sul testamento biologico) e nel codice di procedura civile con riferimento alla possibilità di chiedere la nomina di un curatore speciale per minori, incapaci o persone giuridiche (artt. 79 e 80 cpc, in combinato disposto con l’art. 77 cpp).
Un orientamento giurisprudenziale più risalente aveva ritenuto non tassativa l’elencazione dei casi di pubblico ministero agente, per un verso ritenendo di poter ricomprendere anche tale organo nelle ipotesi in cui talune disposizioni attribuiscono la legittimazione attiva a «chiunque vi abbia interesse»[6], e per altro verso enfatizzando il significato dell’art. 73 ord. giud. nella parte attribuisce al pubblico ministero una «azione diretta per fare eseguire ed osservare le leggi d’ordine pubblico»[7].
Detta impostazione è stata tuttavia oggetto di successivo ripensamento sia in dottrina[8] che da parte della stessa giurisprudenza[9], in virtù della formulazione letterale dell’art. 2907 cc secondo cui l’autorità giudiziaria provvede alla tutela giurisdizionale dei diritti anche su istanza del pubblico ministero ma solo «quando la legge lo dispone» mentre l’art. 73 ord. giud. sarebbe una mera disposizione programmatica, ma soprattutto sulla base della natura eccezionale dell’istituto rispetto al generale principio del parallelismo tra titolarità del diritto e titolarità dell’azione, che non consente di operare alcuna estensione in chiave analogica.
Altro aspetto controverso riguarda poi la obbligatorietà o meno dell’esercizio dell’azione civile da parte del pubblico ministero nei casi in cui sia legittimato a farlo: sul punto, se non sono mancate prese di posizione favorevoli alla doverosità in linea generale dell’iniziativa pubblica poiché si tratterebbe di un munus non obliterabile[10] ed in quanto le previsioni legislative non mirerebbero semplicemente ad allargare il novero dei soggetti legittimati ma, in maniera più incisiva, a garantire che l’attuazione di quel fine dell’ordinamento in ragione del quale la legittimazione al pubblico ministero è stata attribuita venga attuato in concreto, non può non rilevarsi il fatto che, diversamente da ciò che avviene in materia penale, manca una norma impositiva specifica, ed una conferma a contrario di ciò può rinvenirsi proprio nelle specifiche ipotesi in cui il legislatore ha previsto un obbligo espresso di iniziativa giudiziale, ovvero l’art. 102, u.c. cc (che indica i casi in cui il pubblico ministero «deve sempre» fare opposizione al matrimonio) e l’art. 7 l.fall. (che prescrive che il pubblico ministero “presenta la richiesta” di fallimento ove ricorrano determinate circostanze).
Assodato dunque che, al di fuori di tali specifiche fattispecie, il pubblico ministero può sempre esercitare un certo margine di discrezionalità nella scelta sull’esercizio o meno dell’azione civile, che si riverbera anche nella possibilità per il titolare pubblico di rinunziare agli atti del giudizio secondo una valutazione di opportunità, è evidente che, in caso di obiettiva e colpevole inerzia, in mancanza di uno strumento processuale analogo alla penalistica avocazione, il pubblico ministero potrà comunque essere sanzionabile in sede disciplinare (il riferimento non può non essere alla condotta tipizzata dall’art. 2, comma 1, lett. q ed r del d.lgs 23 febbraio 2006, n.109) o addirittura in sede penale ai sensi dell’art. 328 cp.
Alla luce di quanto stabilito dall’art. 72 cpc, il pubblico ministero nelle cause che è legittimato a proporre esercita gli stessi poteri conferiti alle parti private e li esercita nelle medesime forme stabilite per queste ultime, può formulare domande autonome soggiacendo agli stessi limiti e preclusioni; se ciò è vero, non può comunque trascurarsi la ulteriore considerazione che l’estraneità del pubblico ministero rispetto al rapporto sostanziale sottostante comporta che il potere conferitogli sia di mera azione in via autonoma e non di sostituzione processuale, con la conseguenza che non potrà compiere quegli atti che presuppongono la libera disponibilità del diritto quali ad es. prestare giuramento, confessare, transigere, stipulare compromessi, proporre o accettare la richiesta di decisione della causa secondo equità.
Inoltre, il pubblico ministero non soggiace alla regola della soccombenza e dunque non è soggetto al pagamento delle spese di giudizio nel caso in cui l’azione da lui proposta venga poi rigettata[11], ed al contempo non potrebbe giovarsene, ove vittorioso, nei confronti delle controparti[12].
Con riferimento poi al potere di impugnazione, esso è sempre riconosciuto al pubblico ministero (l’art. 72, comma 5, cpc, peraltro precisa che detta facoltà spetta tanto al pubblico ministero presso il giudice che ha pronunziato la sentenza quanto a quello presso il giudice competente a decidere sul gravame) sia nelle cause che abbia effettivamente proposto che in quelle che avrebbe potuto proporre pur essendosi limitato ad intervenire, nonché nelle cause matrimoniali, ad eccezione che per quelle di separazione personale dei coniugi, benché di contro in materia divorzile l’art. 5, comma 5, legge 1 dicembre 1970, n. 898 abbia previsto la possibilità per il pubblico ministero di impugnare le sentenze che abbiano pronunziato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o incapaci.
A seguito dell’abrogazione degli artt. da 796 a 805 cpc ad opera della legge 31 maggio 1995, n. 218, appare assai dubbia la sopravvivenza del potere di impugnazione delle sentenze che dichiarino l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali, dovendosi più correttamente ritenere che il pubblico ministero dovrebbe intervenire nelle cause promosse dinanzi alla Corte di appello per l’accertamento della sussistenza effettiva delle condizioni di riconoscimento della sentenza straniera[13].
Vi sono infine alcuni peculiari mezzi di impugnazione riservati anche (ad es. in materia di spese di giustizia, l’opposizione prevista dagli artt. 84 e 170 dPR 30 maggio 2002, n. 115) o solo al pubblico ministero, ovvero la presentazione del ricorso da parte del procuratore generale presso la Corte di cassazione ai sensi dell’art. 363 cpc al fine di ottenere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi (con la finalità di evitare l’affermarsi di principi errati in diritto adottati da decisioni non impugnate), le due ipotesi di revocazione previste dagli artt. 397 cpc e 77 ord. giud., nonché il reclamo di cui all’art. 740 cpc proponibile avverso i decreti del giudice tutelare e del Tribunale per i quali sia necessario il parere del pubblico ministero.
Nella pratica, il settore in cui si registra la maggiore incidenza di azioni proposte direttamente dal pubblico ministero è senza dubbio quello della tutela dei soggetti deboli o incapaci, ed in particolare dei ricorsi finalizzati a chiedere l’interdizione, l’inabilitazione (tenuto conto del limitato spazio applicativo riservato a questo istituto dopo il 2004) e l’amministrazione di sostegno, ma anche e soprattutto i ricorsi ai sensi dell’art. 336 cc, finalizzati ad ottenere la sospensione o decadenza di uno o entrambi i genitori dalla responsabilità genitoriale sui figli minorenni o la reintegrazione nella stessa, la rimozione o riammissione dall’amministrazione del patrimonio dei figli minorenni e le altre prescrizioni di cui all’art. 333 cc.
Fino alla modifica dell’art. 38 disp. att. cc ad opera della legge 10 dicembre 2012, n. 219, tali ultime iniziative erano riservate al pubblico ministero minorile, che poteva interagire (e sovente interagiva) con i Servizi sociali e gli altri uffici operanti sul territorio anche laddove tali soggetti non fossero per legge tenuti a sollecitarlo, sempre con l’intento di vigilare sull'osservanza della legge e promuovere la realizzazione del diritto dei bambini ad una crescita normale anche al fine di prevenire fenomeni di devianza sociale e delinquenza.
A seguito del trasferimento dal 2013 di buona parte delle competenze in materia (fatta eccezione per le adozioni) dal Tribunale per i minorenni al Tribunale ordinario[14] l’iniziativa è passata in larga parte al pubblico ministero civile, con tutti i limiti già evidenziati a cui si è peraltro aggiunta la minore attitudine ad interloquire con gli uffici territoriali di riferimento, anche se va sottolineata la circostanza che in tali casi è già pendente un giudizio di separazione, divorzio o ai sensi dell’art. 316 cc (condizione necessaria perché si radichi la competenza del Tribunale) e ciò di fatto limita molto lo spazio di operatività del pubblico ministero, perché quasi sempre sono le stesse parti in causa, a corredo dell’aspro conflitto che già le vede contrapposte, ad attivarsi per chiedere l’adozione anche di provvedimenti de potestate.
3. Il pubblico ministero interveniente, tra garanzia dell’interesse pubblico e burocratizzazione della funzione
Il ruolo che il pubblico ministero riveste come interveniente nelle cause in cui non ha poteri di azione è diverso dalla posizione che detto organo assume nelle cause che ha proposto o avrebbe potuto proporre, poiché in tal caso a norma dell’art. 72 cpc l’intervento è circoscritto entro i confini costituiti dalle domande ed eccezioni delle parti.
Com’è noto, l’art. 70 cpc enumera ipotesi di intervento obbligatorio e facoltativo: è infatti previsto che il pubblico ministero deve intervenire in causa (in primo grado, con conseguente composizione collegiale del Tribunale giudicante a norma dell’art. 50-bis n. 1 cpc, ma anche in appello), a pena di nullità rilevabile d’ufficio[15] ed insanabile, nelle cause che egli stesso potrebbe proporre, nelle cause matrimoniali, comprese quelle di separazione personale dei coniugi (e compresi, alla luce della sentenza 9 novembre 1992, n. 416 della Corte costituzionale, i procedimenti camerali per modifica delle condizioni di separazione o divorzio riguardanti i figli minorenni), di divorzio e di scioglimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone e negli altri casi previsti dalla legge[16], oltre che nelle cause dinanzi alla Corte di cassazione.
Al fine di garantire al massimo l’effettuazione di tale intervento obbligatorio, nonché di prevenire le nefaste conseguenze processuali derivanti dalla mancanza dello stesso, l’art. 71, comma 1 cpc prevede che il giudice dinanzi al quale uno dei giudizi in questione sia proposto, ove ravvisi che detto adempimento non sia già stato posto in essere a cura delle parti private, ordina la comunicazione degli atti al pubblico ministero a cura della cancelleria, affinché possa intervenire; allo stesso modo di regola si provvede nell’ambito dei procedimenti di volontaria giurisdizione a norma dell’art. 738, comma 2 cpc.
Con una disposizione che può considerarsi sostanzialmente di chiusura e che definire di rara applicazione pratica è un eufemismo[17], l’ultimo capoverso dell’art. 70 cpc dispone poi che il pubblico ministero è sempre facultato ad intervenire in ogni causa, quando ravvisa un pubblico interesse, anche su segnalazione del giudice che ravvisi l’opportunità di trasmettergli all’uopo gli atti e che comunque, nonostante una autorevole ma minoritaria opinione contraria in dottrina[18], non può ritenersi vincolante, ferma restando la possibilità per lo stesso pubblico ministero di attivarsi per richiedere atti (art. 1 disp. att. cpc).
Sia l’intervento obbligatorio che quello facoltativo del pubblico ministero dovrebbero avvenire dinanzi al giudice istruttore o al collegio con le modalità di cui all’art. 267 cpc, ovvero mediante comparsa da depositarsi in cancelleria o direttamente all’udienza, con la possibilità che la causa venga rimessa in istruttoria laddove esso non si limiti ad aderire alle conclusioni di una delle parti ma rassegni proprie conclusioni, produca documenti o deduca prove e sempre che ciò avvenga nel rispetto delle preclusioni istruttorie stante anche il limite posto dall’art. 268, comma 2 cpc fatte salve le ipotesi di rimessione in termini di cui all’art. 153 cpc[19].
Il condizionale in verità è quanto mai doveroso, poiché di fatto, nella quasi totalità dei casi, l’intervento non si traduce in alcuna effettiva partecipazione del pubblico ministero nel giudizio, che resta fisicamente assente e si limita a rassegnare, in calce al provvedimento di trasmissione degli atti o su un separato foglio, brevi conclusioni che di regola si traducono in formule seriali racchiuse di solito in timbri prestampati, spesso purtroppo neppure pertinenti con natura e stato del procedimento in oggetto.
In tal modo è evidente che il ruolo del pubblico ministero è divenuto assai marginale e di fatto inutile, e spesso viene percepito dalle altre parti in causa solo come uno dei tanti adempimenti che non bisogna dimenticarsi di perfezionare per riuscire a giungere all’agognata sentenza di separazione, divorzio, dichiarazione giudiziale o disconoscimento di paternità; non a caso, già da tempo in giurisprudenza sono state elaborate soluzioni applicative che hanno ritenuto sufficiente una pura e semplice comunicazione al pubblico ministero dell’esistenza del processo in modo da metterlo in condizioni di intervenire, con conseguente irrilevanza del fatto che poi detto intervento non sia avvenuta e non siano state rassegnate neppure le conclusioni, e senza alcun onere di “inseguirlo” ulteriormente nel corso del giudizio[20].
Del resto, non può apparire meramente casuale la circostanza che il legislatore ed il Ministero della giustizia, pur nel fervore di questi ultimi anni finalizzato all’abbandono dei fascicoli cartacei quale panacea di tutti i mali del processo civile, abbiano per lungo tempo omesso di includere in tale progetto la figura del pubblico ministero, posto che tale ufficio non è stato dotato di un indirizzo di posta elettronica certificata (con la conseguenza che, a differenza che per tutti gli altri soggetti processuali, nei confronti del pubblico ministero le comunicazioni hanno a lungo continuato ad essere effettuate con il tradizionale biglietto cartaceo di cancelleria a norma degli artt. 136 cpc e 45 disp. att. cpc[21]) e non è stato neppure incluso negli applicativi informatici indispensabili per l’utilizzo del processo civile telematico da parte delle cancellerie e dei magistrati (Consolle del magistrato, Reg.inde, Cruscotto del presidente), com’è noto ormai obbligatorio sin dal 31.12.2014 per il deposito di tutti gli atti endoprocedimentali nei giudizi contenziosi dinanzi ai Tribunali sin dal 31 dicembre 2014 e dinanzi alle Corti di appello dal 30 giugno 2015, ai sensi dell’art. 16-bis del dl 18 ottobre 2012, n. 179 convertito nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, così come integrato con il dl 24 giugno 2014, n. 90, convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 114 e con il successivo dl 27 giugno 2015, n. 83 convertito nella legge 6 agosto 2015, n. 132.
Solo a partire dalla seconda metà del 2017, con l’avvio anche del processo penale telematico e l’elaborazione dell’applicativo consolle del pubblico ministero (il cui utilizzo è tuttavia pressoché ancora solo sperimentale) si sta ponendo rimedio a tale grave disfunzione.
A ben vedere, anche nei procedimenti di interdizione ed inabilitazione, in cui si è tradizionalmente ritenuto che la letterale formulazione degli artt. 714 e 715 cpc imponga al pubblico ministero un intervento non meramente “spirituale” ma la effettiva partecipazione al giudizio ed in particolar modo all’esame dell’interdicendo/inabilitando, la prassi organizzativa di molti Uffici di Procura ha in parte depotenziato la portata di tali disposizioni prevedendo la delega della partecipazione alle relative udienze ai viceprocuratori onorari, mentre anche i procedimenti di amministrazione di sostegno, ad ormai 14 anni dall’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004, n. 6, vengono sempre più spesso “disertati” dal pubblico ministero facendo leva sul mancato espresso richiamo degli artt. 714 e 715 cpc da parte dell’art. 720-bis cc[22].
4. Il ruolo del pubblico ministero nella negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio, dentro o fuori dalla giurisdizione civile?
Gli articoli 6 e 12 del dl 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modifiche nella legge 10 novembre 2014, n. 162 hanno introdotto, seppur con la discutibile tecnica della decretazione d’urgenza, un cambiamento quasi epocale nel diritto di famiglia, che si pone nell’ottica della tendenza ordinamentale già presente negli ultimi anni e volta ad una progressiva liberalizzazione e valorizzazione anche in questo ambito dell’autonomia delle parti, con lo scopo principale di alleggerire il carico di lavoro dei Tribunali disincentivando il naturale ricorso alla giustizia dell’autorità giudiziaria.
In particolare[23], l’obiettivo è stato perseguito attraverso l’introduzione di due nuovi modelli tra di essi eterogenei ma accomunati dal fatto di costituire la prima vera deroga ad un principio fino a quel momento granitico nelle controversie in materia di famiglia, che rendeva di fatto imprescindibile l’intervento dell’autorità giudiziaria per ogni eventuale modifica in materia di status, ascritta nell’ambito della tutela costitutiva necessaria: la separazione e divorzio mediante convenzione di negoziazione assistita e la separazione e divorzio direttamente dinanzi all’ufficiale dello stato civile, mentre appare del tutto irragionevole la scelta di non estendere tali strumenti anche alle crisi delle famiglie non fondate sul matrimonio.
In sostanza, la previsione di modelli di modifica dello status matrimoniale senza ricorso al Tribunale ha segnato il superamento della tradizionale concezione pubblicistica della giustizia in materia di famiglia, a favore di una prospettiva incentrata su elementi volontaristici e consensualistici, in quanto se il diritto di famiglia regola la vita degli individui, dovrebbero essere quegli stessi individui a poter gestire in autonomia anche la crisi delle loro relazioni personali, quantomeno nelle ipotesi in cui non vi siano ulteriori soggetti deboli da tutelare.
Con riferimento alla negoziazione assistita, detta impostazione era stata seguita in maniera lineare nel testo iniziale del decreto legge n. 132, in cui il nuovo istituto era stato riservato alle sole coppie coniugali prive di figli minorenni (a cui sono assimilati i maggiorenni incapaci poiché portatori di handicap grave) o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti, ma l’accordo sottoscritto dinanzi agli avvocati era suscettibile di produrre in via immediata e diretta i relativi effetti, senza alcun ulteriore passaggio giurisdizionale.
In sede di conversione si è tuttavia registrato un significativo mutamento di rotta solo con riferimento alla negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio, senza dubbio figlio di un compromesso politico, e che è passato proprio attraverso la improvvisa riscoperta del ruolo del pubblico ministero quale garante degli interessi pubblici e dei diritti indisponibili laddove si controverta in materia di persone e famiglia: ed infatti, a norma del novellato art. 6 della legge 10 novembre 2014, n. 162, nel caso di separazione o divorzio “secco” (ovvero senza la presenza di figli minorenni, maggiorenni incapaci o maggiorenni non autosufficienti, ipotesi nelle quali sarebbe peraltro anche possibile procedere direttamente dinanzi all’ufficiale dello stato civile a norma del successivo art. 12) l’accordo raggiunto a seguito di convenzione va trasmesso al procuratore della Repubblica presso il Tribunale che sarebbe competente in caso di procedimento giurisdizionale che, se non ravvisa irregolarità, comunica agli avvocati il proprio nullaosta per i conseguenti adempimenti; invece nel caso di convenzione raggiunta in presenza di figli minorenni, maggiorenni incapaci o maggiorenni non autosufficienti, l’accordo va trasmesso entro 10 giorni sempre al medesimo pubblico ministero, chiamato espressamente a valutarne la rispondenza all’interesse dei figli, con conseguente autorizzazione in caso positivo e, in caso negativo, trasmissione degli atti entro 5 giorni al presidente del Tribunale che dovrà fissare entro i successivi 30 giorni la comparizione delle parti.
Ovviamente, le convenzioni in questione possono anche concernere la modifica, per circostanze o valutazioni sopravvenute, di precedenti accordi di separazione o divorzio già ritualmente omologati in sede giudiziaria.
La dottrina più accorta[24] aveva inizialmente manifestato perplessità in relazione a tale scelta legislativa, ritenendo non corretta la individuazione dell’organo inquirente quale controllore della legalità del procedimento proprio alla luce del ruolo di parte, sia pure sui generis e solo in senso sostanziale e mai processuale (non subendo di fatto gli effetti del provvedimento del giudice), tradizionalmente attribuito al pubblico ministero nel processo civile, tanto più che nella prima ipotesi il controllo demandato a tale ufficio sarebbe di natura quasi certificativo-amministrativa e potrebbe essere peraltro agevolmente eluso ricorrendo alla separazione o divorzio diretto dinanzi all’ufficiale dello stato civile.
In relazione alle modalità ed all’ambito del controllo demandato al pubblico ministero, è evidente che nell’ipotesi di nullaosta esso sia ridotto ad una mera verifica di regolarità formale (ovvero di correttezza del procedimento di negoziazione assistita sotto i profili della competenza territoriale, dell’esistenza di una convenzione stipulata in forma scritta con le relative informative, della presenza di un avvocato per ciascuna parte che abbia certificato l’autografia delle sottoscrizioni e la conformità dell’accordo alle norme imperative e di ordine pubblico), che tuttavia laddove dia esito negativo comporterà l’inefficacia dell’accordo stesso, ed il procedimento di negoziazione si concluderà con un “non luogo a provvedere”.
Di contro, nelle ipotesi di autorizzazione il controllo è più pregnante, poiché si estende anche al merito dell’accordo ed alla sua rispondenza all’interesse dei figli, con riferimento alle pattuizioni sia di natura personale (modalità di affidamento e collocamento, assegnazione della casa coniugale, rapporti con entrambe le figure genitoriali) che patrimoniale, con un’indagine che a ben vedere non differisce da quella che normalmente effettua il Tribunale nei procedimenti di separazione consensuale o divorzio a domanda congiunta, ma senza espressi poteri di integrazione istruttoria (in particolare senza poter disporre l’ascolto in forma protetta dei figli), anche se si è sottolineato che, prima di attivare la successiva fase dinanzi al presidente del Tribunale[25], il pubblico ministero ben potrebbe convocare le parti al fine di richiedere chiarimenti ed evidenziare loro gli aspetti che reputa non aderenti al dettato della legge ed alla situazione della famiglia, proponendo altresì eventuali modifiche o integrazioni dell’accordo[26], e solo in caso di rifiuto ad adeguarsi sarebbe tenuto a procedere alla trasmissione degli atti entro i successivi 5 giorni.
Ad ogni modo bisogna rilevare che, dopo una prima fase di iniziale incertezza, l’istituto ha ricevuto un buon riscontro applicativo, grazie soprattutto alle buone prassi elaborate da molti uffici di Procura che si sono prontamente attivati elaborando circolari, linee guida e protocolli interni[27] che hanno consentito di chiarire tutta una serie di aspetti pratici non del tutto chiari nella normativa in questione (quali in particolare i criteri per l’individuazione dell’ufficio competente, per cui se dovesse farsi riferimento ai procedimenti giurisdizionali potrebbero esservi com’è noto differenze tra separazione, divorzio e procedimenti revisionali, l’applicazione di un termine anche per la trasmissione della convenzione in caso di separazione o divorzio “secco”, la specificazione delle modalità di trasmissione dell’accordo e l’indicazione della documentazione da allegare) e di creare una rete organizzativa in grado di gestire in tempi abbastanza rapidi (e quasi sempre più brevi di quelli dei Tribunali) il crescente numero di convenzioni di negoziazione assistita trasmesse.
Può dunque affermarsi che, a seguito dell’avvento della degiurisdizionalizzazione anche nel diritto matrimoniale, la giurisdizione è stata comunque chiamata a mantenere il suo ruolo di garanzia del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento a tutela dei soggetti più deboli e vulnerabili della famiglia in crisi, vale a dire i figli, e tale compito per il tramite del nuovo istituto della negoziazione assistita è stato sottratto al Tribunale ed affidato al pubblico ministero, che ha dimostrato di saper intendere questo nuovo ruolo in maniera senza dubbio più attenta, vigile e scrupolosa rispetto a quello fino ad ora esercitato all’interno del processo civile tradizionale.
5. Quali prospettive per il pubblico ministero nei procedimenti in materia di persone e famiglia?
A conclusione di questa rapida analisi, la domanda che bisogna porsi è se si potrebbe davvero fare a meno del pubblico ministero nei procedimenti in materia di famiglia, stato e capacità delle persone.
La risposta può essere solo in parte affermativa, e non può esserlo senz’altro con riferimento alle ipotesi in cui il pubblico ministero disponga di poteri di azione, poiché continuano ad esservi casi in cui obiettivamente nessun altro soggetto potrebbe agire a garanzia dei diritti dei soggetti deboli o incapaci: si pensi ad es. ai casi, sempre più frequenti attesi i mutamenti sociali degli ultimi decenni, degli anziani soli ed alle prese con gravi patologie fisiche o mentali invalidanti, in stato di abbandono oppure esposti al rischio di circonvenzione o sfruttamento da parte di terzi, ovvero dei figli di genitori che, completamente assorbiti dall’assai conflittuale separazione o divorzio, abbiano del tutto perso di vista i loro interessi, o ancora all’assai peculiare caso in cui nessuno dei due genitori del figlio minorenne intenda attivarsi per chiedere il disconoscimento della paternità ai sensi dell’art. 244 cc pur essendo già stata acquisita con consulenza genetica stragiudiziale la prova della paternità biologica da parte di altro soggetto, e la nomina del curatore speciale che agisca nell’interesse del minore possa essere richiesta solo dal pubblico ministero.
Piuttosto, de iure condendo detti poteri di azione andrebbero semmai rafforzati, in particolare prevedendo una sorta di obbligatorietà anche dell’esercizio dell’azione civile da parte del pubblico ministero.
Senza dubbio la mancanza del pubblico ministero si avvertirebbe meno in molti dei procedimenti in cui è previsto il suo intervento obbligatorio, e ciò in quanto nella quasi totalità dei casi si tratta di una funzione a cui detto ufficio ha già di fatto abdicato, esercitandola in maniera assolutamente burocratica e del tutto inutile per la tutela degli interessi latamente pubblicistici a cui sarebbe sottesa, o addirittura non esercitandola affatto.
In tali casi, il giudice e le altre parti in causa (e forse anche lo stesso legislatore, come dimostra l’evoluzione della recente normativa in materia di processo civile telematico) hanno già imparato a fare a meno del pubblico ministero, e dovrebbe seriamente riflettersi sul fatto che continuare a prescrivere a pena di nullità anche la presenza di tale organo rischia di costituire un lusso che il processo civile, alle prese con svariati altri mali, al momento non può più permettersi.
Ciò tuttavia non significa che il pubblico ministero, proprio nell’ambito di una concezione unitaria della giurisdizione, non possa comunque essere valorizzato in modi differenti per contribuire alla realizzazione di una giustizia civile quale servizio più efficiente e vicino agli interessi dei tanti soggetti che continuano a chiedere giustizia, come dimostrato proprio dall’applicazione della negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio.
[1] Si veda già F. Cipriani, L’agonia del pubblico ministero nel processo civile, in Foro It., 1993, C. 14, in cui il pubblico ministero civile veniva addirittura definito «una cariatide alla quale nessuno attribuisce più effettiva importanza».
[2] C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, vol. I, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 225 ss. L’autore soggiunge inoltre che «la funzione del pm è quella di un autentico espediente del quale l'ordinamento si serve per poter utilizzare la tecnica di un processo interamente imperniato sulle iniziative delle parti, in funzione della tutela dei diritti che l'ordinamento ritiene di dover sottrarre - con maggiore o minor rigore - alla disponibilità dei loro titolari, in relazione all'interesse di natura pubblica che l'ordinamento attribuisce loro. Un soggetto appositamente creato per poter operare, a tutela di diritti e interessi rilevanti sul piano pubblicistico, con i poteri e le altre situazioni proprie delle parti, in un processo imperniato sulle iniziative delle parti».
[3] Sulle conseguenze disciplinari del mancato esercizio dei doveri di astensione si segnalano Cass. civ., Sez. un., 13 aprile 1989, n. 1757, in Foro It., 1989, XI, I, p. 3142, e più di recente Cass. civ., Sez. un., 12 maggio 2010, n. 11431, in Ced Cass., 612707.
[4] Cass. civ., 27 aprile 2002, n. 6167, in Foro It., 2002, XI, I, p. 3139.
[5] Sul punto appare utile rinviare anche alle ampie e per larga parte ancora attuali considerazioni di V. Pacileo, Il Pubblico Ministero nel processo civile, in Cass. pen., 2006, 10, p. 3411.
[6] Cass. civ., 29 ottobre 1963, n. 2888, in Giust. civ., 1963, I, p. 2516.
[7] Cass. civ., 17 marzo 1970, n. 690, in Giust. civ., 1970, I, p. 662.
[8] F. Morozzo Della Rocca, voce Pubblico ministero, in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, p. 1081.
[9] Cass. civ., 18 ottobre 1989, n. 4201, in Giust. civ., 1990, I, pp. 1009 ss.
[10] F. Morozzo della Rocca, op. cit., p. 1085.
[11] Cass. civ., 28 luglio 2004, n. 14199, in Guida dir., 2004, n. 42, p. 77, secondo cui «l'ufficio del pubblico ministero non può sostenere l'onere delle spese del giudizio nell'ipotesi di soccombenza, atteso che esso è organo propulsore dell'attività giurisdizionale che ha la funzione di garantire la corretta applicazione della legge, con poteri meramente processuali, diversi da quelli svolti dalle parti, ed esercitati per dovere di ufficio e nell'interesse pubblico».
[12] Cass. civ., Sez. un., 17 luglio 2003, n. 11191, in Ced Cass., 565153, benché sul punto in dottrina siano stati avanzati dubbi, sostenendosi che, pur non potendo il pubblico ministero direttamente lucrare onorari in caso di esito favorevole della causa, l’Erario avrebbe titolo per recuperare a carico del privato soccombente sia le somme anticipate che quelle prenotate a debito.
[13] M. Vellani, voce Pubblico ministero, in Digesto disc. priv., sez. civ., XVI, Utet Giuridica, Torino, 2012.
[14] Sebbene i criteri di riparto, anche a causa di una infelice formulazione del novellato art. 38 disp. att. cpc, restino ancora non del tutto chiari e siano fonte di numerosi contrasti in dottrina e giurisprudenza, su cui si veda Cass. civ., 26 gennaio 2015, n. 1349, in Fam. e diritto, 2015, pp. 653 ss., con nota di G. Buffone.
[15] Si segnala tuttavia Cass. civ., 17 luglio 2014, n. 16361, in Ced Cass., 632203, secondo cui: «Nei procedimenti in cui sia previsto l'intervento obbligatorio del pm, la nullità derivante dalla sua omessa partecipazione al giudizio si converte in motivo di gravame ai sensi degli artt. 158 e 161 cod. proc. civ., che, tuttavia, può essere fatto valere solo dalla parte pubblica (a cui compete anche il corrispondente e specifico motivo di revocazione ex art. 397, n. 1, cod. proc. civ.), dovendosi escludere che sussista una concorrente legittimazione delle altre parti».
[16] Sempre senza pretesa di esaustività, nel procedimento di querela di falso a tutela della pubblica fede ai sensi dell’art. 221 cpc, in sede di adozione dei provvedimenti conservativi nell’interesse dello scomparso (art. 721 cpc), di ricorso avverso il rifiuto alle pubblicazioni ed alla celebrazione matrimoniale (artt. 98 e 112 cc), in materia di adozione di maggiorenni (art. 313 cc), di rettificazione di attribuzione di sesso (art. 2 legge 14 aprile 1982, n. 164 e 31 d.lgs 1 settembre 2011, n. 150), di opposizione alla convalida del trattamento sanitario obbligatorio (art. 21 d.lgs 1 settembre 2011, n. 150), nei procedimenti in materia elettorale e di ordini professionali di cui agli artt. 22, 23, 24, 26 e 27 del d.lgs 1 settembre 2011, n. 150, e in generale nei procedimenti camerali e di volontaria giurisdizione indicati dagli artt. 32, 33 e 38 disp. att. Cc, Cass. civ., 10 luglio 2017, n. 17024, in Ced Cass., 645063, ha di contro ribadito la non obbligatorietà dell’intervento del pubblico ministero nelle controversie aventi ad oggetto la validità del testamento olografo per incapacità naturale del de cuius.
[17] A memoria di chi scrive, in circa 10 anni di esercizio delle funzioni giudicanti civili, di cui 5 proprio in materia di persone e famiglia, ciò non è anzi mai avvenuto, nonostante alcune segnalazioni, in particolare nell’ambito di procedimenti per ordini di protezione contro gli abusi familiari a norma degli artt. 342-bis cc e 736-bis cpc.
[18] S. Satta, Diritto processuale civile, Cedam, Padova, 2000, p. 89.
[19] In realtà, per Cass. civ., 21 maggio 2014, n. 11223, inCed Cass., 631252, «In tema d'intervento obbligatorio del pm, la tardiva formulazione delle sue conclusioni, fuori udienza e senza che le parti abbiano potuto conoscerle, non determina la violazione del contraddittorio, atteso che, ai fini della validità del procedimento, non è necessaria né la presenza alle udienze né la formulazione delle conclusioni da parte di un rappresentante di tale ufficio, che deve semplicemente essere informato, mediante l'invio degli atti, e posto in condizione di sviluppare l'attività ritenuta opportuna. Né, del resto, l'omessa partecipazione del pm, che sia titolare solo del potere di intervento e non anche di quello di azione, non comporta la rimessione della causa, da parte del giudice del gravame, a quello di primo grado, ma solo la decisione nel merito dopo aver disposto il suo coinvolgimento».
[20] Si vedano sul punto, tra le più recenti, Cass. civ., 2 ottobre 2013, n. 22567, inCed Cass., 569187, in tema di querela di falso, Cass. civ., 24 maggio 2005, n. 10894, inCedCass., 582624, in materia di separazione personale. Entrambe le pronunzie fanno espresso richiamo al fatto che la effettiva partecipazione del pubblico ministero obbligato ad intervenire sia rimessa alla sua diligenza. In dottrina peraltro si segnala la voce contraria di E. Grasso, Pubblico ministero. Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, vol. XXV, Roma, 1991, p. 3.
[21] Per far fronte a tale criticità, in alcuni Uffici, tra cui in particolare i Tribunali di Napoli e Sciacca, erano state individuate soluzioni finalizzate a dare visibilità e trasmettere comunque in via telematica i fascicoli al pubblico ministero: nel primo caso ottenendo l’attivazione per i 12 pubblici ministeri che si occupavano anche di affari civili della consolle del magistrato – profilo assistente; nel secondo attraverso la stipula di un apposito Protocollo tra i capi degli uffici.
[22] Ovviamente sempre ritenendo sufficiente il fatto che il pubblico ministero sia stato comunque messo a conoscenza dell’esistenza del procedimento, diversamente soggetto a nullità, si veda sul punto Cass. civ., Sez. un., 18 gennaio 2017, n. 1093, inCed Cass., 642200.
[23] Per un’analisi più ampia ed organica dell’intera novella processuale si rinvia, ex multibus, a F. Tommaseo, La separazione e il divorzio: profili processuali e “degiurisdizionalizzazione” alla luce delle recenti riforme, in Corr. Giur., 2015, pp. 1141 ss., ed a G. Buffone, La riforma del processo civile 2014. Tutte le novità, in Il civilista, Milano, 2014.
[24] F. Danovi, I nuovi modelli di separazione e divorzio: una intricata pluralità di protagonisti, in Fam. e diritto, 2014, pp. 1141 ss.
[25] In ordine alla quale non ci si dilungherà in questa sede, rinviandosi per una più compiuta disamina delle principali questioni problematiche a F. Danovi, Il pm nella procedura di negoziazione assistita. I rapporti con il presidente del Tribunale, in Fam. e diritto, 2017, 1, pp. 69 ss.
[26] N. Cerrato, La negoziazione assistita in materia di famiglia: il punto del pubblico ministero, in Lo stato civile italiano, 2015, 5, pp. 26 ss.
[27] Tra protocolli i più significativi, meritano una menzione quelli adottati dalle Procure di Milano, Torino, Roma, Bari, Siena e Frosinone.