La riforma della responsabilità medica.
I profili processuali
La riscrittura delle regole della responsabilità sanitaria ad opera della legge 7 marzo 2017, n. 24, impone una riflessione sui profili processuali di una disciplina che, qualificando extracontrattuale la responsabilità del sanitario e contrattuale quella della struttura, e prevedendo l’azione diretta nei confronti dell’impresa di assicurazione, rende necessario analizzare il modo di atteggiarsi del processo litisconsortile e la struttura del procedimento di consulenza tecnica preventiva in funzione di conciliazione della lite, che il legislatore ha voluto individuare come condizione di procedibilità del giudizio. Il fatto, poi, che la scelta del legislatore sia stata nel senso di consentire alle parti, per giungere alla composizione negoziale della controversia, l’opzione tra i due sistemi diversi dell’art. 696-bis e della mediazione “pura”, quella del d.lgs 28/2010, porta l’interprete a riflettere sulle ragioni che possono indirizzare in una direzione o nell’altra.
1. Dall’«obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto» alla riscrittura della responsabilità del sanitario nell’art. 7 della l. 8 marzo 2017, n. 24
La legge 8 marzo 2017, n. 24, vuol essere il punto di arrivo di una evoluzione della responsabilità sanitaria che già con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale era passata da capitolo di una trattazione generale dedicata alla responsabilità del professionista ad aspetto centrale della tutela della salute. In linea con questa impostazione, nell’art. 1 della legge si enuncia il principio per cui «la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività».
Sono gli stessi anni, quelli trascorsi dal 1978 ad oggi, in cui l’aumento delle aspettative di guarigione, e il progresso della medicina, hanno mutato profondamente il rapporto medico-paziente: sempre più spesso l’alleanza terapeutica ha lasciato il posto alla contestazione dell’errore e il rapporto tra le parti si è spostato dall’ambulatorio e la corsia dell’ospedale alle aule del tribunale. Le parti del rapporto di cura sono diventate parti di un contenzioso dilagante.
La crescita del fenomeno della cd. medicina difensiva, con le ripercussioni che ha avuto sulle cure, ha spinto così a riflettere su soluzioni che arginassero l’aumento delle controversie e restituissero serenità ad un medico chiamato alla cura del paziente e non a pensare a mettersi al riparo da possibili contestazioni successive.
Un primo passo in questa direzione è stato fatto col d.lgs 4 marzo 2010, n. 28, e l’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione davanti ad un organismo di mediazione. Nel contempo, è continuata la riflessione sull’onere della prova e sulla disciplina della prescrizione, che il legislatore ha cercato di rimodulare per alleggerire la posizione del sanitario ed incanalare le pretese risarcitorie nei confronti della struttura. Questo, anche in considerazione del dato empirico che nella medicina moderna l’organizzazione ha una forte incidenza sul risultato della prestazione.
Dopo che il dl. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni nella l. 8 novembre 2012, n. 189 (cd. legge Balduzzi), aveva previsto che «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile»[1], si è riaperto l’interrogativo della natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità del medico dipendente della struttura[2], assestatasi nella prima direzione dopo che la notissima pronuncia della Corte di cassazione resa nel 1999 aveva inquadrato la responsabilità del professionista nello schema della responsabilità contrattuale «da contatto sociale»[3].
Con la conseguenza che l’attore era chiamato a provare l’esistenza del contratto o il contatto sociale e ad allegare l’insorgere o l’aggravamento della patologia e l’inadempimento qualificato del debitore astrattamente idoneo a provocare, quale causa o concausa efficiente, il danno lamentato, rimanendo a carico del medico convenuto e della struttura sanitaria dimostrare che tale inadempimento non vi fosse, oppure che, pur essendovi stato, non avesse avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno.
Nel prendere posizione su tutti questi temi, la l. 8 marzo 2017, n. 24 è intervenuta sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale.
Sotto il primo profilo, all’art. 7 si è espressamente stabilito che, mentre la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, continua a rispondere delle condotte dolose o colpose dei sanitari ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, l'esercente la professione sanitaria risponda del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente; all’art. 8, invece, si è declinata in modo diverso da quanto fino a quel momento previsto la condizione di procedibilità della lite, prevedendo che l’introduzione della causa sia preceduta da un ricorso alla consulenza tecnica preventiva contemplata dall’art. 696-bis cpc[4].
È stata introdotta l’azione diretta del danneggiato verso l’impresa assicurativa, nei limiti del massimale, ad accompagnare l’obbligo di assicurazione del medico e della struttura (che può sostituire tuttavia sostituire la copertura assicurativa con “analoghe misure”, come l’autoassicurazione prevista in molte regioni d’Italia), con un litisconsorzio necessario con l’assicurato e la riproduzione delle tematiche che connotano la responsabilità civile da circolazione di veicoli e natanti (art. 10 e 12). Sono stati previsti obblighi di comunicazione all’esercente la professione sanitaria dell’avvio di trattative stragiudiziali col danneggiato[5] o dell’instaurazione del giudizio da questi promosso (art. 13). Si è limitata, infine, l’azione di rivalsa e di responsabilità amministrativa che la struttura privata e il pubblico ministero presso la Corte dei conti possono esercitare a valle del procedimento che si concluda con l’accertamento della responsabilità sanitaria (art. 9).
Ma, come si è detto, l’intervento del legislatore è andato oltre: nell’affermare il diritto alla sicurezza delle cure in sanità come parte costitutiva del diritto alla salute, la legge guarda agli strumenti preventivi, prima che repressivi, a tutela della salute. Nel tentativo di recuperare la centralità del rapporto medico-paziente e garantire a questi la migliore assistenza possibile durante il percorso terapeutico si riconosce che la sicurezza delle cure si realizza «anche mediante l'insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all'erogazione di prestazioni sanitarie e l'utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative».
L’obiettivo è espressivo della volontà di un significativo cambio di prospettiva.
2. La mediazione tra procedura ex art. 696 bis cpc e applicazione dell’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs 04.03.2010 n. 28
Molto attesa, anche per le sue implicazioni sistematiche e non solo per le ricadute deflattive sul contenzioso, era la scelta che la l. 8 marzo 2017 n. 24 avrebbe fatto nel condizionare l’azione in materia di responsabilità sanitaria. L’alternativa era tra il ricorso in via esclusiva alla consulenza tecnica preventiva in funzione di conciliazione della lite, ex art. 696-bis cpc, postulato fin dall’inizio dei lavori preparatori, e il mantenimento della possibilità della via della mediazione, già condizione di procedibilità per la responsabilità sanitaria ai sensi dell’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs 4 marzo 2010, n. 28.
Nessuno spazio, invece, era previsto fin dall’inizio per la negoziazione assistita, di cui la legge nega l’applicabilità nonostante che nelle materie in cui il tentativo di mediazione è obbligatorio non operi la condizione di procedibilità prevista dall’art. 3 del dl. 12 settembre 2014, n. 132[6].
La scelta del legislatore è stata nel senso di consentire alle parti, per giungere alla composizione negoziale della controversia, l’opzione tra due sistemi diversi, aventi una finalità solo in parte coincidente. Il primo, quello dell’art. 696-bis, che punta sulla doppia anima della consulenza in funzione conciliativa, per consentire alle parti di ottenere al tempo stesso una prova spendibile nell’eventuale successivo giudizio e di poter contare sull’opera di conciliazione del perito; il secondo, quello della mediazione “pura”, dinanzi all’organismo di conciliazione, secondo le regole introdotte nel 2010 e riviste col dl. 21 giugno 2013, n. 69.
Dell’alternativa della mediazione, inserita “in corsa” nella l. 24/2017 in sede di approvazione in aula da parte del Senato della nuova disciplina, il legislatore non si occupa, rimettendosi evidentemente alle norme esistenti e all’elaborazione in materia. Tutto l’art. 8 è dedicato infatti esclusivamente a tratteggiare le caratteristiche del tentativo di conciliazione nelle forme dell’art. 696-bis e a raccordarlo col procedimento sommario di cognizione, regolato dall’art. 702-bis cpc, che si presta ad accogliere le controversie che o in se stesse, o in quanto precedute, come in questo caso, da una consulenza tecnica, presentano un grado di minore complessità istruttoria.
Per consentire una scelta consapevole tra i due sistemi messi a disposizione dalla nuova legge, è opportuno fare un passo indietro, e individuare i tratti principali che caratterizzano questo tipo di controversie, distinguendole dalle altre per le quali pure nel d.lgs 28/2010 è prevista l’obbligatorietà del tentativo.
Com’è noto, sono tre i fattori che influiscono principalmente sulla praticabilità della mediazione nella materia che ci occupa.
Il primo riguarda il nodo della responsabilità erariale, nelle ipotesi – che saranno la regola, nel meccanismo della nuova legge – in cui la domanda coinvolga, oltre o indipendentemente dal medico, l’azienda sanitaria pubblica o ospedaliera di appartenenza.
Nelle controversie risarcitorie da responsabilità sanitaria manca, infatti, una previsione analoga a quella dell’art. 66, d.lgs 165/2001, abrogato dalla l. 4 novembre 2010, n. 183, ma riprodotto nel novellato art. 410 cpc, che prevede un esonero da responsabilità amministrativa, salvi i casi di dolo e colpa grave, per la conciliazione della lite da parte di chi rappresenti la pubblica amministrazione. Una norma di questo tipo è immaginata nella proposta di riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione, presentata dalla Commissione ministeriale presieduta da Guido Alpa, ove si prevede espressamente che, nella mediazione di cui al d.lgs 28/2010, «la conciliazione della lite da parte di chi è incaricato di rappresentare la pubblica amministrazione, amministrata da uno degli organismi di mediazione previsti dal presente decreto, non dà luogo a responsabilità amministrativa e contabile quando il suo contenuto rientri nei limiti del potere decisionale dell’incaricato, salvo i casi di casi di dolo o colpa grave».
L’assenza, allo stato, di una previsione di questo tipo non impedisce la conciliazione, ma di certo la rende più complicata (da un punto di vista “psicologico”) per l’Amministrazione che spesso è indotta a preferire la più rassicurante risposta giudiziale[7].
Per la verità i principi espressi dal giudice contabile non portano necessariamente verso il giudizio, anzi: nelle pronunce della Corte dei conti si legge che la scelta discrezionale dell’amministrazione di addivenire ad una composizione stragiudiziale della controversia è sindacabile solo se assolutamente irragionevole ed irrazionale, ovvero conseguenza di scelte illogiche, contra legem o abnormi, che abbiano comportato liquidazione di poste di danno non dovute, nel qual caso soltanto la transazione acquista un’autonoma valenza causativa del danno che deriva dal risarcimento ottenuto dal terzo[8]. Il raggiungimento dell’accordo è pertanto possibile, a patto che i motivi che lo sorreggono vengano compiutamente esposti nelle premesse del verbale di conciliazione, anche quando il servizio di medicina legale consultato dalla struttura abbia ritenuto di non ravvisare alcuna colpa nella condotta censurata dal danneggiato, o alcun collegamento causale tra il comportamento del sanitario e il pregiudizio, e tuttavia l’Amministrazione scelga di optare per la chiusura in via bonaria della lite: sia perché, naturalmente, anche in questi casi non si potrà escludere a priori il rischio di un esito sfavorevole del giudizio[9], sia perché la scelta può dipendere non solo dai costi connessi al contenzioso giudiziario, ma anche dal desiderio di contenere danni di immagine[10].
Tuttavia, e nonostante la giurisprudenza abbia a più riprese sottolineato come «non vi sono ostacoli a che il funzionario delegato possa gestire la procedura [di mediazione] e, nell’ambito dei poteri attribuitigli, concludere un accordo» e ricordato che è semmai la «scelta di una condotta agnostica, immotivatamente anodina e deresponsabilizzata dell’amministrazione pubblica [a poterla] esporre a danno erariale»[11], è frequente, nella pratica, il rifiuto della struttura di partecipare al tentativo di mediazione con la motivazione che, da una verifica interna, non è stata ravvisata ragione di responsabilità del sanitario. Che è quanto ha indotto il legislatore, nell’art. 8, quarto comma, a prevedere che la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva sia viceversa obbligatoria per tutte le parti, senza consentire che vengano addotti “giustificati motivi”, come invece è possibile nell’art. 8 d.lgs n. 28/2010.
Il secondo fattore che influenza il successo della mediazione in materia di responsabilità sanitaria è il coinvolgimento nelle liti a vario titolo delle imprese di assicurazione, oggi più che mai ricorrente in potenza, vista la previsione dell’azione diretta[12].
Nelle ipotesi in cui sia l’assicurato a dover chiamare in giudizio l’impresa assicurativa in manleva, l’obiettivo della condivisione dell’eventuale accordo raggiunto non si raggiunge col semplice coinvolgimento dell’impresa di assicurazione nel procedimento di mediazione, dato che, diversamente da quel che accade con la sentenza del giudice, il principio che opera non è quello dell’art. 2909 cod. civ., ma quello dell’art. 1304 cod. civ. («la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare»). Non è sufficiente, quindi, la previsione della partecipazione obbligatoria dell’impresa di assicurazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva, ma è necessario prevedere degli incentivi alla partecipazione all’accordo: anche su questo punto il legislatore ha pensato di intervenire, stabilendo che l’impresa sia obbligata a formulare una offerta di risarcimento del danno ovvero comunicare i motivi per cui ritenga di non formularla. Ove questo non avvenga, e sia successivamente resa una sentenza a favore del danneggiato, il giudice trasmetterà copia della sentenza all’Ivass per gli adempimenti di propria competenza[13].
Un terzo fattore, che nella disciplina del d.lgs 28/2010 crea le difficoltà imposte dalle regole sulla prova, è il tema del peso che ha l’accertamento medico legale nell’opera del conciliatore nelle controversie in tema di responsabilità sanitaria.
Sebbene la mediazione abbia una funzione diversa da quella dei meccanismi di composizione della lite di tipo “aggiudicativo”, è necessario che tanto le parti quanto il mediatore conoscano le regole del rapporto che in caso di accordo si andrà a disciplinare: oltre alle regole giuridiche, le regole tecniche, perché la comprensione degli aspetti medico-legali in gioco assicura una piena consapevolezza, in tutti gli attori del procedimento, degli spazi e del significato del proprio operare[14].
Del resto, che la preparazione tecnica sia necessaria, lo dimostra la stessa previsione, nell’art. 8, 1° co., del d.lgs n. 28/2010, che «nelle controversie che richiedono specifiche conoscenze tecniche, l’organismo [possa] nominare uno o più mediatori ausiliari». Il co-mediatore è figura ben diversa da quella del perito, pure prevista dal medesimo art. 8, al quarto comma, perché conduce il tentativo di conciliazione insieme al mediatore, e non ne è un ausiliare, ed utilizza il linguaggio scientifico, come il mediatore “giurisperito” fa ricorso alle proprie conoscenze giuridiche, per aiutare le parti ad individuare i propri interessi e a delineare lo strumento che consente loro di soddisfarli.
Quando il mediatore nel d.lgs. n. 28/2010 opti per la nomina dell’esperto, anziché avvalersi del co-mediatore, si ha non solo il problema del rispetto delle regole di riservatezza e inutilizzabilità poste dagli artt. 9 e 10, peraltro superabili se la riservatezza è riferita alle dichiarazioni delle parti e alle informazioni provenienti dalle stesse, ex art. 194 cpc, più che non al contenuto della relazione tecnica, o se le parti danno il consenso all’impiego delle risultanze peritali[15]. Ma si ha anche, e soprattutto, la conseguenza che la perizia espletata in mediazione potrà avere, tutt’al più, il valore di una prova atipica[16], per chi ammetta questa nozione
Anche su questo punto il legislatore ha ritenuto di intervenire, pensando che il richiamo all’art. 696-bis risolva meglio i problemi evidenziati, assicurando che il mediatore abbia conoscenza dei profili tecnici del rapporto e al tempo stesso che l’eventuale consulenza tecnica espletata nel tentativo di mediazione sia utilizzabile nel successivo processo. Rimarrà da vedere se il perito-mediatore saprà interpretare correttamente il proprio ruolo e se l’atteggiamento delle parti nei suoi confronti non sia quello che si assume rispetto al giudice.
3. Il tentativo di conciliazione condotto dal consulente tecnico
Nelle controversie in materia di responsabilità sanitaria, la scelta di sottoporre la lite ad una condizione di procedibilità anteriore all’introduzione della lite[17] ha il merito indiscutibile di costringere le parti ad una “sosta” tecnica prima di affrontarsi in giudizio.
Il rischio, però, è che le parti sottovalutino l’utilità del tentativo, o che – almeno nella logica del d.lgs 28/2010 - l’apertura del confronto avvenga in un momento troppo anticipato rispetto al momento in cui sulla questione verrà fatta l’istruttoria, perché la mediazione abbia effettive possibilità di successo (e questo secondo aspetto, soprattutto, spiega la scelta dell’art. 8 della l. n. 24/2017 di affidare la conciliazione al consulente tecnico).
Delle caratteristiche che il tentativo dovrà avere il legislatore non parla, così come non ne parlava nell’art. 696-bis cpc. Tanto che vi sono stati casi, nella pratica, in cui il tentativo di conciliazione previsto dalla norma del codice di rito non è stato neppure svolto.
Ci si chiede, allora, se possano mutuarsene le regole dal diritto vivente che si è formato sulla mediazione.
La giurisprudenza sulla mediazione presso gli organismi, infatti, oltre a richiedere, per l’assolvimento della condizione di procedibilità, che l’incontro di mediazione sia effettivo[18], impone la presenza personale delle parti e non solo quella dei loro rappresentanti[19].
Per la verità, visto che le parti hanno comunque il diritto di conferire una procura, l’obbligo della presenza personale, e non solo di quella di un procuratore a conoscenza dei fatti di causa come nell’art. 185 cpc, può essere ricavato solo da un’interpretazione delle norme molto spinta, che faccia leva sulla ratio dell’istituto e sulle ragioni dell’utilità della presenza[20]. La logica dell’autonomia negoziale, che nel tentativo di conciliazione vuole che le parti, oltre a decidere se chiudere la lite con un accordo, prima ancora contribuiscano in prima persona, con l’aiuto del mediatore, alla formulazione delle alternative, può servire a spiegare perché non ci si accontenti della presenza del procuratore seppure «a conoscenza dei fatti di causa». È una prospettiva diversa da quella dell’eteronomia giudiziale, in cui le parti non sono chiamate ad assumere su di sé le sorti del rapporto che il contratto, e non la sentenza, andrà a regolare.
Nella già menzionata proposta di riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione, presentata dalla Commissione ministeriale presieduta da Guido Alpa, è stata individuata una soluzione di compromesso, con la previsione che la procura possa essere conferita, ma debba essere diversa da quella data al difensore.
Veniamo al momento in cui deve essere effettuato il tentativo di conciliazione, di cui la legge non parla. L’art. 696-bis, infatti, si limita a prevedere che il consulente tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti, «prima di provvedere al deposito della relazione». Nella prospettiva dell’art. 8 l. 24/2017 la conciliazione dev’essere comunque tentata, visto che è questo che integra l’assolvimento della condizione di procedibilità, ma non si dice quando.
Nelle liti ad alto tasso di complessità tecnica, come quelle di specie, una più approfondita conoscenza dei termini della causa, quale si ha ad istruttoria avviata, ha degli indubbi vantaggi.
Non sempre, nel caso del tentativo svolto ai sensi dell’art. 5 d.lgs 28/2010, l’istanza è articolata in una maniera tale da consentire la piena comprensione della vicenda, bastando quel tanto che serve a consentire la produzione degli effetti previsti dall’art. 5, 6° co., in punto di prescrizione e decadenza[21]. L’approfondimento istruttorio permette invece alle parti una visione più chiara delle alternative[22] che esse hanno al raggiungimento dell’accordo e consente una conduzione più consapevole del tentativo di conciliazione.
Come si legge nel passo della Relazione che accompagnava la proposta Vaccarella di introduzione dell’art. 696-bis, «l’esperienza mostra che, spesso, il contrasto tra le parti riguarda la quaestio facti, di tal che, una volta effettuata l’istruttoria – e beninteso se non vi sono ragioni di contestazione sul modo in cui l’istruttoria si è svolta – la controversia viene conciliata. Se dunque si riesce ad anticipare la formazione della prova rispetto all’inizio del processo, le controversie caratterizzate da un contrasto in punto di fatto presumibilmente non verranno portate davanti al giudice».
Questo sembra implicare che un tentativo di conciliazione troppo anticipato rispetto allo svolgimento dei lavori peritali abbia scarsa utilità, e che lo si debba fare poco prima che sia “esaurita l’istruzione,” come nell’art. 185-bis cpc, e perciò subito prima del deposito della relazione.
Nella varietà dei casi concreti potrà però accadere anche l’esatto contrario, e la composizione della lite essere facilitata proprio dal fatto che il quadro dei fatti non sia ancora del tutto chiarito (anche se è difficile che non vi sia stato, nel caso del medico operante presso una struttura, un esame della vicenda interno o in sede di audit[23], o perché sono previste forme di gestione diretta del sinistro, o per l’intervento del Difensore civico). Così come potrà accadere che la causa non verta su profili che richiedono l’accertamento di questioni di apprezzabile difficoltà tecnica, oppure si discuta della violazione dell’obbligo di informazione, e perciò dell’autodeterminazione delle scelte terapeutiche anziché del pregiudizio all’integrità psico-fisica arrecato dall’errata esecuzione dell’intervento.
In questi casi, probabilmente, sarà più utile il ricorso alla mediazione presso l’organismo, vista la maggiore esperienza al momento maturata nel settore e nonostante l’istituto non abbia avuto dappertutto, nelle liti mediche, il successo che nel 2010 si auspicava potesse avere[24].
L’utilità della consulenza tecnica preventiva non deve far dimenticare, per altro verso, che le spese della consulenza sono necessariamente anticipate da chi la richiede (anche recenti pronunce di Cassazione lo confermano). Il che potrebbe costituire un onere non indifferente per l’attore, a fronte dei minori costi della mediazione quando non si pretenda di ricorrere all’“esperto” anche in mediazione.
4. Il rilievo dell’improcedibilità
L’articolo 8 stabilisce che la presentazione del ricorso ai sensi dell’art. 696-bis cpc dinanzi al giudice competente costituisca condizione di procedibilità della domanda di risarcimento.
Una previsione analoga è contemplata nell’art. 445-bis cpc, che l’art. 8 in parte ricalca.
Le due disposizioni, all’avvio, sono pressoché identiche.
Al di là di qualche minima variazione lessicale, nell’art. 445-bis cpc è l’espletamento dell’accertamento tecnico a costituire condizione di procedibilità, e non la semplice presentazione del ricorso, come nell’art. 8: peraltro, in entrambi i casi se il procedimento peritale è iniziato ma non si è concluso il processo non prosegue, ma viene assegnato un termine per il completamento dei lavori peritali (completamento che, nella previsione dell’art. 8, deve intervenire in ogni caso entro sei mesi dal deposito del ricorso).
Inoltre, nell’art. 445-bis è prevista la sola competenza del tribunale, mentre nell’art. 8 il giudice competente potrebbe essere, astrattamente, anche il giudice di pace[25], se non fosse che per il procedimento ex art. 702-bis la competenza è sempre del tribunale e il giudice dinanzi al quale il ricorso per la consulenza tecnica preventiva dev’essere presentato, ai sensi del terzo comma dell’art. 8, è «il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1».
In entrambe le norme si prevede che l’improcedibilità possa essere rilevata, anche d’ufficio, entro la prima udienza e non oltre. Rilevato il difetto, verrà fissata una nuova udienza e assegnato alle parti, dal giudice, il termine di quindici giorni[26] per la presentazione («dinanzi a sé», aggiunge l’art. 8) dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento. Non è chiara la ragione per cui si chiede il deposito dell’istanza di completamento del procedimento, quando è già previsto un termine di legge, perentorio, di sei mesi dal deposito del ricorso.
Il difetto della condizione di procedibilità è dunque sanabile, sia per il mancato rilievo del difetto ad opera del convenuto o del giudice, sia, qualora il vizio venga rilevato, per effetto della concessione del termine: l’onere in tal modo imposto alla parte che voglia agire in giudizio non è particolarmente pesante e si pone al riparo dalle declaratorie di incostituzionalità.
Peraltro, il Giudice delle leggi ha già avuto modo di pronunciarsi sulla condizione di procedibilità cui l’art. 8 ha subordinato la domanda di risarcimento in materia di responsabilità sanitaria, nel momento in cui ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 445-bis cpc, confermando anche in quella occasione «la legittimità di forme di accesso alla giurisdizione subordinate al previo adempimento di oneri finalizzati al perseguimento di interessi generali», e ritenendo soddisfatto, nella specie, il «triplice requisito che il legislatore non renda la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa ..., contenga l’onere nella misura meno gravosa possibile e operi un congruo bilanciamento tra l’esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell’accesso alla stessa intende perseguire»[27]. Secondo la Corte, gli adempimenti imposti alle parti, di presentare entro quindici giorni l’istanza di accertamento tecnico ovvero di completamento dello stesso, sono «adempimenti ordinari, che non comportano alcuna compressione dei diritti della parte privata»[28].
È immaginabile, perciò, che almeno sotto questo profilo[29] la nuova disciplina non incontrerà risposte diverse da parte della Corte costituzionale qualora ne venisse denunciata una ritenuta illegittimità per contrasto col diritto di azione in giudizio.
5. La salvezza degli effetti della domanda
Il comma 3 dell’art. 8 stabilisce la salvezza degli effetti della domanda se «entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’art. 702-bis del codice di procedura civile».
La norma parla in generale di salvezza degli effetti della domanda, diversamente da quanto fa l’art. 5, sesto comma, d.lgs n. 28/2010 che, correttamente (trattandosi di una domanda di mediazione e non di una domanda giudiziale), circoscrive gli effetti a quelli sulla prescrizione e sulla decadenza.
Nell’art. 8 gli effetti della domanda sono collegati non ad una domanda di mediazione, ma ad un ricorso giudiziale, il che spiega il richiamo più generale che il legislatore fa ad effetti quali la prevenzione ex art. 39, co. 3, cpc, la perpetuatio iurisdictionis dell’art. 5 cpc, la successione nel processo ex art. 110 cpc e la perpetuatio legitimationis contenuta nell’art. 111 cpc[30].
L’aver voluto, il legislatore, agganciare il ricorso ex art. 696-bis cpc al procedimento sommario di cognizione come sbocco “normale”[31] delle controversie in materia di responsabilità sanitaria precedute, anziché da una domanda di mediazione dinanzi ad un organismo, da una consulenza tecnica in funzione conciliativa, è la ragione della formula, un po’ curiosa, per la quale la salvezza degli effetti della domanda è legata non all’introduzione del giudizio in qualsiasi forma, ma al fatto che «entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio [sia] depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1 il ricorso di cui all’art. 702-bis del codice di procedura civile».
La norma così si spiega, ma non si giustifica, né si chiarisce quali siano le conseguenze del mancato rispetto della previsione.
La formula utilizzata dall’art. 8 sembra infatti impedire la salvezza degli effetti della domanda quando il processo non venga introdotto nelle forme dell’art. 702-bis (cosa possibile, quando il legislatore non lo escluda espressamente, né escluda la possibilità di una conversione del rito[32]). Ciò nonostante all’art. 696-bis, quale atto introduttivo di un giudizio, al di là di quale ne sia il contenuto, vengano comunque ricollegati dalla maggior parte degli interpreti gran parte degli effetti che non presuppongono l’introduzione del giudizio di merito[33]. Né vi è ragione di non consentire la salvezza degli effetti quando nel termine venga introdotto un processo a cognizione piena.
In ogni caso, per quanto attiene all’effetto più rilevante in materia, ovvero quello sulla prescrizione, se pure si dovesse perdere l’effetto sospensivo[34] (che il codice civile ricollega alla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, anche conservativo[35], e non anche alla semplice richiesta stragiudiziale, contenuta nell’atto di costituzione in mora), rimarrebbe pur sempre ferma l’interruzione del decorso della prescrizione[36].
6. Dal procedimento dell’art. 696-bis alla proposizione del ricorso ex art. 702 bis cpc
Se la conciliazione ha successo, il giudice attribuisce con decreto efficacia di titolo esecutivo al processo verbale (che è esente dall'imposta di registro), ai fini dell'espropriazione e dell'esecuzione in forma specifica. Come del resto nell’art. 12 del d.lgs n. 28/2010, l’accordo è anche titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale[37].
È, quello rivolto a munire il verbale di exequatur, l’unico intervento di un giudice che altrimenti, nel procedimento di istruzione preventiva affidato al consulente tecnico, è normalmente assente, e interviene solo quando occorra risolvere le questioni che si possono porre nel corso delle operazioni peritali (ad esempio, quelle concernenti l’acquisizione di documentazione rilevante[38], oppure le eventuali proroghe che possano essere richieste dal consulente,[39] e più in generale quelle sui poteri del consulente e i limiti dell’incarico, come prevede l’art. 92 disp. att. cpc), oppure quando occorra sollecitare il deposito della perizia, ed eventualmente sostituire il consulente in caso di reiterata inerzia, o provvedere alla liquidazione del compenso. Non vi è, in ogni caso, quando la consulenza venga disposta ante causam, un provvedimento che intervenga a conclusione dei lavori peritali: il consulente è sovrano del procedimento, dello svolgimento del quale deve dare conto nel processo verbale in occasione di ogni singola seduta; verbale che assume così valore di piena prova fino a querela di falso di quanto il perito attesti avvenuto in sua presenza[40].
Quando la conciliazione non riesce, il consulente deposita la relazione peritale: si potrebbe immaginare, in questi casi, che, nel tempo intercorrente tra la conclusione dei lavori e il termine previsto per la proposizione della domanda di merito, il giudice fissi una udienza dedicata alla verifica dell’esito della consulenza e al tentativo di conciliazione dinanzi a sé, eventualmente da ripetere alla prima udienza del giudizio successivo.
Sul presupposto che l’istruttoria non si presenti complicata dopo che è stata già svolta una consulenza tecnica, l’art. 8 ha collegato il procedimento ex art. 696-bis al procedimento sommario di cognizione[41], prescrivendo che dal deposito della relazione, o in ogni caso dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi previsto come limite massimo per la durata del procedimento, decorrano i novanta giorni per l’introduzione del giudizio ex art. 702-bis.
Di questo vi è poco da dire, se non riprendere quanto dottrina e giurisprudenza hanno affermato in proposito: al di là della collocazione del procedimento in prosecuzione della disciplina dei procedimenti cautelari (nel capo III bis del titolo I del libro IV del codice), dovuta alla generica finalità di accelerazione propria del giudizio in questione, si tratta di un procedimento tendenzialmente a cognizione piena, seppure senza una completa predeterminazione delle forme e dei termini che giudice e parti debbono seguire, rivolto alla formazione del giudicato; l’elemento decisivo per valutare la percorribilità o meno del rito sommario è l’attività istruttoria da svolgere e non anche l’oggetto della domanda o la tipologia della controversia; il procedimento riguarda solo cause di cognizione appartenenti alla competenza del tribunale (restando così escluse quelle di competenza del giudice di pace), e limitatamente a quelle nelle quali il tribunale giudichi in composizione monocratica; è prevista la possibilità di una conversione del rito, ove il giudice ne ravvisi la necessità[42]; l’appello, nel silenzio dell’art. 702 quater cpc, va proposto con citazione e non con ricorso[43] e la sua mancata proposizione comporta il passaggio in giudicato dell’ordinanza emessa ex art. 702-bis cpc; anche l’ordinanza di rigetto della domanda è ritenuta suscettibile di impugnazione ex art. 702-quater cpc[44]; l’impugnazione è maggiormente aperta ai nova in punto di prova, rispetto a quanto dispone l’art. 345 cpc, per il fatto che in primo grado l’istruttoria è sincopata.
Una volta depositato il ricorso il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per la costituzione del convenuto, che deve avvenire non oltre dieci giorni prima dell’udienza; il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto almeno trenta giorni prima della data fissata per la sua costituzione. I termini sono dunque abbreviati, rispetto al rito ordinario, vista la finalità di maggiore rapidità nella definizione della lite che il legislatore ha immaginato di raggiungere con l’introduzione di questo tipo di procedimento.
Per la costituzione in giudizio del convenuto, valgono per il procedimento sommario regole analoghe a quelle fissate per il rito ordinario: «Il convenuto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria della comparsa di risposta, nella quale deve proporre le sue difese e prendere posizione sui fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi e i documenti che offre in comunicazione, nonché formulare le conclusioni».
Opera dunque il principio di non contestazione, introdotto espressamente nel codice di rito dall’art. 115 cpc.
Inoltre – prosegue il quarto comma dell’art. 702-bis, in conformità con quanto previsto dall’art. 167, secondo comma –, «a pena di decadenza [il convenuto] deve proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito che non sono rilevabili d’ufficio».
Quanto alla chiamata in causa di un terzo, il quinto comma dell’art. 702-bis menziona esclusivamente la chiamata in garanzia[45], prevedendo espressamente che il convenuto in questo caso debba «a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di costituzione e chiedere al giudice designato lo spostamento dell’udienza. Il giudice, con decreto comunicato dal cancelliere alle parti costituite, provvede a fissare la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo. La costituzione del terzo in giudizio avviene a norma del quarto comma». Non è previsto un termine, che potrà essere fissato col decreto con il quale il giudice disporrà lo spostamento dell’udienza.
Dopodiché si procederà con la trattazione della causa, tenuto conto della già avvenuta consulenza tecnica.
7. L’ammissione della consulenza tecnica e il valore dell’accertamento tecnico nel successivo giudizio
Sia che il tentativo di conciliazione si sia svolto, senza successo, nelle forme dell’art. 696-bis sia che la parte abbia prescelto quelle del d.lgs n. 28/2010, nel successivo giudizio si porrà l’esigenza di acquisire la consulenza tecnica svolta in seno al tentativo.
Sotto questo profilo, l’opzione per il modello dell’art. 696-bis cpc pone minori problemi rispetto all’altro caso.
Innanzitutto, visto che il passaggio davanti al consulente è imposto dal legislatore a pena di improcedibilità della lite, l’eventualità di un rigetto dell’istanza ex art. 696-bis cpc dovrà essere riservata a casi eccezionali[46], senza che si dia peso eccessivo, se non quando proprio non vi sia alcuna necessità di un accertamento tecnico, a questioni relative all’ammissibilità, la rilevanza e l’utilità della Ctu in relazione alla materia del contendere (che il legislatore sembra avere valutato in qualche modo ex ante) o, peggio, alla utilità della conciliazione della lite[47]. Anche nei casi in cui la controversia potrebbe essere definita per effetto di una “ragione liquida”, è preferibile infatti – non foss’altro perché le parti potrebbero non acquietarsi e procedere con successive impugnazioni – permettere comunque la possibilità della composizione bonaria della lite tramite accertamento tecnico. Peraltro, siccome quel che impone la legge è l’assolvimento della condizione di procedibilità, e non della consulenza tecnica in funzione conciliativa, nei casi in cui davvero non vi siano ragioni per l’ammissione della consulenza, opererà la previsione della salvezza dell’alternativa del procedimento di mediazione del d.lgs 28/2010.
Quanto alla previsione del quinto comma dell’art. 696-bis («se la conciliazione non riesce, ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito»), a me pare che nell’art. 8 la consulenza tecnica debba essere praticamente sempre acquisita nel giudizio ex art. 702-bis, a meno che non ci siano profili di nullità che ne impongano la rinnovazione, e che là debba rivestire la medesima efficacia probatoria che avrebbe avuto se fosse stata disposta nel corso del processo ordinario. Questo perché, nonostante l’art. 698 cpc, cui il quinto comma dell’art. 696-bis puresi collega, stabilisca che l’assunzione preventiva dei mezzi di prova non pregiudica le questioni relative alla loro inammissibilità e rilevanza né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito, nella specie il fatto che il legislatore abbia voluto raccordare la consulenza tecnica preventiva al procedimento sommario di cognizione perché una porzione di istruttoria è già stata anticipata, suggerisce di ritenere che l’acquisizione della Ctu, richiesta dalle parti, debba essere pressoché automatica, a meno che non ricorrano ipotesi di nullità[48].
8. Le parti del procedimento di consulenza tecnica preventiva in funzione di conciliazione della lite e del successivo giudizio
Si è già detto che, per superare i problemi di mancata partecipazione al tentativo di conciliazione, non risolti dalla previsione dell’art. 8 d.lgs n. 28/2010, il legislatore del 2017 ha previsto, nell’art. 8, che la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva sia obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di cui all’art. 10.
La previsione è una risposta agli atteggiamenti di pregiudiziale chiusura alla partecipazione al tentativo che si sono avuti in questi anni rispetto alla obbligatorietà prevista dal d.lgs. n. 28/2010: permangono dubbi di costituzionalità, che si possono peraltro superare mantenendo alla discrezionalità del giudice la valutazione in via residualissima della possibilità di una assenza alla mediazione, riservata ad ipotesi di extrema ratio che possano essere, allora, prese in considerazione nell’applicazione della condanna prevista all’ultimo comma, quantomeno per quanto attiene alla pena pecuniaria[49].
Nella individuazione delle parti (da intendersi, del rapporto processuale) che debbono intervenire al procedimento di consulenza tecnica preventiva è necessario fare un passo indietro, a quando, in apertura, si sono ricordate le norme della l. 24/2017 che individuano le azioni proponibili.
Le legittimazioni all’azione che qui interessano si ricavano dagli artt. 7, 10 e 12, mentre non rileva l’art. 9 che prevede l’azione di rivalsa e di responsabilità amministrativa cui l’art. 8 non si applica.
In base all’art. 7 potranno essere evocati in causa dal danneggiato tanto il sanitario quanto la struttura, unitamente o separatamente tra loro[50], anche se l’ipotesi più ricorrente sarà la chiamata in giudizio della seconda, per il diverso regime della responsabilità. Le strutture coinvolte potranno essere più di una, per il coinvolgimento in fasi successive del decorso della malattia, così come più di uno potranno essere i sanitari, dato che il lavoro dei medici si svolge soprattutto in equìpe.
La legittimazione all’azione diretta verso l’impresa di assicurazione, prevista dall’art. 12 e collegata all’obbligo di assicurazione contemplato all’art. 10, è al momento subordinata all’entrata in vigore del decreto ministeriale che determinerà i requisiti minimi delle polizze assicurative, ma in futuro anche l’assicuratore potrà essere tra i destinatari dell’azione del danneggiato. Mutuando la posizione assunta da dottrina e giurisprudenza con riferimento all’assicurazione obbligatoria in materia di circolazione dei veicoli, questi ha un diritto proprio nei confronti dell’impresa di assicurazione, autonomo rispetto al rapporto tra assicuratore e danneggiante, ma dipendente dal rapporto tra danneggiante e danneggiato.[51] Potrà aversi dunque, oltre all’azione diretta, anche il cumulo dell’azione diretta verso l’assicuratore e quella ordinaria verso l’assicurato.
Entro i limiti del massimale, la responsabilità tra assicurato e assicuratore è solidale, e la solidarietà ad interesse unisoggettivo. Al danneggiato l’assicuratore non potrà opporre le eccezioni contrattuali nascenti dalla polizza[52], ma soltanto l’assenza di responsabilità del preteso debitore. L’assicuratore avrà diritto di rivalsa verso l’assicurato nel rispetto dei requisiti minimi stabiliti con apposito decreto.
Se il danneggiato propone la domanda solo verso la struttura, sarà quest’ultima a poter chiamare in causa l’assicuratore, per evitare che questi, convenuto in un secondo processo, neghi la sussistenza del proprio obbligo indennitario, complici i limiti soggettivi del giudicato.
La presenza in causa della struttura sarà una costante, sia quando il danneggiato eserciti l’azione diretta nei confronti dell’assicurazione, perché ciò comporterà il determinarsi di un litisconsorzio necessario con l’assicurato (un litisconsorzio necessario del tutto peculiare, determinato da ragioni di opportunità[53]), sia in caso di cumulo dell’azione diretta verso l’assicuratore e quella ordinaria verso l’assicurato.
Se questo è l’assetto delle azioni, con lo sguardo al possibile atteggiarsi del giudizio di merito l’attore dovrà costruire nello stesso modo il procedimento ex art. 696-bis cpc La struttura soggettiva del procedimento, inoltre, deve potersi comporre anche in base all’eventualità di interventi e chiamate.
Immaginiamo che, convenuta in giudizio la struttura, questa, che nel giudizio di merito avrebbe chiamato in manleva la compagnia, reputi necessario farla entrare anche nel procedimento di istruzione preventiva per poterle opporre l’esito della Ctu. Oppure che sia la compagnia a voler intervenire per prendere parte, coi propri consulenti, all’iter peritale. O, ancora, che la struttura voglia chiamare nel giudizio di merito l’esercente la professione sanitaria perché la pronuncia faccia stato nei suoi confronti[54]. E non dimentichiamo che l’art. 13 prevede l’obbligo delle strutture e delle imprese assicurative di comunicare al sanitario l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti e l’avvio di trattative stragiudiziali, con l’invito a prendervi parte, a pena di inammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa.
Insomma, potrà accadere per più di una ragione che il procedimento dell’art. 696-bis debba arricchirsi, dal punto di vista soggettivo, e divenire un processo multiparti.
L’arricchimento soggettivo (e oggettivo) può sorgere anche come conseguenza dell’attribuzione, alla consulenza tecnica preventiva, della funzione di condizione di procedibilità, perché l’allargamento dell’oggetto del giudizio di merito che le chiamate e gli interventi determinano pone il problema dell’assolvimento dell’onere di espletamento del tentativo di conciliazione rispetto all’ampliamento del thema decidendum realizzato in corso di causa. Come si ricorderà, la questione si era posta con riferimento al tentativo di conciliazione nella materia agraria e del lavoro, sia avuto riguardo al caso della domanda riconvenzionale del convenuto, sia avuto riguardo agli interventi coatti o volontari di natura innovativa, e aveva ricevuto, in dottrina e giurisprudenza, risposte divergenti[55].
Al cumulo nel procedimento ex art. 696-bis cpc osta una disciplina scarna che non prevede esplicitamente né chiamate né interventi.
Chiamate e interventi che tuttavia la giurisprudenza e la dottrina ammettono[56], sul presupposto che le norme del codice che quegli istituti regolano sono contenuti nelle disposizioni generali del codice di rito e possono essere applicate, con gli opportuni adattamenti (uno per tutti, quello conseguente al fatto che si tratta di istituti chiamati a regolare fenomeni di connessione e di conseguente efficacia della pronuncia resa in esito al processo), anche ad un procedimento particolare, quale è quello della consulenza tecnica preventiva in funzione di conciliazione della lite[57].
Nelle controversie che vedono, in potenza, il coinvolgimento dell’assicurazione, la giurisprudenza ne ipotizza anche la chiamata iussu iudicis, per la connessione tra il rapporto risarcitorio e il rapporto assicurativo che comporta una comunanza di cause nel giudizio di risarcimento danni promosso dal danneggiato nei confronti del danneggiante-assicurato. La chiamata per ordine del giudice dell’assicuratore ha l’effetto di consentire un’eventuale estensione nei suoi confronti della domanda attrice, nonché di permettere al convenuto di trasferire a carico di questi le conseguenze della soccombenza verso il danneggiato[58].
L’ammissibilità dell’intervento coatto per ordine del giudice in un caso come questo non è tuttavia pacifica. Se è vero che non si ha propriamente un allargamento dell’oggetto del giudizio, data la stretta connessione per l’oggetto e (talora almeno) per il titolo propria delle obbligazioni solidali, ci si si può chiedere tuttavia per quale motivo, se l’attore cita solo un condebitore mostrando così di voler “selezionare” tra i coobbligati quello contro il quale fare causa, debba essere il giudice ad intervenire onerando le parti del giudizio della chiamata in causa dell’altro condebitore. Se così è, il giudice non dovrebbe cambiare la composizione soggettiva del processo esercitando il potere di cui all’art. 107 cpc.
L’interrogativo relativo alla causa di merito si ripropone anche quanto alla chiamata ex art. 107 cpc nel procedimento ex art. 8 l. 24/2017: il legislatore prevede espressamente la presenza dell’assicuratore per consentire che il procedimento abbia un esito “utile”, sia quanto alla possibilità stessa dell’accordo (visto che l’assicurazione garantisce e rafforza la tutela della vittima dell’evento avverso), sia quanto alla opponibilità delle risultanze peritali, ma rimette al danneggiato la scelta del soggetto da convenire. Se si ritiene che nel giudizio di merito sia possibile la chiamata per ordine del giudice, l’intervento coatto della compagnia potrà essere ordinato anche nel procedimento che precede quel giudizio: anche se a mio avviso – per quanto, guardando al giudizio di merito, la compressione del principio della domanda sia minima dal momento che la chiamata incide solo sulla qualità degli effetti della pronuncia nei confronti del terzo - è preferibile ritenere che non si abbia un allargamento soggettivo del giudizio oltre quanto voluto dall’attore[59].
[1] Sulla natura, finalità e cogenza delle linee guida e sui rapporti tra la legge n. 24/2017 e l’abrogato art. 3 della legge Balduzzi si sono pronunciate le Sezioni unite penali con la sentenza 22 febbraio 2018, n. 8770, in Il Quotidiano Giuridico.
[2] Nel senso che con la legge Balduzzi la responsabilità del medico ospedaliero sarebbe tornata ad essere extracontrattuale, Trib. Milano, sez. I, 17 luglio 2014, in Assicurazioni, 2014, p. 682 e Trib. Milano, sez. I, 2 dicembre 2014, in Resp. civ. e prev., 2015, p. 167 con nota di M. Gorgoni. Analogamente, Trib. Milano, sez. I, 23 agosto 2016, in Ridare.it, 2016, 27 settembre; Trib. Torino, 26 febbraio 2013, in Danno e Resp., 2013, p. 373, con nota di V. Carbone; Trib. Varese, 26 novembre 2012, ivi, 2013, p. 375. Secondo Trib. Brindisi, 18 luglio 2014, in Dir. famiglia, 2015, p. 526, in base al principio della cumulabilità dei rimedi, il danneggiato potrebbe agire nei confronti del medico con l’azione extracontrattuale da sola o, in alternativa, a quella contrattuale da contatto sociale. L’orientamento prevalente, tuttavia, ha continuato a qualificare in termini di responsabilità contrattuale, o da contatto sociale, la responsabilità del medico, ritenendo che la previsione dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi non avesse modificato le regole di quella responsabilità (nella seconda proposizione dell’articolo in questione – si osserva – il richiamo all’art. 2043 cod. civ. è preceduto dall'espressione “in tali casi”, ed è pertanto limitato espressamente ai casi in cui il medico non risponde penalmente di colpa lieve per essersi attenuto a linee guida accreditate, così come si legge nella prima proposizione della norma): così per Trib. Milano, sez. V, 18 novembre 2014, n. 13574, in Riv. it. med. leg., 2015, 2, p. 706 con nota di A. Garibotti; negli stessi termini, anche Trib. Milano, sez. V, 20 febbraio 2015, n. 2336, in Resp. civ. e prev., 2015, p. 163 con nota di M. Gorgoni.
All’indomani dell’introduzione della legge Balduzzi, fin dalle prime pronunce la Cassazione ha affermato, dapprima in un obiter dictum, che «l’articolo 3 comma 1 dl. 158/12, conv. l. 189/12, ha depenalizzato la responsabilità medica in caso di colpa lieve, dove l’esercente l’attività sanitaria si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L’esimente penale non elide, peroÌ€ l’illecito civile e resta fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 cc che eÌ€ clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale eÌ€ la salute. La materia della responsabilità civile segue, tuttavia, le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità aquiliana del medico ma anche per quella contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale» (Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4030, in Guida al diritto, 2013, 17, p. 25); e poi ha ribadito la propria posizione in Cass. civ., sez. VI, 17 aprile 2014, ord. n. 8940, in Resp. civ. e prev., 2014, 3, p. 803.
[3] Cfr. Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, p. 3332, dove, riprendendo la tesi di C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 1997, pp. 177 ss., si affermò il principio per cui «la responsabilità del medico dipendente ospedaliero deve qualificarsi contrattuale, al pari di quella dell’ente gestore del servizio sanitario, non già per l’esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio insorto tra le parti, bensì in virtù di un rapporto contrattuale di fatto originato dal «contatto» sociale».
[4] V., in proposito, C. Consolo, Paolo Bertollini e Alice Buonafede, Il “tentativo obbligatorio di conciliazione” nelle forme di cui all’art. 696-bis cpc e il successivo favor per il rito semplificato, in Corr. Giur. 2017, pp. 762 ss.
[5] Perché non sia imposto un onere eccessivo in capo alla struttura o all’impresa, riteniamo che l’avvio di trattative debba avere una sua formalizzazione e non equivalga all’invio di una richiesta risarcitoria nelle forme della costituzione in mora, ma coincida con il momento in cui perviene la richiesta di mediazione prevista dal d.lgs 28/2010 (il ricorso ex art. 696-bis può essere ricompreso infatti nella previsione dell’obbligo di comunicare la introduzione del giudizio) o si avvia, nelle strutture che lo hanno attivato, il procedimento di gestione diretta del sinistro.
[6] Secondo M. Zumpano, Profili processuali del disegno di legge sulla responsabilità professionale sanitaria, in M. Bove (a cura di), Scritti offerti dagli allievi a Francesco Paolo Luiso per il suo settantesimo compleanno, Torino, 2017, p. 435, che si è espressa a commento del ddl 2224, prima della modifica che ha introdotto l’alternativa con la mediazione, il comma 2 dell’art. 8 dichiarerebbe espressamente inapplicabile l’art. 3 a motivo della “disattivazione” dell’art. 5, comma 1-bis, in mancanza del quale, trattandosi di una richiesta di somme, per le domande entro il limite di valore di 50.000,00 euro, indicato dall’art. 3, sarebbe scattata l’obbligatorietà della procedura negoziale preventiva. Per la verità, visto che l’esclusione della obbligatorietà della negoziazione assistita è stata conservata anche dopo la soppressione della “disattivazione” dell’art. 5, comma 1-bis, sembra più semplice ritenere che quella del legislatore fosse fin dall’inizio, e sia rimasta tale, una previsione superflua.
[7] G. Greco, Contratti e accordi della pubblica amministrazione con funzione transattiva (appunti per un nuovo studio), in Dir. amm., 2005, pp. 223 ss., rileva come la Pa nutra da sempre, nei confronti dello strumento della transazione, «preoccupazioni e sospetti, che hanno persino portato talvolta a dissimulare l’esistenza di vere e proprie transazioni, attraverso l’architettura di una serie di atti, più o meno spontaneamente coordinati», quando invece – osservava E. Guicciardi, Le transazioni degli enti pubblici, in Arch. dir. pubbl., 1936, pp. 64 ss. e pp. 205 ss. – la transazione costituisce «strumento efficacissimo della pace sociale» anche per la Pubblica amministrazione.
[8] V., da ultimo, C. Conti, sez. III app., 2 febbraio 2017, n. 53 in Leggiditalia; C. Conti, sez. Sicilia, 23 luglio 2013, n. 2719, ivi.
[9] Rimane infatti ampio il margine di valutazione da parte del giudice, il quale, del resto, non può trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico (Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619, in Corr. giur., 2008, p. 35, con nota di M. Bona, Causalità civile: il decalogo della Cassazione a due dimensioni di analisi).
[10] C. Conti Liguria sez. giurisd., 18 febbraio 2016, n. 12, in Leggiditalia.
[11] Trib. Roma ord. 22 giugno 2015 inedita; Trib. Roma 17 dicembre 2015, inedita.
[12] Il coinvolgimento potrà essere frutto, oltre che dell’azione diretta, anche di clausole contrattuali che conferiscono all’assicurazione il compito di gestire direttamente la lite, in luogo dell’assicurato, oppure del fatto che sia quest’ultimo, citato in giudizio dal danneggiato, a chiamare in causa, in manleva, la propria impresa di assicurazione, per essere tenuto indenne dalle conseguenze pregiudizievoli della soccombenza.
Sulla responsabilità dell’assicurazione verso il danneggiato quando la condotta nella gestione della lite sia «dilatoria o indolente o, comunque, non caratterizzata dalla cura diligente dei comuni interessi», v. Cass., sez. III, 25 maggio 2004, n. 10036, in Foro it., Rep. 2004, voce Assicurazione (contratto), n. 139; Cass. civ., sez. III, 04 febbraio 2005, n. 2276, Foro it., Rep. 2005, voce Assicurazione (contratto), n. 217.
[13] Previsione che echeggia, fatte le debite differenze, il meccanismo grazie al quale, nei settori delle operazioni e servizi bancari e finanziari da un lato e, dall’altro, dei servizi e attività di investimento e delle altre fattispecie non assoggettate al titolo VI del Tub ai sensi dell’art. 23, comma quarto, d.lgs 24 febbraio 1998, n. 58, la presenza delle autorità di vigilanza, rispettivamente Banca d’Italia e Consob, ha consentito il successo degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie.
[14] Su questo tema, che richiede una messa a fuoco del ruolo della mediazione nella composizione delle controversie e del modo in cui il mediatore opera, si v., amplius, I. Pagni, Dal tentativo obbligatorio di conciliazione al ricorso ex art. 702-bis cpc, in F. Gelli, M. Hazan, D. Zorzit (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 445 ss.
[15] Sulla ammissibilità della produzione in giudizio dell’elaborato del Ctu, nonostante le regole di riservatezza e inutilizzabilità poste dagli artt. 9 e 10, v. Trib. Roma, 17 marzo 2014, in www.iusexplorer.it.
[16] Sul fatto che, comunque, la perizia espletata in mediazione potrà avere, tutt’al più, il valore di una prova atipica, e servire come fondamento conoscitivo e supporto motivazionale alla proposta eventualmente formulata ex art. 185-bis cpc, v. ancora Trib. Roma, 17 marzo 2014, cit. Nello stesso senso, Trib. Roma, 9 aprile 2015, in http://osservatoriomediazionecivile.blogspot.it; Trib. Parma, 13 marzo 2015, in www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com.
[17] Peraltro, nell’art. 8 non è prevista la disapplicazione del secondo comma dell’art. 5 d.lgs n. 28/2010, che contempla la mediazione su ordine del giudice, sicché niente impedisce che una volta introdotto il giudizio il giudice ritenga di mandare nuovamente le parti in mediazione.
[18] Secondo un’ampia parte della giurisprudenza, ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, vorrebbe dire «in realtà ridurre ad un'inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d'essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere». In questo senso, «la dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata data un'effettiva chance di raggiungimento dell'accordo alle parti» (ex multis, Trib. Firenze, 19 marzo 2014, in Guida al diritto 2014, p. 17, ins. 5, con nota di Marinaro). Nel senso che se «la procedura di mediazione, prevista quale condizione di procedibilità della domanda, è stata esperita dagli attori e dagli interventori ma non si è conclusa non essendo iniziata dopo il primo incontro» dev’essere disposta la prosecuzione del procedimento di mediazione con il suo inizio ovvero la rinnovazione del procedimento entro il termine di 15 giorni, Trib. Civitavecchia, ord. 15 gennaio 2016, inedita, resa in una causa di risarcimento danni da responsabilità medica. Sulla stessa linea del Tribunale di Firenze, Trib. Bologna, 5 giugno 2014, in http://osservatoriomediazionecivile.blogspot.it; Trib. Rimini, 16 luglio 2014, in www.diritto24.ilsole24ore.com.
[19] Così Trib. Firenze, 19 marzo 2014, www.ilcaso.it; Trib. Firenze, 26 novembre 2014, Riv. dir. proc., 2015, pp. 558 ss., con nota di G. Raiti; Trib. Vasto, 9 marzo 2015, Corriere giur., 2016, p. 1083, con nota di M. Ruvolo; Trib. Vasto 23 giugno 2015, www.ilcaso.it.
[20] Per l’impossibilità di imporre la presenza personale, visto che le parti hanno comunque il diritto di conferire una procura, Trib. Palermo, 16 luglio 2014, in Giustiziacivile.com, 2015, 12 febbraio, con nota di N. Meluccio.
[21] A termini di legge «l’istanza deve indicare l’organismo, le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa» (art. 4, 2° co. d.lgs n. 28/2010), ma, poiché la mediazione non è un processo, non è necessario che lo sviluppo, nella domanda di mediazione, del petitum e della causa petendi sia così ampio come quello di una domanda giudiziale.
Nel senso che il tasso di tecnicismo dell’istanza debba essere tanto più elevato quanto più la parte intenda conseguire effetti in caso di insuccesso e di ulteriore proposizione della domanda giudiziale, senza che, in proposito, sussista niente più che un onere per la parte (e non già un obbligo), qualora invece la parte che attiva il procedimento di mediazione ritenga di non scoprire tutte le carte del successivo processo, nella consapevolezza che se poi il giudizio sarà avviato «non è detto che il procedimento di mediazione possa restituirgli tutte le potenzialità di cui è dotato», v. M. Fabiani, Profili critici del rapporto tra mediazione e processo, Società, 2010, p. 1146.
Sul fatto che vi sia un obbligo di individuazione della domanda v. invece E. Zucconi Galli Fonseca, La nuova mediazione nella prospettiva europea: note a prima lettura, Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, p. 664.
[22] Com’è noto, l’acronimo Maan o Paan esprime, nel linguaggio della mediazione, la “migliore” o “peggiore alternativa all’accordo negoziato”, da sottoporre alle parti affinché possano valutare l’opportunità della composizione negoziale della lite, in luogo della decisione giudiziale.
[23] Audit che ha, in realtà, una funzione preventiva rispetto agli eventi indesiderati, ma poiché mira a trarre insegnamento dagli errori e ad individuare, in base ad essi, sistemi adeguati per il miglioramento della qualità delle prestazioni sanitarie, e per la garanzia della sicurezza del paziente, influisce necessariamente anche nella gestione del contenzioso.
[24] Alcuni numeri: nell’esperienza dell’organismo di conciliazione presso il Tribunale di Firenze, uno dei migliori sul territorio, nell’anno 2016 si è registrato un 43% di mancate partecipazioni al primo incontro e un 57% di primi incontri, dei quali solo 24 con prosecuzione (e successivi 7 abbandoni per vari motivi): delle mediazioni effettivamente svolte, ne sono state chiuse con accordo un po' meno del 10% sul numero iniziale.
[25] Sulla competenza del giudice di pace per le controversie risarcitorie in tema di danno alla persona, v. Cass. civ., sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 23430, Foro it., Rep. 2013, Competenza civile, n. 35, che precisa come la competenza del giudice di pace per le cause «relative a beni mobili» di valore non superiore a cinquemila euro sia comprensiva delle domande di risarcimento del danno ricomprese in tale valore, a nulla rilevando che il credito risarcitorio scaturisca dalla violazione di un diritto fondamentale della persona (in applicazione di questo principio, la Corte suprema ha ritenuto erronea la sentenza con la quale il giudice di pace, sul presupposto che la salute non fosse un «bene mobile», aveva declinato la propria competenza a conoscere di una domanda di risarcimento del danno biologico compresa nella sua competenza per valore).
[26] Sulla non perentorietà del termine nell’art. 445-bis cpc, v. E. Vullo, sub art. 445-bis, in Codice di procedura civile commentato, a cura di C. Consolo, Milano, 2013, p. 1679.
Una ricognizione della giurisprudenza sulla natura del termine di quindici giorni previsto dall’art. 5, comma 1-bis e 2, del d.lgs n. 28/2010, è contenuta in Trib. Vasto, 27 settembre 2017 e 15 maggio 2017 (in Corr. giur., 2018, pp. 92 ss., con nota di M., La natura del termine per dare inizio alla mediazione e le conseguenze del suo mancato rispetto), che opta per la tesi della non perentorietà del termine sia per la mancanza di una espressa previsione legale di perentorietà sia per lo scopo che il termine persegue (quello cioè di garantire certezza dei tempi di definizione della procedura di mediazione).
Nel senso della perentorietà del termine previsto dal comma 2 dell’art. 5 per l’attivazione della mediazione su ordine del giudice e della impossibilità di sanatoria (stante l’inapplicabilità, in via analogica, della sanatoria prevista per il medesimo termine di quindici giorni dal comma 1-bis), v. Trib. Firenze, 9 giugno 2015, in Giur. it., 2015, p. 2374, con nota di E. Benigni, L’avvio «tardivo» della mediazione determina l’improcedibilità della domanda? In senso opposto, Trib. Milano, ord. 27 settembre 2016, in www.ilcaso.it.
Sul termine previsto nella l. 24/2017, v. R. Donzelli, Profili processuali della nuova responsabilità sanitaria, in Riv. dir. proc., 2017, p. 1202.
[27] Corte cost., 28 ottobre 2014, n. 243, Foro it., 2015, I, p. 358.
Ad avviso della Corte, la normativa in questione non può affatto ritenersi irragionevole: ciò perché i) l’espletamento del previo accertamento tecnico preventivo è previsto come condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda di merito volta al riconoscimento del diritto alla prestazione assistenziale o previdenziale; ii) la tutela garantita dall’art. 24 Cost. non comporta l’assoluta immediatezza dell’esperibilità del diritto di azione; iii) la tutela giurisdizionale non deve necessariamente porsi in relazione di immediatezza con il sorgere del diritto, ma la determinazione concreta di modalità e di oneri non deve rendere difficile o impossibile l’esercizio di esso. Il che, nella specie – prosegue la Corte - certamente non si verifica proprio per il tipo di adempimento imposto alle parti («Il giudice, ove rilevi che l’accertamento tecnico preventivo non è stato espletato ovvero che si è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dell’istanza di accertamento tecnico ovvero di completamento dello stesso»)
[28] Com’è noto, la giurisdizione condizionata è considerata tradizionalmente legittima quando gli oneri e le modalità che condizionano l’esercizio dell’azione non compromettano l'esperimento dell'azione giudiziaria imponendo oneri troppo gravosi alle parti. In questo senso, si considera ragionevole la mera improcedibilità per un tempo limitato, che possa risultare utile alla stessa soddisfazione della situazione sostanziale che si assume violata (oltre che alla deflazione del carico giudiziario). Per una ricognizione delle diverse ipotesi in cui, nel tempo, la Corte costituzionale si è pronunciata sul tema, v. G. Costantino, in nota a Corte cost., 4 marzo 1992, n. 82, Foro it., 1992, I, p. 1023; nel senso dell’infondatezza, o dell’inammissibilità, della questione di legittimità costituzionale delle previsioni che contemplano tentativi obbligatori di conciliazione, cfr., in particolare, Corte cost., 13 luglio 2000, n. 276, ivi, 2000, I, p. 2752; Corte cost., 18 febbraio 2009, n. 51, Giur. cost., 2009, p. 273; Corte cost., 24 marzo 2006, n. 125, ivi, 2006, p. 1186; v. inoltre, con riferimento specifico alla mediazione contemplata dal d.lgs n. 28/2010, Corte Cost., 6 dicembre 2012, n. 272, Corr. giur., 2013, p. 257 ss., con commento di chi scrive, Gli spazi e il ruolo della mediazione dopo la sentenza della Corte costituzionale 6 dicembre 2012, n. 272.
Le previsioni in punto di giurisdizione condizionata sono ritenute compatibili anche col diritto dell’Unione europea, quale si ricava dalla sentenza del 18 marzo 2010 della Corte di giustizia a proposito del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di telecomunicazioni (Corte di giustizia 18 marzo 2010, procedimenti riuniti C317/08, C-318/08, C 319/08 e C-320/08, Alassini , in Foro it., 2010, IV, p. 361). La Corte ha affermato, in proposito, che «i diritti fondamentali non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti».
[29] Da più parti si sta ipotizzando invece una illegittimità costituzionale della previsione che impone l’obbligatorietà della partecipazione al tentativo: cfr. R. Donzelli, Profili processuali della nuova responsabilità sanitaria, cit., pp. 1215-1216. Sul punto v. infra, nel testo.
[30] Anche se si osserva che il ricorso ex art. 696-bis non conterrebbe una vera e propria domanda giudiziale: sul punto, v. U. Corea, I profili processuali della nuova legge sulla responsabilità medica: note a prima lettura, in www.judicium.it, 6.
[31] La previsione ricalca il modello francese nel quale al référé probatorie mediante expertise préventif segue di norma il référé provision, sia pure senza efficacia di giudicato.
[32] Nell’art. 3 d.lgs 1° settembre 2011 n. 150, “cd. decreto semplificazione riti”, per esempio, si esclude esplicitamente che, nelle controversie disciplinate dal capo III del decreto, si applichino il 2° e 3° comma dell’art. 702-ter cpc, e perciò anche che sia possibile la conversione del rito ad opera del giudice.
[33] Sulla questione degli effetti della domanda avanzata ex art. 696-bis v. ampiamente T.M. Pezzani, Gli effetti processuali e sostanziali della domanda di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, Riv. dir. proc., 2013, pp. 44 ss. Nel senso che al deposito del ricorso potrà ricondursi non solo l’effetto interruttivo della prescrizione, ma anche l’effetto sospensivo, A. Tedoldi, La consulenza tecnica preventiva, cit., p. 811.
[34] Che è attribuito invece al ricorso per accertamento tecnico preventivo: nel senso che, rientrando tale procedimento nella categoria dei giudizi conservativi, «la notificazione del relativo ricorso con il pedissequo decreto giudiziale determina, ai sensi dell’art. 2943 cc, l’interruzione della prescrizione che si protrae fino alla conclusione del procedimento, che coincide ritualmente con il deposito della relazione del consulente nominato», Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2007, n. 17385, Foro it., Rep. 2007, voce Prescrizione e decadenza, n. 68. La Corte aggiunge, poco comprensibilmente, che «qualora tale procedimento si prolunghi oltre tale termine con l’autorizzazione al successivo deposito di una relazione integrativa, esso si trasforma in un procedimento atipico, con la conseguenza che, in tal caso, la permanenza dell’effetto interruttivo della prescrizione non è più applicabile».
[35] Come si è visto alla nota precedente, è per effetto della natura cautelare che la Cassazione riconosce al ricorso per accertamento tecnico preventivo l’effetto sospensivo, oltre a quello interruttivo, mentre il procedimento ex art. 696-bis non ha natura cautelare, come si ricava dal fatto che si prescinde dalle ragioni d’urgenza.
Sulla natura cautelare della consulenza tecnica preventiva v. però Cass. 20 giugno 2007 n. 14301, Giur. it., 2007, p. 2525, con nota di R. Masoni, nella quale si legge che, dal momento che la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite è stata aggiunta tra i procedimenti di istruzione preventiva già previsti dal codice di rito, «non vi è ragione per non ritenere che ne condivida la natura». La Cassazione, nell’escludere la natura decisoria e definitiva del provvedimento di ammissione della consulenza tecnica preventiva, ha affermato che «anche esso, come tutti gli altri relativi ad atti di istruzione preventiva, ha carattere provvisorio e strumentale».
Per la natura cautelare del procedimento di consulenza tecnica preventiva, giustificata appunto alla luce della provvisorietà e strumentalità del provvedimento, v. C. Besso, in Le recenti riforme del processo civile, a cura di S. Chiarloni, II, Bologna, 2007, pp. 1328 e ss. Nel senso della prevalente natura non cautelare dell’istituto v. invece G. Balena, in G. Balena-M. Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Cacucci, Bari, 2006, p. 370; G.N. Nardo, La consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis cpc tra conciliazione della lite ed anticipazione della prova, Studi in onore di C. Punzi, III, Torino, 2008, 339; A. Panzarola, L’istruzione preventiva riformata, Giusto proc. civ., 2006, p. 112; M. Montanari, Brevi note sulla natura giuridica dellaconsulenza tecnica preventiva in funzione di composizione della lite (art. 696 bis cpc) e sulle relative conseguenze d’ordine applicativo, ivi, 2012, p. 701.
[36] Nel senso che il mancato rispetto del termine di novanta giorni non produca se non la perdita della possibilità di ancorare la salvezza degli effetti al ricorso ex art. 696-bis, non essendovi ragione di immaginare una estinzione del processo (a meno di non voler sanzionare l’interessato al punto da ritenere che una simile estinzione si abbia al fine di imporre per la stessa causa un nuovo tentativo di accordo come condizione di procedibilità), M. Bove, Le condizioni di procedibilità come funzione di prevenzione: problematiche processuali ed opportunità per la giustizia civile, p. 20 del dattiloscritto consultato grazie alla cortesia dell’A.
[37] La conciliazione raggiunta in seno al tentativo stragiudiziale o in seno al processo ha la medesima utilità, dato che tanto l’art. 12 d.lgs n. 28/2010, quanto l’art. 696-bis cpc, riconoscono espressamente che il verbale in parola sia titolo esecutivo ai fini dell'espropriazione forzata e dell'esecuzione in forma specifica (che servirebbe, nella materia che ci occupa, ad assicurare l’adempimento di eventuali obblighi di fare assunti dal medico, o dalla struttura: si pensi all’obbligo di eseguire nuovamente, senza costi aggiuntivi, l’intervento di chirurgia estetica che non abbia dato i risultati sperati), nonché titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale, superando perciò il tenore letterale dell’art. 612 cpc, che ricollega l’esecuzione forzata in forma specifica soltanto al titolo esecutivo rappresentato dalla sentenza di condanna (sul punto, la Corte costituzionale ha chiarito, sia pure con una sentenza interpretativa di rigetto, che l’esecuzione per obblighi di fare e non fare può seguire anche ad un titolo esecutivo costituito dal verbale di conciliazione giudiziale, «in quanto le eventuali ragioni ostative - di ineseguibilità in forma specifica dell’obbligo - devono essere valutate non ex post, e cioè nel procedimento di esecuzione, bensì, se esse preesistono, in sede di formazione dell’accordo conciliativo da parte del giudice che lo promuove e sotto la cui vigilanza può concludersi soltanto se la natura della causa lo consente»: Corte cost., 12 luglio 2002, n. 336, Foro it., 2004, I, pp. 41 ss.).
[38] Anche se nel caso in cui i procedimenti degli artt. 696 e 696-bis cpc vengano svolti ante causam, come normalmente avviene (sebbene l’applicabilità dell’art. 699 cpc consentirebbe anche una richiesta in corso di causa), non vi sono i limiti alla produzione documentale che invece operano quando la consulenza sia disposta durante il giudizio, e sui quali si discute da sempre, anche nell’ipotesi della consulenza contabile, dove pure l’art. 198 cpc apre almeno alla produzione tardiva di documenti accessori, cioè utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice, escludendo invece, anche col consenso della parte, le prove documentali concernenti fatti e situazioni poste direttamente a fondamento della domanda e delle eccezioni di merito (in argomento v., da ultimo, Cass. civ., sez. I, 27 aprile 2016, n. 8403, Foro it., Rep. 2016, voce Consulente tecnico, n. 7).
[39] In questo caso, e diversamente da quanto avviene per la consulenza tecnica preventiva per così dire “normale”, il procedimento si deve concludere entro un termine che ha natura perentoria e disciplina mutuata dall’art. 153 cpc, cosicché non è prorogabile se non in presenza di giustificati motivi, che devono essere allegati dal richiedente e verificati dal giudice.
[40] Sul punto v. A. Tedoldi, La consulenza tecnica preventiva, cit., p. 814.
[41] Sulla razionalità della scelta v. anche G. Olivieri, Prime impressioni sui profili processuali della responsabilità sanitaria, in www.judicium.it.
[42] Nell’inserire nel titolo I del libro IV del codice di rito civile il capo III-bis, contenente la disciplina del procedimento sommario di cognizione, l’art. 51 l. 18 giugno 2009 n. 69 ne ha configurato l’instaurazione come rimessa a una scelta discrezionale dell’attore (art. 702-bis, primo comma, cpc), sindacabile tuttavia dal giudice, il quale dispone che si proceda nelle forme ordinarie, se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria (art. 702-ter, terzo comma, cpc). La possibilità di conversione qui non è stata espressamente esclusa com’è avvenuto, invece, come ricordato in precedenza (supra, nota 32), in virtù dell’art. 3 d.lgs 1° settembre 2011 n. 150 per una serie di controversie che quel decreto ha assoggettato al procedimento sommario di cognizione.
[43] Cass. civ., sez. VI, 20 novembre 2014, n. 24689, Riv. neldiritto, 2015, p. 46.
[44] In questo senso, ritenendo che il richiamo dell’art. 702-quater al sesto comma dell’art. 702-ter vada letto in continuità col quinto comma, quest’ultimo riferito sia all’accoglimento che al rigetto (nonché sul rilievo che sarebbe contraria ai principi di eguaglianza, ragionevolezza e difesa un’appellabilità secundum eventum litis), Cass. civ., sez. VI, 2 novembre 2015, n. 22387, Foro it., 2015, voce Procedimento civile, n. 309.
[45] Nel senso che, in forza del principio di ragionevolezza, la limitazione possa ritenersi superabile, F.P. Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, Giur. it., 2009, p. 1568; A. Carratta, in C. Mandrioli-A. Carratta, Come cambia il processo civile, Giappichelli, Torino, 2009, p. 146; M. Bove, Il procedimento sommario di cognizione, Giusto proc. civ., 2010, p. 432; G. Basilico, Il procedimento sommario di cognizione, ibidem, 2010, pp. 739 ss.
Secondo C. Consolo, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze. Dopo la l. n. 69 del 2009, Padova, 2009, 118, il silenzio dell’art. 702-bis cpc «sulla chiamata in causa ex art. 106 cpc parte prima […] non implica esclusione ma certo un tendenziale sfavore» verso l’istituto. Nel senso che la soluzione legislativa sarebbe conforme alla scelta di un procedimento di rapida definizione, Trib. Genova 16 gennaio 2010, Foro it., 2010, I, p. 1648.
Per l’applicazione al procedimento sommario ex art. 702 bis ss. cpc dell’art. 107, trattandosi di un processo speciale a cognizione tendenzialmente piena rispondente ad un modello di trattazione semplificato, al quale sono applicabili tutte le disposizioni dettate per il processo ordinario a cognizione piena compatibili con le disposizioni contenute negli articoli citati, Trib. Verona, 5 febbraio 2010, Giur. merito, 2010, p. 2166, con nota di P. Biavati.
[46] Nella previsione dell’art. 696-bis si reputa che la valutazione giudiziale del fumus boni iuris debba riguardare anche la fondatezza in iure della futura domanda di merito proposta dal ricorrente: così G. Balena, L’istruzione preventiva, in G. Balena-M. Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Cacucci, Bari, 2006, p. 374; per una valutazione del fumus boni iuris quantomeno in termini di «non manifesta infondatezza» della domanda di merito, A. Panzarola, in Commentario alle riforme del processo civile a cura di A. Briguglio e B. Capponi, Padova, 2007, I, sub art. 696 bis, pp. 294 ss. Nel senso della necessaria considerazione della non manifesta infondatezza della domanda, più di recente, v. C. Costabile, L’irreclamabilità dei provvedimenti in tema di consulenza tecnica preventiva ex art. 696-bis cpc, in Giur. merito, 2013, p. 1011. Si v. anche A. Mastantuono, L’ambito di applicazione della consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi, in Corr. giur., 2018, p. 105, ove si rileva che il fumus boni iuris è «inteso come delibazione circa la futura utilità della prova assunta». In giurisprudenza, per la necessità di un preliminare «vaglio di fondatezza», v. Trib. Milano, 6 aprile 2017, in Dejure. Nel senso che il giudice non può disporre la consulenza ove appaia «verosimile che, in sede di merito, l’accertamento si rivelerà inutile, in quanto funzionale ad una domanda probabilmente infondata» v. Trib. Macerata, sez. lavoro, 12 novembre 2015, in www.ilcaso.it.
[47] Secondo Trib. Varese, 14 maggio 2010, Foro it., 2010, voce Merito extra, n. 2010.373.3, la Ctu preventiva non presuppone una "probabilità di conciliazione" atteso che l’elemento probabilistico è estraneo all’istituto. Nel senso che «mortificherebbe la ratio dell’istituto un’interpretazione […] che ne limitasse l’ammissibilità ai soli casi in cui la volontà conciliativa delle parti emerga dalle, preventivamente, dichiarate intenzioni delle stesse», v. Trib. Foggia, 9 maggio 2016, in www.ilcaso.it. Allo stesso modo, si è escluso che possa rilevare ai fini dell’ammissibilità del procedimento ex art. 696-bis cpc «il fatto che il convenuto […] dichiari espressamente che non intende addivenire ad una conciliazione della controversia»: v. Trib. Milano, 17 febbraio 2015, ivi. Nel senso che nell’art. 696-bis sia demandato al giudice il controllo dell’ammissibilità, rilevanza ed utilità della consulenza in relazione alla materia del contendere, per evitare di dare corso all’assunzione di prove che nel giudizio ordinario non vi sarebbe motivo di disporre ovvero che potrebbero essere disposte solo all’esito di un più completo e chiaro quadro istruttorio (mentre si esclude quello dell’utilità dell’anticipazione della consulenza agli esclusivi fini della conciliazione), Trib. Milano, 27 aprile 2009, Giur. it., 2010, pp. 159 ss. È inoltre stato ritenuto inammissibile il ricorso ex art. 696-bis in presenza di questioni «non suscettibili di conciliazione» in ragione della loro complessità da Trib. Spoleto, 27 aprile 2015, in www.ilcaso.it.
[48] Il che non impedisce l’eventualità di una integrazione della consulenza, quando ciò sia determinato dagli eventuali aggiustamenti (che non dovranno essere tali da svuotare di contenuto la condizione di procedibilità) apportati nel giudizio di merito alle domande e alle eccezioni.
[49] Nella determinazione della pena pecuniaria a favore della parte che è comparsa, se è vero che l’uso dell’indicativo (“il giudice condanna”) è di solito inteso come sinonimo di “deve”, è anche vero però che nella stessa previsione di una determinazione equitativa si può recuperare la discrezionalità del giudice. La formulazione della norma, del resto, è diversa da quella che ha indotto la giurisprudenza a parlare di “atto dovuto” a proposito dell’art. 1 comma XVII l. 24 dicembre 2012 n. 228 (cd. legge di stabilità), il quale, come noto, ha introdotto, all’interno dell’art. 13 del dPR 30 maggio 2002 n. 115, il comma I-quater, stabilendo che «quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis». Atto dovuto perché «l'obbligo del pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione» (Cass., 9 giugno 2014, n. 12936).
[50] Si ha, tra struttura e sanitario, un litisconsorzio unitario, facoltativo quanto all’instaurazione, ma necessario quanto alla trattazione e alla decisione se le cause vengono proposte cumulativamente.
Nei processi litisconsortili aventi ad oggetto obbligazioni solidali, quale è quella in esame, opera, com’è noto, la regola dell’art. 1306 cod. civ.: si possono avere, al tempo stesso, accertamenti divergenti, rispetto ai vari contitolari del rapporto, in esito a processi separatamente proposti, oppure l’eventualità del processo simultaneo, con l’unione delle cause in un unico procedimento, che allora ha trattazione e istruttoria comuni, allo scopo di mettere capo a sentenze omogenee. In questa seconda ipotesi può aversi, a certe condizioni e con riferimento ai fatti comuni, la comunicazione delle allegazioni e delle prove, con effetti sull’intero processo cumulativo (sul tema è d’obbligo il riferimento a S. Menchini, Il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle parti, Giuffrè, Milano, 1993, spec. pp. 286 ss., pp. 587 ss.).
Nel rapporto tra struttura e sanitario, però, la comunicazione delle prove deve in ogni caso fare i conti con la diversa ripartizione dell’onere probatorio, che opera in un caso secondo la regola dell’art. 1218 e, nell’altro, dell’art. 2043 cod. civ. Ed occorre anche tener conto del fatto che non sempre l’accertamento della responsabilità della struttura presuppone quello della responsabilità del sanitario, dato che il fascio di obblighi nascenti dal contratto di spedalità è più ampio rispetto all’obbligo di cura (si ha perciò una responsabilità diretta contrattuale della struttura per fatto proprio), sicché solo in certi casi si può parlare di un responsabile «di riflesso» e di un responsabile principale (nel qual caso alla connessione per solidarietà si accompagna un rapporto di subordinazione logica o di pregiudizialità tra cause).
In ogni caso la differenza di posizioni non influenzerà la consulenza tecnica, i cui quesiti saranno formulati sempre nello stesso modo, non incidendo sulle indagini del consulente la circostanza che la responsabilità abbia natura contrattuale o extracontrattuale. Spetterà infatti al giudice ricavare dagli esiti peritali la conclusione della sussistenza o meno dell’obbligo risarcitorio in base alle regole di ripartizione dell’onere della prova (peraltro la prova del nesso di causa grava sempre sul danneggiato).
[51] Nella giurisprudenza di legittimità, sin dagli anni ottanta (Cass. sez. un. nn. 5218 e 5219 del 1983), è infatti costante l'affermazione che la l. n. 990 del 1969, prevedendo l'azione diretta del danneggiato contro l'assicuratore, e limitando, all’art. 18, le eccezioni che questi gli può opporre, ha creato, accanto al rapporto col danneggiato, sorto dal fatto illecito, e quello, di origine contrattuale, con l'assicuratore, un terzo rapporto che, «sul presupposto del primo e in attuazione del secondo», obbliga ex lege l'assicuratore verso il soggetto leso: sicché questi, quando agisce in giudizio, non chiede che l'assicuratore sia condannato ad adempiere in suo favore l'obbligo contrattualmente assunto nei confronti dell'assicurato, ma fa valere un diritto suo proprio. In argomento v., amplius, M. Rossetti , L’assicurazione obbligatoria della Rca, Uteth. Torino, 2010, pp. 182 ss.
[52] Diverse da quelle stabilite dal decreto di cui all’art. 10, commi 2 e 6.
[53] E più precisamente dall’opportunità, valutata dal legislatore, che parte necessaria del giudizio avente ad oggetto il rapporto tra i due soggetti, danneggiato e assicuratore, sia anche il responsabile del danno, in quanto titolare di un rapporto giuridico diverso da quello dedotto, ma ad esso strettamente connesso. Come afferma la giurisprudenza, la ratio del litisconsorzio necessario tra il danneggiato, l’assicuratore e il responsabile del danno è quella di assicurare che sulla responsabilità del danneggiante si statuisca in un unico contesto e in modo uniforme. Sulle conseguenze di questo principio, v. Cass. civ., sez. un., 5 maggio 2006, n. 10311, in Foro it., 2007, I, 1259, con nota di A. Reali e F. Cipriani.
[54] Ai sensi dell’art. 9, comma 3 e 4, la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l'impresa di assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio. In nessun caso la transazione è opponibile all'esercente la professione sanitaria nel giudizio di rivalsa.
[55] In argomento v. F. P. Luiso, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, Riv. dir. lav., 1999, p. 387; G. Trisorio Liuzzi, La conciliazione obbligatoria e l’arbitrato nelle controversie di lavoro privato, Riv. dir. proc., 2001, p. 991. Nel senso che «l’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione prescritto dall’art. 410 cpc non deve precedere la domanda che, pur inerente a uno dei rapporti indicati nell’art. 409 cpc, sia proposta non in via principale bensì come riconvenzionale o mediante chiamata di terzo in causa», Trib. Taranto, 18 aprile 2002, Giur. it., 2003, p. 78, con nota di N. Rascio; per la tesi opposta, secondo cui il tentativo obbligatorio di conciliazione deve essere esperito anche nei confronti del terzo chiamato in causa ai sensi dell’art. 410 seg. cpc, Trib. Velletri, 7 marzo 2000, Mass. giur. lav., 2000, p. 785.
[56] C. Besso, Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, in AA.VV., Le recenti riforme del processo civile, Bologna, 2007, p. 1331. In giurisprudenza, Trib. Busto Arsizio, 25 maggio 2010, Resp. civ. e prev., 2010, p. 2322.
[57] Trib. Marsala, ord. 7 dicembre 2017, est. Ruvolo, in www.ilcaso.it.
[58] Così Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2008, n. 4593, in Foro it., Rep. 2008, voce Assicurazione (contratto), n. 170.
[59] Diversamente, per esigenze di economia processuale, ma sul presupposto che, non essendo ancora consentita l’azione diretta fino all’emanazione del decreto ministeriale, l’attore non abbia questa facoltà di scelta e per permettere «la presenza della tasca solvibile della Compagnia», Trib. Marsala, ord. 7 dicembre 2017, cit.