Appunti sul “danno ingiusto” fra il giudice e la legge nell’esperienza post-moderna
Il saggio ripercorre l’evoluzione intervenuta negli ultimi decenni a proposito della lettura della “ingiustizia” del danno, nella dialettica tra giurisprudenza e dottrina, e segnala i riflessi che ciò ha determinato nella revisione non solo degli elementi della fattispecie, per via del passaggio dalla centralità assegnata tradizionalmente all’antigiuridicità della condotta alla ingiustizia del danno, ma anche della funzione della responsabilità dal modello monofunzionale a quello plurifunzionale in cui si inscrive il recente recupero anche della funzione sanzionatoria.
1. Una riflessione sul tema proposto assume un significato operativo solo se viene calato in un concreto contesto storico, a fine di cogliere la linea evolutiva emersa nel corso degli ultimi decenni ed evidenziare i possibili nuovi scenari dell’esperienza giuridica.
Sul piano squisitamente teorico, la problematica relativa alla responsabilità civile, istituto cardine del diritto moderno, è tutta interna, per una necessità strutturale del mondo giuridico, alla dialettica che vede come protagonisti il giudice e la legge. In realtà, questa dialettica è consustanziale all’intera esperienza giuridica ma, al tempo stesso, rinviene una sua particolare e qualificante manifestazione nell’area appunto della responsabilità civile. Infatti, l’indiscutibile ampiezza operativa che nel moderno diritto privato si assegna al rimedio risarcitorio crea un’obiettiva tensione tra l’inarrestabile spinta emergente nella realtà, a fronte delle crescenti frizioni che intervengono nella sfera relazionale dei soggetti, ad avvalersi dei meccanismi risarcitori per il tramite della responsabilità civile e la relativa lentezza con cui il diritto scritto risponde a siffatta sollecitazione. Sicché è difficile non convenire con il rilievo secondo il quale la responsabilità civile resta pur sempre un laboratorio privilegiato di creazione giurisprudenziale.
Nel suo contesto, invero, spetta pur sempre all’interpretazione del diritto affidata ai giudici utilizzare il diritto scritto non certo come un orto chiuso entro cui aggirarsi, bensì come un semplice orizzonte entro cui collocare, sulla base delle sollecitazioni provenienti dalla prassi, soluzioni innovative. Non può né deve, allora, sorprendere che, a dispetto della sostanziale cristallizzazione degli enunciati normativi presenti nella nostra codificazione civile a proposito dei “fatti illeciti”, l’effettiva portata operativa della tutela risarcitoria si sia andata progressivamente dilatando nei trascorsi decenni. E ciò è avvenuto in esito tanto alla costante rivisitazione del complessivo sistema privatistico da parte della letteratura giuridica, quanto all’articolata apertura manifestata proprio dalla giurisprudenza cui si deve, in definitiva, la consacrazione nel diritto vivente di mutamenti del tutto inattesi all’indomani della codificazione del 1942.
I registri tematici cui legare i mutamenti sin qui intervenuti nonché quelli che timidamente si preannunciano sono molteplici, collocandosi alcuni all’interno stesso dell’area della responsabilità civile, altri ai suoi confini, in quanto destinati a segnalare anche, ma non solo, la rivisitazione del rapporto tra rimedi risarcitori e rimedi restitutori in relazione, del resto, al pluralismo funzionale che la responsabilità civile ha visto riconoscersi nel progressivo passaggio dalla società industriale a quella post-industriale, dal primato dei processi materiali a quello dell’immateriale nelle diverse forme in cui questo si esprime[1].
La considerazione unitaria dei mutamenti di lettura e di applicazione intervenuti a proposito della disciplina relativa alla responsabilità civile, a partire da quella extracontrattuale, permette altresì di chiarire, in premessa, che una riflessione circa la declinazione che nel corso del tempo si è registrata a proposito della cd. “ingiustizia “ del danno non può essere certo disgiunta da quella che investe l’intero istituto della responsabilità civile: e ciò, a partire dal tema, apparentemente risolto e pur sempre attuale, circa la distinzione tra la nozione dell’atto illecito e quella dei fatti illeciti di cui si occupa l’art.2043 ed a cui si lega, in definitiva, la specifica parabola registrata dal “danno ingiusto”[2], sino alla riproposizione, in termini nuovi, della distinta sfera di applicazione del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, del danno da ingiustificato arricchimento e, più di recente, del danno “cd. punitivo”.
Nella prospettiva assunta, a ben vedere, lo sguardo di insieme, ora proposto al fine di cogliere i legami occulti che hanno caratterizzato l’evoluzione nel corso del tempo dei profili specifici dianzi richiamati, non contraddice, anzi conforta, il progressivo configurarsi della responsabilità civile come un vero e proprio arcipelago. Esso abbraccia fattispecie diverse in connessione tanto con la multifunzionalità che attualmente contraddistingue la responsabilità civile[3], quanto con l’inevitabile compresenza di risposte disciplinari emerse in epoche diverse e, però, pur sempre adeguate a fronte dei bisogni di una società assai complessa in cui sono chiamate a convivere sincronicamente istanze riconducibili a molteplici quanto distinte sfere di giustizia accumulatesi nei trascorsi decenni.
Le considerazioni introduttive sin qui prospettate evidenziano, dunque, che nell’ambito dell’evoluzione complessiva della responsabilità civile la presenza di un rapporto sinergico tra giurisprudenza e legge scritta può dirsi continuo e persistente e, per certi versi, determinante ai fini del mutamento sin qui intervenuto e di quello in itinere.
In questo senso, una possibile scansione dei momenti più significativi dell’evoluzione intervenuta nel corso del tempo, a prescindere da alcuni specifici e puntuali eventi, può individuarsi solo se sul piano analitico si prospetti, come criterio distintivo, la separazione tra il risultato ermeneutico, di volta in volta raggiunto nel dare soluzione innovativa a specifici problemi emersi in materia di responsabilità civile, e la ratio decidendi di volta in volta posta a supporto della decisione.
Sotto questo specifico profilo, la tematica della “ingiustizia del danno” può dirsi esemplare.
Infatti, per lungo tempo l’ampliamento della sfera delle situazioni giuridiche da prendere in considerazione ai fini della sussistenza del danno ingiusto si è in concreto attuata ed è stata perseguita dalla giurisprudenza pur sempre in ossequio tanto alla configurazione tradizionale della responsabilità civile come usbergo al servizio della tutela di soli diritti assoluti, quanto alla completa sovrapposizione dell’atto illecito in senso stretto con il fatto illecito di cui parla l’art.2043. In particolare, al fine di ammettere la tutela risarcitoria senza rinunciare alla cornice teorica ricevuta dalla tradizione, si è in alcuni casi sostenuta la sussistenza – del tutto improbabile e discutibile – di un diritto soggettivo assoluto[4], sì da soddisfare in concreto pressanti istanze di tutela, piuttosto che accogliere una complessiva revisione teorica del danno ingiusto che risulterà poi formalizzata dalla giurisprudenza con la sentenza della Cassazione n.500 del 1999. Analogamente, per alcune fattispecie previste dallo stesso codice civile, l’ossequio alla tradizione ha favorito a lungo il richiamo tralaticio nelle motivazioni delle decisioni al criterio della responsabilità fondato sulla colpa, per quanto presunta, sebbene in concreto si sia prospettata una soluzione sostanzialmente in linea, nel caso di specie, con il carattere oggettivo della responsabilità, ma senza esplicitarne il riconoscimento[5]. In altri casi, più risalenti e però isolati, l’ampliamento della sfera operativa della responsabilità extracontrattuale da parte della giurisprudenza è intervenuta, a dispetto della prevalente dottrina, senza una adeguata giustificazione teorica, sulla base delle sole istanze di tutela emerse nella prassi: si rammenti, al riguardo, l’apodittica configurazione della responsabilità decennale dell’appaltatore ex art. 1669 cod. civ. per rovina e difetti di cose immobili come responsabilità extracontrattuale, come tale invocabile anche da soggetti diversi dal committente, nonché l’estensione di tale responsabilità anche all’ architetto o al progettista[6].
In realtà, a voler proseguire lungo la prospettiva analitica sopra evidenziata, negli ultimi decenni, in particolare a partire dalla decisione della Cassazione del 1999 sopra richiamata, l’esperienza giuridica italiana ha registrato una singolare progressiva novità nella prassi giurisprudenziale in materia di responsabilità civile e di danno ingiusto[7]: novità che riguarda più precisamente il mutamento significativo intervenuto nell’elaborazione della ratio decidendi presente soprattutto nelle pronunce della corte di cassazione.
Il tema che qui si intende solo segnalare, posto che meriterebbe una apposita analisi, riguarda in sostanza la singolarità dello “stile” che di recente contraddistingue le sentenze, a partire da quelle della suprema Corte e che, per la verità, va ben oltre la sola sfera dei fatti illeciti. Infatti, come è stato da più parti segnalato, si sta sempre di più affermando uno stile cd. “dottrinario”[8] delle pronunce a partire da quelle della suprema Corte: non tanto nella direzione, pur sempre latente, volta a cercare una “terza via” tra le soluzioni prospettate dalla dottrina ed invocate dalle parti in causa, quanto piuttosto in ragione della sempre più diffusa tentazione da parte dei giudici di utilizzare la pronuncia come un luogo in cui prospettare una autonoma ricostruzione sistematica della disciplina da applicare, sì da offrirne un’illustrazione compiuta che, molto spesso, va ben oltre l’economia della specifica questione da affrontare nel caso di specie.
Siffatta singolare configurazione della motivazione, che si rinviene in molte decisioni della Corte di cassazione e che per certi versi finisce col fare a pugni con la stringatezza e con la sinteticità che attualmente si esigono dagli avvocati chiamati a predisporre le loro memorie difensive, rappresenta, per certi versi, una manifestazione emblematica dell’esperienza giuridica nell’attuale società post-moderna.
L’effettiva difficoltà di ricomporre a sistema la progressiva frantumazione dell’esperienza e, al tempo stesso, l’accresciuta inadeguatezza del quadro legislativo nel tener dietro ai mutamenti in atto hanno portato a riconoscere un rilievo esponenziale alla giurisprudenza, che appare assunta come effettivo, se non unico, luogo in cui possano trovare risposte le molteplici quanto svariate istanze di giustizia avanzate dai cittadini, laddove la stessa dottrina giuridica risulta attardata ed in difficoltà nel rivedere i paradigmi con cui affrontare le nuove problematiche[9].
In questa situazione, è inevitabile, per certi versi, il progressivo espandersi di una tendenziale autoreferenzialità delle soluzioni giurisprudenziali. Questa si manifesta in diverse forme che, a ben vedere, accentuano più che ridurre la frammentarietà del quadro nonché le incertezze di fondo circa la “calcolabilità” delle decisioni, sicché tendono ad ampliarsi le lacerazioni nella tessitura sistematica del solo stesso diritto privato.
La prima forma in cui si manifesta la richiamata tendenza alla autoreferenzialità da parte della giurisprudenza può ben rinvenirsi proprio nel progressivo affermarsi nelle decisioni della suprema Corte di un modello di motivazione di taglio “dottrinario” finalizzato ad assicurare una più adeguata legittimazione al processo di emancipazione dei giudici dalla riflessione della dottrina. In tal modo di procedere, il profilo sistematico-teorico del processo ermeneutico viene ricondotto tutto all’interno stesso della pronuncia, con i limiti dovuti all’inevitabile carattere puntiforme dell’intervento occasionato dal caso specifico e dall’ impossibilità di cogliere comunque tutte le conseguenze e le implicazioni che la soluzione è in grado di generare.
La seconda forma si può ben cogliere, dopo decenni di resistenze e di reticenze, nel aumentato ricorso nelle decisioni alle clausole generali, vecchie e nuove[10], ovvero nel recente recupero dal deposito degli attrezzi presenti nell’officina del giurista di uno dei più misteriosi stante il suo carattere taumaturgico, ossia del cd. “abuso del diritto”[11]. Per tale via, infatti, la legittimazione delle soluzioni prospettate è in concreto affidata direttamente all’utilizzo di uno strumentario a contenuto aperto, come tale in grado di lasciare a ciascun giudice spazi effettivi per la coesistenza, in termini che vogliono essere fisiologici e non sempre patologici, anche di soluzioni divergenti, all’insegna sia di un riscoperto jus controversum[12] , sia di una più evidente oscillazione nelle soluzioni che, in alcune aree delicate come appunto è quella della responsabilità, ben possono portare ad uno stato di effettiva anarchia[13].
2. Tornando, dopo queste osservazioni introduttive, al tema specifico oggetto della nostra riflessione, ossia a quello del danno ingiusto, mette conto prendere in considerazione più da vicino il rilievo, dianzi segnalato, in ordine al legame circolare che nell’evoluzione della responsabilità civile è dato cogliere, sullo sfondo, tra i mutamenti intervenuti nella rilettura dell’“ingiustizia del danno”, nel segno della sua progressiva e sempre più chiara affrancazione dall’“antigiuridicità” della condotta, propria dell’atto illecito in senso stretto, e quelli che hanno riguardato la distinzione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, cui si lega lo sviluppo esponenziale che ha riguardato il danno alla persona, a partire dal danno biologico. Sotto questo profilo, val bene rimarcare che negli ultimi decenni, non si è avuto soltanto uno spostamento significativo dell’attenzione della prassi e della dottrina sul tema del danno risarcibile, ma soprattutto si è fatta strada, anche inconsapevolmente, la tendenza a declinare la tematica dell’ingiustizia del danno, che costituisce pur sempre la premessa per la concreta operatività della responsabilità civile, a rimorchio dell’esigenza di una soddisfacente allocazione delle conseguenze patrimoniali e non patrimoniali dell’agire.
Nella prima prospettiva, appare tuttora opportuno richiamare, come ancora attuale, l’incipit già utilizzato più di trenta anni fa nel riflettere sul tema del danno alla persona, e, a sua volta, ripreso da una ancor più risalente riflessione di uno studioso di common law secondo cui «the crucial controversy in personal injury torts today is non in the area of liability but of damages»[14].
Nella seconda prospettiva, volta a segnalare l’inversione circa il rapporto tra danno ingiusto e danno risarcibile, è sufficiente qui limitarsi a richiamare l’ampio dibattito della dottrina e della giurisprudenza in materia di “perdita di chance”, assunta ora come semplice conseguenza della lesione, ora come oggetto stesso della lesione[15]: dibattito in cui si riproduce, sia pure per una problematica ben diversa, il medesimo itinerario registratosi nella lunga riflessione sul danno biologico a partire dalla originaria sua configurazione come danno-evento più che come danno conseguenza: danno quest’ultimo configurato, a sua volta, come danno patrimoniale o non patrimoniale secondo le diverse letture adottate nel tempo dalla stessa Corte costituzionale[16].
In effetti, il riferimento da ultimo avanzato circa la configurazione della perdita di chance come oggetto della lesione, ossia in termini di «un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione» la cui «perdita integra un danno che, se allegato e provato, deve essere risarcito», è sufficiente a segnalare, a prescindere nel merito dall’accettabilità di questa interpretazione, l’effettiva “rivoluzione” intervenuta nella rilettura dell’art. 2043 cod. civ. a proposito proprio della “ingiustizia del danno” che costituisce pur sempre il presupposto ineliminabile ai fini della ricorrenza della responsabilità civile e, dunque, del risarcimento del danno.
Invero, il progressivo ampliarsi della sfera operativa della responsabilità civile intervenuta nel corso del tempo è dovuta proprio alla profonda rivisitazione circa la nozione del “danno ingiusto” di cui parla l’art. 2043. Ci si riferisce, in estrema sintesi, alla revisione dell’impostazione tradizionale tendente ad identificare l’ingiustizia riferita al danno con l’antigiuridicità della condotta e, in definitiva, a legare il prodursi dell’obbligazione risarcitoria alla presenza di un atto illecito in senso stretto, lesivo di una situazione giuridica soggettiva perfetta rilevante erga omnes.
Soluzione, questa, contraddetta, in verità, dalla complessiva disciplina presente nel codice civile a proposito della responsabilità civile, posto che è risultato sempre più difficile sfuggire a questa alternativa. Se si accetta la premessa secondo la quale la responsabilità civile esige, come presupposto, la presenza di un atto illecito in senso stretto, sia esso colposo o doloso, appare allora evidente l’impossibilità di ricondurre tra “i fatti illeciti” le ipotesi di responsabilità oggettiva[17].
Se viceversa , la formula “fatti illeciti” di cui parla il titolo IX del libro IV del codice civile comprende una pluralità di diversi criteri di imputazione, risulta evidente sia che la nozione di illecito riferita ai “fatti” di cui parla il codice non coincide con quella riguardante l’atto in senso stretto, sia che la nozione di ingiustizia riferita nel testo dell’art. 2043 al danno non può costituire la semplice trasposizione a livello del danno della qualificazione, nei termini dell’antigiuridicità, relativa alla condotta, ossia all’atto.
Nella più moderna prospettazione, in altri termini, l’illiceità, non costituisce più il presupposto, valutativo della condotta, ossia un elemento della fattispecie perché sorga la responsabilità civile, ma riflette, nel suo riferimento complessivo a diversi “fatti”, la semplice sintesi dell’effetto fondamentale costituito dal sorgere dell’obbligazione risarcitoria.
Orbene, non può negarsi che, alla luce di un ampio e lungo dibattito della dottrina intervenuto nel corso dei passati decenni, anche la giurisprudenza abbia in definitiva accolto questa seconda linea interpretativa. La formula “aperta” dell’ingiustizia riferita al danno ha permesso così di estendere la tutela risarcitoria alle lesioni connesse alla presenza di una situazione giuridicamente rilevante sul piano del diritto oggettivo[18], a prescindere, in definitiva, dalla configurazione strutturale della stessa. Di qui, innanzitutto, la progressiva espansione della tutela risarcitoria in presenza di lesione del diritto di credito, dell’interesse legittimo, nonché l’attenzione sempre più articolata per i danni cd. da rimbalzo per i quali si è registrata una significativa apertura da parte della giurisprudenza.
In effetti, il concreto recupero della cd. “atipicità” alla base dell’art. 2043, non già nel senso della totale attribuzione al giudice del potere di qualificare di volta in volta il danno in termini di ingiusto, bensì nel senso di affidargli il compito di verificare la sussistenza di una situazione, persino di fatto[19], sempre che giuridicamente rilevante per l’ordinamento, oggetto della lesione, se da un lato ha certamente risposto all’esigenza di un’espansione circa l’area operativa della responsabilità civile[20], dall’altro ha aperto anche la strada ad una altrettanto profonda revisione dell’ambito stesso del “danno risarcibile” in presenza di un “danno ingiusto”.
In questa seconda direzione, come è noto, va interpretata la significativa vicenda che nel corso del tempo ha anche contraddistinto la rilettura del danno non patrimoniale.
Infatti, a fronte dell’ampliamento della tutela risarcitoria di cui all’art. 2043 a tutte le situazioni soggettive giuridicamente rilevanti, in linea del resto con l’avvento di una economica cd. creditizia, si è paradossalmente allargato nel corso del tempo la distanza tra la risposta assicurata alla protezione della sfera patrimoniale del soggetto e quella, oltremodo rigida e selettiva, ammessa per l’area del cd. danno non patrimoniale.
Una visione retrospettiva dell’esperienza intervenuta negli ultimi decenni evidenzia chiaramente che la spinta verso il pieno recupero, nella sfera della risarcibilità, dei danni non patrimoniali, ossia di quelli più strettamente legati alla sfera della persona, è intervenuta sulla base di ardite decisioni giurisprudenziali in materia di danno biologico che, partite da giudici di merito, hanno avviato un’effettiva nuova stagione di riflessioni sulla responsabilità civile. In questa specifica area, è indiscutibile il ruolo fondamentale giocato dalla giurisprudenza nel dialogo con la dottrina: dialogo che ha portato da un lato a chiarire progressivamente la pluralità delle declinazioni della formula “danno non patrimoniale”, con il coinvolgimento della stessa Corte costituzionale, dall’altro ad indurre la stessa giurisprudenza più recente ad un opportuno self restraint, al fine di evitare che dalla rigidità originaria del sistema si passasse ad una deriva senza limiti legata al riconoscimento a tutto campo del cd. danno esistenziale[21], sulla falsariga di quanto accaduto per il danno biologico.
In realtà, la problematica del “danno non patrimoniale” è tuttora aperta, in quanto la cifra effettiva che differenzia la nostra esperienza giuridica da altre resta pur sempre quella relativa all’individuazione di soluzioni soddisfacenti sul piano di una adeguata quanto attendibile quantificazione del danno. È in questa direzione, infatti, che possono comprendersi sia la progressiva consolidazione della soluzione giurisprudenziale in materia di liquidazione del danno biologico messa a punto dai giudici di Milano da parte della stessa Corte di cassazione, sia le oscillazioni persistenti tuttora in giurisprudenza circa la quantificazione del danno non patrimoniale in ragione del rapporto tra le diverse “voci” presenti al suo interno, onde evitare il rischio di una locupletazione del risarcimento.
3. L’incidenza che la rilettura della “ingiustizia del danno” ha avuto nella complessiva rivisitazione della responsabilità civile, a partire dalla fondamentale rimozione della confusione tra atto illecito e fatto illecito, è andata ben oltre il semplice ampliamento della sfera operativa della tutela con riferimento sia al superamento della soglia rappresentata dai diritti soggettivi assoluti[22], sia alle indubbie significative aperture intervenute a proposito dell’articolata prospettazione del danno non patrimoniale.
Essa, a ben vedere, ha inciso in maniera assi rilevante su tutti gli “elementi” della fattispecie. Non vi è dubbio, infatti, che l’approccio originario alla responsabilità civile nella prospettiva dell’atto illecito in senso stretto ha favorito una ricostruzione sia dell’elemento soggettivo, colpa o dolo, sia del nesso di causalità, sia della cause di giustificazione tendenzialmente in linea con l’impostazione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza penalistica.
Nei trascorsi decenni, il passaggio dalla centralità dell’atto illecito alla moderna configurazione dei fatti illeciti, come sopra sinteticamente riassunta, ha favorito progressivamente un’indubbia sempre più nitida differenziazione in ordine alla lettura degli “elementi” sopra richiamati. In particolare, la configurazione oggettiva della colpa, la distinzione tra il nesso di causalità civilistico – nei termini del più probabile che non[23] – rispetto a quello richiesto per accertare la sussistenza della responsabilità penale, hanno rappresentato momenti altamente significativi del processo attraverso il quale la giurisprudenza ha contribuito ad assicurare una effettiva compiuta autonomia alla responsabilità civile sul piano dei concetti e delle tecniche rispetto alla responsabilità penale nella direzione volta a esaltare la funzione specifica della prima. Questo processo, a ben vedere, ha coinvolto anche le cd. cause di giustificazione che sono state in concreto rilette non più come ipotesi di esclusione della antigiuridicità della condotta, bensì come ipotesi di semplice esclusione della responsabilità, ossia del sorgere dell’obbligazione risarcitoria, da cui possono discendere effetti diversi[24].
Al tempo stesso, però, la presenza nell’area della responsabilità civile pur sempre di una pluralità di criteri di imputazione tra cui si collocano anche quelli tradizionali della colpa e del dolo e l’introduzione, nella legislazione fuori dal codice civile, di nuove originali ipotesi di atti illeciti in senso stretto hanno favorito, in maniera inconsapevole, una esigenza del tutto nuova che solo in apparenza può sembrare suggerire una linea opposta a quella imboccata dalla moderna responsabilità civile. In particolare, lo spostamento di attenzione sulla categoria dei “fatti illeciti” in luogo della tradizionale centralità della nozione di atto illecito in senso stretto non esclude che in sede di applicazione della responsabilità civile si possa dare uno specifico rilievo alle ipotesi in cui la presenza di un fatto illecito coincida anche con quella di un atto illecito in senso stretto nei termini della violazione di una specifica puntuale regola di condotta. Ebbene, è in questa direzione, a nostro avviso, che in maniera concettualmente tuttora inadeguata, si sta registrando il recupero, in alcuni specifici casi, della funzione sanzionatoria della responsabilità civile e, dunque, della possibile configurazione punitiva – a dispetto dell’ossimoro che potrebbe qui rinvenirsi – del risarcimento del danno: configurazione che, del resto, inevitabilmente si associa alla funzione di prevenzione.
In questa prospettiva e nei limiti qui richiamati deve, a nostro avviso, affrontarsi il tema oggi di attualità relativo all’ammissibilità dei danni cd. punitivi. Indubbiamente, in termini formali, il nostro sistema non conosce l’istituto nei termini precisi in cui esso è presente nella legislazione e nella prassi di altri paesi né presenta un sistema processuale del tutto in linea con l’utilizzazione di questo istituto[25]. Se questo è indubbio, appare, a nostro avviso, frutto di una impostazione ideologica, in quanto non corrispondente alla realtà, sostenere che nel nostro sistema la responsabilità civile abbia solo e sempre una funzione risarcitoria[26] senza eccezioni, ossia non ricorrano ipotesi in cui la quantificazione del danno vada oltre quanto effettivamente sofferto dalla vittima e provato dalla stessa.
Senza qui voler essere esaustivi, è sufficiente richiamare innanzitutto alcune soluzioni presenti ab origine nel codice civile del 1942 ed altre successivamente ivi introdotte che smentiscono la presunta “purezza” della configurazione risarcitoria della responsabilità civile, A prescindere dalle regole dettate in materia di effetti del possesso di mala fede, basta qui rammentare che nel caso dell’accessione invertita per costruzione intervenuta in parte sul suolo del vicino, al proprietario del suolo spetta il doppio del valore del suolo sacrificato “ salvo il maggior danno” da provare. Analogamente, in caso di mutuo usurario, viene meno il pagamento di qualsiasi interesse come dispone l’attuale art.1815 comma 2 cc. Più di recente, il codice della proprietà industriale ed intellettuale prevede in caso di violazioni che il risarcimento tenga conto non solo del danno sofferto dal soggetto leso, ma anche dei profitti conseguiti dal responsabile della violazione[27]. È in questa stessa direzione che, a ben vedere, possono comprendersi le pronunce in cui si è prospettato, sia pure in termini inadeguati e criticabili, la possibilità di un danno in re ipsa, ossia meritevole di risarcimento senza che la presunta vittima ne abbia dimostrato la sussistenza e la misura[28]. Non è un caso, infatti, che queste ipotesi siano emerse proprio in situazioni in cui più evidente si è avvertita l’esigenza di fornire una risposta “esemplare” a fronte dell’atto illecito intervenuto (si pensi, ad esempio, alle ipotesi di atti discriminatori , di mobbing[29] o di violazioni dei diritti della personalità[30]) e si sia dato rilievo alla “gravità” dell’offesa .
L’articolazione delle risposte che la prassi evidenzia, anche sulla base di disposizioni presenti nel sistema positivo, nel segno della riemersione in alcune circostanze della funzione anche sanzionatoria tradizionalmente riconosciuta alla responsabilità civile si inserisce, a ben vedere, in un più ampio indirizzo che in questa stagione contraddistingue l’esperienza giuridica italiana e la differenzia dalle altre presenti nei paesi europei. Infatti, l’evoluzione sin qui tracciata non ha esaurito le tendenze espansive della responsabilità civile a partire dalla riconosciuta ampiezza applicativa della ingiustizia del danno di cui parla l’art.2043. Infatti, nel nostro paese, l’ampliarsi della sfera operativa della responsabilità extracontrattuale secondo l’indirizzo emerso anche nella realtà giuridica d’oltralpe, tuttora governata dalle formule codicistiche del Code Napoleon, è intervenuta nel momento stesso in cui sul piano della rilettura della responsabilità contrattuale si è andata sviluppando un orientamento ermeneutico aperto agli influssi delle dottrina e della prassi giurisprudenziale tedesca. Queste ultime, come è noto, in ragione della tipicità delle fattispecie di responsabilità extracontrattuali accolte nel BGB, in ossequio al modello romanistico fatto proprio dalla Pandettistica, hanno incanalato le maggiori istanze di tutela risarcitoria emerse nella società di massa contemporanea sul versante della responsabilità contrattuale, attraverso l’elaborazione dei cd. obblighi di protezione e della responsabilità da contatto sociale[31]. Ebbene, l’attenzione della dottrina e della stessa giurisprudenza italiane anche per questo indirizzo ha portato nella nostra esperienza al sorgere di una vera e propria ipertrofia della tutela risarcitoria, tuttora in corso sebbene la prassi giurisprudenziale negli ultimi tempi evidenzi segnali di maggior cautela nell’avvalersi di siffatte impostazioni. Non meraviglia, allora, che in questa singolare congiuntura, il legislatore sia intervenuto più volte per tamponare l’espansione, considerata incontrollata, della prassi risarcitoria con soluzioni in cui la configurazione extracontrattuale della responsabilità è stata imposta al fine di decongestionare il sistema e ridimensionare l’effettività della tutela risarcitoria nonostante si dichiari di voler meglio difendere le vittime: si consideri, a tacer d’altro, la recente disciplina in materia di responsabilità medica di cui alla legge 8 marzo 2017 n. 24. Nella medesima linea, d’altro canto, possono comprendersi le indubbie oscillazioni che si registrano negli indirizzi della stessa Corte di cassazione, laddove si constati che la linea adottata risulti di volta in volta sbilanciata in maniera eccessiva a tutela rispettivamente del danneggiato o del creditore.
In definitiva, quanto più si amplia l’area operativa della responsabilità civile e se ne delinea sempre più nettamente la distinzione dalla responsabilità penale, tanto più è legittimo e comprensibile che al suo interno il pluralismo funzionale suggerisca, fino ad imporle, ponderate articolazioni che ben possono preannunciare anche puntuali interventi legislativi. In questa prospettiva, è del tutto evidente sia che la giurisprudenza risulti sempre in prima linea nel cogliere le esigenze che nascono nella realtà effettuale sia che, in ragione della complessità del reale, la dottrina, per quanto possa essere fornita di immaginazione e di fantasia, sia chiamata ad un ruolo sensibilmente diverso da quello che la storia del secolo scorso le aveva assegnato. Al tempo stesso, però, la carenza sempre più avvertita di un quadro generale di riferimento di lungo periodo, inevitabilmente genera incertezze, rivisitazioni e revisioni nella prassi che obiettivamente alimentano la constatazione, propria della epoca post-moderna, di essere di fronte ad un diritto sempre di più incalcolabile[32].
[1] L’avvento della società moderna ha indubbiamente attribuito rilievo esponenziale, ma non effettivamente esaustivo, alla funzione risarcitoria della responsabilità civile, sebbene, al tempo stesso, il richiamo alla colpa e al dolo legato alla centralità della nozione tradizionale di illecito confermassero la configurazione pur sempre sanzionatoria assegnata alla stessa. Ciò non ha impedito, al tempo stesso, che altre funzioni, per lungo tempo latenti, potessero riemergere a partire da quella diretta alla prevenzione dei sinistri. In questa prospettiva storica, e non ideologica, va collocato il recente dibattito emerso a proposito dei cd. danni punitivi, al centro dell’attenzione, sia pure ai fini delibazione di sentenze straniere, prima della Cour de cassation in Francia, ed ora anche della nostra Corte di cassazione. A nostro avviso, tale dibattito assume senso compiuto nella nostra esperienza non già ove si identifichi il danno punitivo con la sola ipotesi – tuttora estranea al nostro ordinamento- in cui vi sia condanna al risarcimento anche in totale assenza di danno effettivo, ma ove si considerino a tale riguardo anche quella varietà di ipotesi (peraltro presenti nel nostro sistema), in cui il risarcimento può andare oltre il danno effettivo, intervenuto e provato, e , dunque, in cui si registri uno spostamento di ricchezza (astrattamente ingiustificato) dal soggetto responsabile a quello che ha sofferto la lesione: sul punto v. infra.
[2] A ben vedere, se si analizza il testo dell’art.2043 cc e lo si confronti con l’art.1293 del codice austriaco del 1811, in cui è presente appunto la medesima formula “danno ingiusto”, è facile cogliere che solo nel secondo la formula riecheggia, senza dubbio alcuno, il richiamo all’antigiuridicità della condotta. Infatti, l’art.1293 così recita: «il danno proviene da un’azione od omissione ingiusta altrui o da caso fortuito. Il danno ingiusto si cagiona o volontariamente o involontariamente ...»[il corsivo è nostro].
[3] Sulla multifunzionalità della responsabilità civile, su cui da tempo abbiamo insistito (si v. il nostro Responsabilità civile, in Bessone (a cura di) Istituzioni di diritto privato1, Torino 1993), si v. più di recente C.Scognamiglio, I danni punitivi e le funzioni della responsabilità civile, in Corr. giur. 2016, pp. 827 ss. Sul punto si è registrata di recente una convergenza anche da parte della giurisprudenza. Nella decisione delle Sezioni unite 5 luglio 2017 n.16601, si è infatti affermato conclusivamente che «Vi è dunque un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza nell'ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un'esigenza di effettività (cfr. Corte cost. 238/2014 e Cass. n. 21255/13) della tutela che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell'angustia monofunzionale … Ciò non significa che l'istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati».
[4] Si considerino, ad es, il richiamo ad un presunto diritto all’integrità del patrimonio, utilizzato nella decisione del caso cd. De Chirico nella isolata pronuncia 4 maggio 1982 n.2765 su cui si è accumulata una assai vasta letteratura in prevalenza critica: al riguardo si consideri il rilievo critico che si legge in Cass. civ. sez. un., 12 novembre 1988 n. 6132 secondo cui ammettere la tutela del danno meramente patrimoniale porterebbe a «considerare la perdita economica come elemento integratore dell'illecito piuttosto che come conseguenza dello stesso»”. Per una utilizzazione diversa, si v. Cass. sez. un., 4 settembre 2015 n. 17586 (confermata dalla recente decisione di Cass. sez. un., 22 maggio 2017, n. 12799) che ha ritenuto rientrante nella giurisdizione ordinaria la domanda risarcitoria proposta nei confronti della Pa per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento di concessione di opera pubblica successivamente annullato, in quanto si sarebbe in presenza non della lesione di un interesselegittimo pretensivo, bensì di «una situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione dell’integrità del proprio patrimonio».
[5] Si consideri in particolare le motivazioni delle decisioni relative all’applicazione dell’art.2051 cc: sul punto ci permettiamo il rinvio al nostro Danno cagionato da cose in custodia, in Dei fatti illeciti (art. 2044-2059) in Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Utet, Torino 2011, pp. 205 ss.
[6] A ben vedere, la configurazione della responsabilità dell’appaltatore ex art.1669 in termini di responsabilità extracontrattuale risale addirittura agli anni cinquanta del secolo scorso e si è consolidata nonostante le riserve della dottrina. La stessa giurisprudenza nei decenni successivi ne ha esteso l’applicazione anche al progettista con la conseguenza ulteriore di ammettere sia la solidarietà nell’obbligazione risarcitoria anche nel caso in cui i due soggetti siano stati coinvolti per il tramite di distinti contratti (sul punto si v. tra le più recenti decisioni Cass.6 dicembre 2017, n. 29218) sia l’azione di regresso nei rapporti interni (così Cass. 24 febbraio 1986 n. 1114). In questa prospettiva, non appare scorretto ritenere che con largo anticipo questa lettura dell’art.1669 abbia fornito una risposta in termini di responsabilità da prodotto difettoso, nella specie l’edificio, considerando questo ultimo comprensivo non solo del manufatto in senso stretto, ma anche del progetto che ne è alla base.
[7] Invero, un’analisi storica del rapporto tra dottrina e giurisprudenza in materia di responsabilità civile evidenzia che per lungo tempo la dottrina tradizionale ha indubbiamente inciso in maniera significativa sugli orientamenti della prassi giurisprudenziale, sicché la svolta della civilistica intervenuta a partire dagli anni sessanta è stata recepita dalla giurisprudenza con indubbio ritardo. Il processo, inverso, ossia la spinta progressiva venuta dai giudici ha preso l’avvio negli anni settanta a proposito della problematica relativa al danno alla persona cui si deve la riproposizione aggiornata del danno non patrimoniale sulla scia della riscoperta e rilettura della impostazione lungimirante avanzata da R. Scognamiglio alla fine degli anni cinquanta che, pur senza coinvolgere i principi costituzionali, aveva cercato di recuperare la problematica del danno alla persona attraverso la riduzione del danno non patrimoniale, soggetto a riserva di legge ex art.2059, al solo danno morale in senso stretto, in modo da dilatare l’area del danno risarcibile. Sul ruolo avuto dalla dottrina nella evoluzione della giurisprudenza si v. gli atti della tavola rotonda pubblicati in Resp. civ. e prev. 2015, pp. 1768 ss.
[8] Sul tema, al centro di una riflessione tuttora in corso, si v. la sintesi offerta di recente da C. Granelli, Dottrina dei dottori e dottrina delle corti, in Jusivile 2017, 6, pp. 703 ss.
[9] Nella prospettiva indicata nel testo, vanno indubbiamente collocate le comprensibili preoccupazioni di cui si è fatto portavoce C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Giuffrè, Milano 2015. Tuttavia, se il trend che vede in ascesa il rilievo della giurisprudenza è indubbiamente presente in tutti i paesi europei, accanto all’abbassamento della qualità della stessa legislazione dovuta anche alle semplificazioni derivanti dalla normativa di fonte europea, non può negarsi che la perdita di vitalità e di autorità della dottrina giuridica privatistica quale si riscontra nel nostro Paese sia il riflesso di una più generale e complessa crisi sociale ed istituzionale che coinvolge in primo luogo anche le strutture universitarie e pregiudica la formazione dei giuristi accademici. La semplice comparazione tra la produzione scientifica in area giuridica che continua a registrarsi in Francia ed in Germania con quella municipale evidenzia, impietosamente, che il declino italiano è molto più grave ed ha radici ben più complesse.
[10] Il riferimento è qui non solo alle classiche clausole di buone fede e correttezza (per un richiamo alle principali decisioni della Cassazione che hanno fatto richiamo a tali clausole si v. la recente sentenza 5 maggio 2017 n.10906), ma anche alle nuove siano o non siano esse di fonte legislativa: si pensi all’“abuso di dipendenza economica” ovvero alla “proporzionalità”. Peraltro, accanto al riferimento alle clausole generali, va segnalato anche il richiamo ai “principi”, a partire da quelli costituzionali, di cui si prospetta, in maniera fin troppo disinvolta, l’ efficacia diretta nei rapporti orizzontali: sul tema, con specifico riferimento al principio costituzionale della solidarietà, invocato nelle ordinanza della corte costituzionale n.248/2013e n.77/2014 al fine di valutare la validità di una caparra di importo manifestamente eccessivo, si v. da ultimo D’Amico, Buona fede e solidarietà sociale: il tramonto della clausola generale ( considerazioni a margine di un recente libro) in Riv. crit. dir. priv. 2017, pp. 557 ss. ivi ampi riferimenti bibliografici.
[11] Il tema è tornato di attualità nel dibattito della dottrina seguita alla sentenza della Cass.18 settembre 2009, n. 20106: sul punto ex multis si v. AA.VV.Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino 2010; più di recente Lipari, Ancora sull’abuso del diritto, Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in questa Rivista, 4/2016, www.questionegiustizia.it/rivista/2016/4/ancora-sull-abuso-del-diritto-riflessioni-sulla-creativita-della-giurisprudenza_396.php.
[12] Il rilievo avanzato nel testo non è, a ben vedere, contraddetto dal fatto che si siano promosse iniziative di cooperazione tra le diverse giurisdizioni per ridurre i conflitti interpretativi: si consideri, al riguardo, il memorandum di intesa intervenuto il 15 maggio 2017 tra i primi presidenti della cassazione, del Consiglio di stato della Corte dei conti e dei procuratori generali della cassazione e della Corte dei conti con il quale si è convenuto «di impegnarsi – nei limiti dei compiti organizzativi e di indirizzo loro spettanti nell’esercizio delle rispettive funzioni – al fine di promuovere tutte le opportune iniziative all’interno delle rispettive giurisdizioni allo scopo di migliorare lo svolgimento complessivo della funzione nomofilattica».
[13] Per questo giudizio, riflettente l’opinione di attenti osservatori della prassi giurisprudenziale, si v. di recente Pardolesi e Simone, Nesso di causa e responsabilità della struttura sanitaria: indietro tutta!, in Danno e responsabilità, 2018, pp. 5 ss.
[14] Questa affermazione di Jaffe, Damages for Personal injury. Thne Impact of insurance in 18 Law & Contemp.Probl. 1953, 221 è ripresa nel nostro saggio, Il risarcimento del danno alla persona e l’analisi del diritto, in Foro it., 1979, V, pp. 249 ss.
[15] Quanto alla configurazione della chance come un bene giuridico autonomo presente quale posta attiva nel patrimonio del danneggiato, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, si veda Cass. 4 marzo 2004 n. 4400; più di recente Cass 27 marzo 2014 n. 7195. A ben vedere, il riflesso dell’alternativa segnalata nel testo si rispecchia altresì in quell’altra per la quale, nel caso di specie, si parla ora di danno emergente ora di lucro cessante.
[16] Sulla distanza tra l’originaria soluzione adottata nella decisione 14 luglio 1986 n. 184 elaborata da Dell’Andro e quella prospettata nelle successive decisioni della corte costituzionale a firma di Mengoni, a partire dalla sentenza 24 ottobre 1994 n. 372 e l’ordinanza 22 luglio 1996 n. 293 ci permettiamo di rinviare al nostro contributo, Il danno non patrimoniale: le fortune della “doppiezza”, in Danno e responsabilità, 1999, pp. 601 ss.
[17] La linea interpretativa favorevole ad assicurare la compresenza del modello tradizionale con quello rappresentativo della modernità fondato sulla responsabilità oggettiva, ma nel segno della loro irriducibile distanza, è stata, con coerenza, alla base della ampia riflessione scientifica di Pietro Trimarchi. Non a caso in essa risulta consapevolmente rimossa la formula “fatti illeciti”, presente nel titolo IX del libro IV del codice civile, a favore rispettivamente di quelle, nettamente distinte, dell’”atto illecito” e del “rischio”: si v. la recentissima raccolta dei suoi contributi in P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Giuffrè, Milano, 2017 in cui, però, emerge la forzatura insita nel tentativo di prospettare una ricomposizione tra i due modelli, utilizzando la singolare espressione “rischi illeciti”.
[18] In questi termini, dopo la decisione delle Sezioni unite n. 500 del 1999, si v. anche Cass. 28 marzo 2000, n. 3726 e Cass. 4 novembre 2000, n. 14432. Più di recente, ma sempre nella stessa linea, Cass. sez.un. 4 settembre 2015 n. 17586 ha parlato di danno ingiusto con riferimento alla lesione di qualsiasi situazione giuridica soggettiva riconosciuta dall'ordinamento.
[19] Oltre alla tutela risarcitoria conseguente alla lesione del possesso (su cui v. Cass.civ. 2 aprile 2014, n. 7741) si consideri quella riservata in caso di morte al convivente more uxorio: sul punto si ex multis Cass. 7 marzo 2016 n. 4386.
[20] È il caso di osservare che il progressivo riconoscimento della tutela risarcitoria, sulla base della sussistenza di una posizione giuridica soggettiva fondata sul diritto oggettivo, fattosi strada nella giurisprudenza nazionale, è andato di pari passo con l’indirizzo emerso in sede europea a proposito della responsabilità degli organi dello Stato per violazione di disposizioni considerate attributive di diritti dei singoli, a partire dalla violazione delle stesse libertà fondamentali del trattato: al riguardo, a proposito della responsabilità dello Stato per violazione del diritto alla libertà di circolazione delle merci, si v. la decisione la decisione della Corte di Giustizia 24 marzo 2009, nel caso C- 445/06.
[21] Sul punto si rinvia a Cass.20 agosto 2015, n. 16992.
[22] L’affermazione presente nel testo, a ben vedere, non è contraddetta dal fatto che anche in recenti decisioni della Cassazione si continui pur sempre ad affermare l’operatività della responsabilità extracontrattuale in presenza della sola violazione di diritti assoluti: si v. ad es. Cass. 6 luglio 2017 n. 16654 in ordine alla compresenza di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
[23] Sulla distinzione segnalata nel testo si può parlare di un indirizzo consolidato. Ben diverso è viceversa il problema relativo all’onere della prova in ordine al nesso di causalità con riferimento alla distinzione tra responsabilità extracontrattuale e quella contrattuale (su cui v. le recenti decisioni di Cass. 14 novembre 2017 n. 26824 e 26 luglio 2017 n. 18392) in cui si evidenziano le indiscutibili oscillazioni che tuttora caratterizzano le determinazioni della Corte di cassazione: si v. al riguardo i recenti contributi di Pardolesi e Simone, Nesso di causa e responsabilità della struttura sanitaria: indietro tutta! e Tassone, Responsabilità contrattuale e inversione della prova del nesso, entrambi in Danno e responsabilità 2018, pp. 5ss e pp. 14 ss.
A ben vedere la motivazione della sentenza 26 luglio 2017 n. 18392 può considerarsi esemplare circa lo stile dottrinario che è dato riscontrare sempre più di frequente nelle decisioni della Suprema corte . In essa infatti si legge quanto segue: «La causalità relativa all'evento ed al danno consequenziale è comune ad ogni fattispecie di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, e caratterizza negli stessi termini, sia in ambito contrattuale che extracontrattuale, gli oneri di allegazione e di prova del danneggiato. Il danno è elemento costitutivo della fattispecie dedotta in giudizio ed essendo l'eziologia immanente alla nozione di danno anche l'eziologia è parte del fatto costitutivo dedotto che l'attore deve provare. Su questo tronco comune intervengono le peculiarità delle due forme di responsabilità. La responsabilità contrattuale sorge dall'inadempimento di un obbligo, sicché l'attore deve provare la fonte dell'obbligo. La responsabilità extracontrattuale richiede invece, stante la mancanza di un'obbligazione, un criterio di giustificazione, e tali sono il dolo e la colpa, che è pertanto onere dell'attore dimostrare. In base al cd. principio di semplificazione analitica della fattispecie le cause di estinzione dell'obbligazione sono tema di prova della parte debitrice, e fra queste l'impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore (art. 1256 cc), con effetto liberatorio sul piano del risarcimento del danno dovuto per l'inadempimento (art. 1218 cc). Il danneggiante deve dimostrare la causa imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile la prestazione, cioè il caso fortuito (casus = non-culpa). La diligenza non attiene qui all'adempimento, ma alla conservazione della possibilità di adempiere, quale impiego delle cautele necessarie per evitare che la prestazione professionale divenga impossibile, e, riguardando non solo la perizia ma anche la comune diligenza, prescinde dalla diligenza professionale in quanto tale. La non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione va quindi valutata alla stregua della diligenza ordinaria ai sensi dell'art. 1176 cc, comma 1, mentre la diligenza professionale di cui al comma 2, quale misura del contenuto dell'obbligazione, rappresenta il parametro tecnico per valutare se c'è stato l'adempimento (diligenza determinativa del contenuto della prestazione). C'è inadempimento se non è stata rispettata la diligenza di cui all'art. 1176, comma 2, c'è imputabilità della causa di impossibilità della prestazione se non è stata rispettata la diligenza di cui al comma 1. Nel primo caso la diligenza mira a procurare un risultato utile, nel secondo caso mira a prevenire il danno (la distinzione è tuttavia relativa perché l'una può determinare il contenuto dell'altra). La diligenza conservativa della possibilità di adempiere si distingue anche dal neminem ledere. Nel caso di quest'ultimo la negligenza non è violazione di un dovere di comportamento nei confronti di un determinato soggetto ma criterio per attribuire la responsabilità se il danno si verifica, mentre la diligenza che specifica l'obbligazione implica un dovere di adozione di cautele, in termini anche di contegni positivi, per la conservazione della possibilità di adempiere, dovere che vige indipendentemente dalla verificazione del danno e che precede l'adempimento. Il debitore non deve dare causa, con un comportamento negligente, all'impossibilità della prestazione. Non si rimprovera qui al debitore il mancato rispetto della regola (preesistente) di esecuzione esperta della prestazione professionale quale obbligazione di comportamento, ma la scelta di agire in un modo piuttosto che in un altro che sarebbe stato efficace ai fini della prevenzione della causa che ha reso impossibile la prestazione. Tale causa resta non imputabile se non prevedibile ed evitabile. La colpa del debitore risiede non nell'inadempimento, che è fenomeno oggettivo di mancata attuazione di una regola di comportamento (ed in particolare della regola di esecuzione esperta della prestazione professionale), ma nel non aver impedito che una causa, prevedibile ed evitabile, rendesse impossibile la prestazione.
La causa di non imputabilità dell'impossibilità di adempiere è, come si è detto, in quanto ragione di esonero da responsabilità, tema di prova del debitore/danneggiante. Il debitore che alleghi la fattispecie estintiva dell'obbligazione per impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile deve provare sul piano oggettivo il dato naturalistico della causa che ha reso impossibile la prestazione e sul piano soggettivo l'assenza di colpa quanto alla prevenzione della detta causa.
Emerge così un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all'evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto).
Conseguenzialmente la causa incognita resta a carico dell'attore relativamente all'evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell'istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell'impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull'attore o sul convenuto.
Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l'onere di provare che l'inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall'attore, è stato determinato da causa non imputabile. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che la patologia sia riconducibile, ad esempio, all'intervento chirurgico, la struttura sanitaria deve dimostrare che l'intervento ha determinato la patologia per una causa, imprevedibile ed inevitabile, la quale ha reso impossibile l'esecuzione esperta dell'intervento chirurgico medesimo».
[24] Su questa impostazione, a proposito delle cd. cause di giustificazione, ci permettiamo il rinvio a quanto da noi sostenuto in Responsabilità civile cit.. È il caso di rimarcare che il recente avant-project francese di revisione della disciplina codicistica della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, parla, al riguardo, esplicitamente di «causes d’exclusion de responsabilité».
[25] Per una adeguata puntualizzazione in ordine alla compatibilità con l’ordine pubblico di sentenze straniere in materia di danni punitivi, si v. la recente sentenza delle Sezioni unite 5 luglio 2017 n. 16601 al centro di un ampio dibattito tuttora in corso.
[26] Sulla differenza tra la funzione risarcitoria e quella compensativa-satisfattiva si v. le puntualizzazioni contenute nella pronuncia recente di Cass.7 luglio 2016 n.20206.
[27] Si v. al riguardo l’art. 125 del d.lgs 10 febbraio 2005 n.30 nonché l’art.5 del d. lgs 16 marzo 2006, n. 140.
[28] L’orientamento segnalato nel testo è stato superato a partire dalla decisione di Cass. 24 giugno 2006 n.6572 con specifico riferimento a fattispecie relative tanto al risarcimento del danno patrimoniale quanto di quello non patrimoniale.
[29] Al riguardo si v. Cass.24 novembre 2016 n. 24029.
[30] In questa medesima prospettiva, volta a marcare il rilievo della presenza dell’atto illecito in senso stretto come sufficiente a evidenziare implicitamente la presenza del danno, nel segno di una contiguità e se non continuità tra danno evento e danno conseguenza, può d’altro canto leggersi il dibattito che si è aperto a proposito del cd. danno tanatologico. Al riguardo, prima ancora di richiamare la soluzione conforme alla tradizione ribadita dalla Cassazione nella pronuncia delle Sezioni unite 22 luglio 2015 n. 15350, è sufficiente qui riprendere la considerazione, avanzata dal relatore Mengoni nella sentenza della Corte costituzionale n.372 del 1994 secondo il quale «L'ostacolo a riconoscere ai congiunti un diritto di risarcimento in qualità di eredi non proviene dunque, come pensa il giudice a quo, dal carattere patrimoniale dei danni risarcibili ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., bensì da un limite strutturale della responsabilità civile: limite afferente sia all'oggetto del risarcimento, che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, sia alla liquidazione del danno, che non può riferirsi se non a perdite. A questo limite soggiace anche la tutela risarcitoria del diritto alla salute, con la peculiarità che essa deve essere ammessa, per precetto costituzionale, indipendentemente dalla dimostrazione di perdite patrimoniali, oggetto del risarcimento essendo la diminuzione o la privazione di valori della persona inerenti al bene protetto». Sull’indirizzo confermato dalle Sezioni unite nella decisione n.15350 si è sviluppato un ampio dibattito: ex multis si v. E. Navarretta, La “vera” giustizia e il “giusto” responso delle S.U. sul danno tanatologico iure hereditario, in Resp. civ. prev. 2015, pp. 144 ss.
[31] Tra le più recenti pronunce si v. Cass.13 ottobre 2017 n. 24071 e Cass.12 luglio 2016, n. 14188. È il caso di osservare che in queste pronunce la Corte parla esplicitamente e correttamente di obblighi di protezione come distinti e diversi dagli obblighi di prestazione, abbandonando la formulazione “obbligazioni senza prestazione”, originariamente accolta da Cass. 22 gennaio 1999 n.589, e prospettata dalla dottrina italiana, in particolare da Castronovo, L'obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto in Scritti in onore di L. Mengoni, Giuffrè, Milano, 1995, I, pp. 148 ss. e successivamente Ritorno all'obbligazione senza prestazione, in Europa e diritto privato 2009, pp. 679ss: formula questa, oltremodo discutibile a nostro avviso, in quanto chiaramente in conflitto con l’art. 1174 cod. civ. e con la tradizionale distinzione tra obbligo e obbligazione.
[32] Sul punto è d’obbligo il confronto con la lettura proposta da Irti, Un diritto incalcolabile, Giappichelli, Torino 2016.