Pubblico ministero e giurisdizione nelle indagini e nell’esercizio dell’azione penale:
il punto di vista del giudice per le indagini preliminari
Il pubblico ministero è il dominus quasi assoluto della fase delle indagini preliminari; è sufficiente l’attuale controllo giurisdizionale?
A fronte della difficoltà strutturale per il giudice per le indagini preliminari - con esempi concreti di conflitto con il pubblico ministero - di rimanere davvero arbiter di una fase di cui non è padrone, ci si chiede se un potere di intervento sui diritti così incisivo possa essere affidato ad un soggetto sganciato dalla giurisdizione.
È il giudice “dirimpettaio”, come va di moda dire ultimamente: il primo interfaccia del pubblico ministero quando questi non è ancora una parte processuale in senso stretto, quando è il dominus indiscusso della situazione, nella fase delle indagini insomma. È il giudice per le indagini preliminari, quello accusato di essere massimamente appiattito sulle posizioni del pubblico ministero.
A chi oggi – sulla scorta di questo assioma – torna a parlare di separazione delle carriere, rivendicandola come presupposto indispensabile al principio di parità delle parti e dunque, in definitiva, dell’equo processo, occorre allora muovere alcuni rilievi.
Come noto, nella fase delle indagini preliminari l’intervento giurisdizionale è previsto a spot, quando più serio è il rischio di compressione dei diritti costituzionali. Il legislatore del 1988 ha previsto infatti un intervento ad acta del giudice per le indagini preliminari proprio per salvaguardarne la terzietà, distinguendolo così in modo netto dal vecchio giudice istruttore. La Suprema corte ricorda infatti che in questa fase «il giudice è inserito come soggetto terzo regolatore delle situazioni di frizione di interessi o di compromissione di diritti fondamentali», sottolineando che «non deve essere disperso il cospicuo guadagno, in termini di giusto processo, veniente dalla felice intuizione del legislatore del nuovo codice di procedura penale quanto a costituzione di un giudice terzo estraneo all'investigazione ma garante di legittimità verso le parti, a richiesta delle quali interviene regolando la situazione che ne ha determinato l'intervento senza coinvolgimento di alcun genere nella diatriba procedimentale»[1].
Secondo alcuni[2] altre “finestre giurisdizionali” potrebbero essere individuate, estendendo così l’intervento del giudice a maggior garanzia dei diritti della difesa, nell’idea – evidentemente – che il pubblico ministero non li tuteli a sufficienza.
In una serie di snodi fondamentali propri di questa fase, tuttavia, non vi è spazio per l’intervento del giudice: qui il pubblico ministero non è ancora una parte processuale, ma sovrintende per l’intero al regolare svolgersi del procedimento e “dirige le indagini” (art. 327 cpp).
Si pensi alla prima iscrizione della notizia di reato ma anche a quella, eventualmente successiva, del nome dell’indagato (art. 335 cpp)[3], all’indirizzo da dare alla polizia giudiziaria, alla decisione se estendere o restringere il campo delle indagini, al modo e al mezzo scelto per l’esercizio dell’azione penale, alla decisione di richiedere la convalida dell’arresto dell’indagato in vinculis o di liberarlo immediatamente ed ad una serie di altri passaggi apparentemente secondari ma in effetti fondamentali.
Si tratta di scelte determinanti per il prosieguo del procedimento, che ricadono nella esclusiva responsabilità del pubblico ministero. È infatti del tutto ovvio che la qualità, l’effettività e l’efficacia della risposta giudiziale risentono moltissimo della qualificazione giuridica che sin dall’inizio viene data alle notizie di reato che pervengono in Procura, della modalità con cui viene raccolto il materiale nell’ottica della futura utilizzabilità processuale, della decisione se estendere o meno il perimetro delle indagini, della scelta dello strumento utilizzato per l’instaurazione del processo.
E, d’altronde, non credo ci siano alternative di sorta al riconoscere un ruolo primario al pubblico ministero nella prima fase procedimentale, pena davvero il ritorno – credo non auspicato – al vecchio giudice istruttore, che oggi si porrebbe in netto contrasto con l’art. 111 Cost..
È dunque essenziale che anche questi passaggi siano governati da un soggetto, un magistrato, che sia cresciuto e rimanga ancorato alla cultura della giurisdizione, perché proprio in questa fase – la meno garantita – l’obiettivo deve essere quello del perseguimento della giustizia e non quello di assicurare così un “risultato”. Il pubblico ministero oggi deve agire «per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale» di trovare un colpevole a tutti i costi.
Davvero, allora, ci sentiremmo, come cittadini, più garantiti dall’affidare gli snodi fondamentali delle indagini nelle mani di una sorta di “avvocato della polizia”[4]?
Solo, infatti, un pubblico ministero che sia sufficientemente autonomo anche dalle aspettative della polizia giudiziaria sarà in grado di svolgere anche «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini», come impone l’art. 358 cpp, di distinguere il ruolo dei singoli nelle vicende complesse, di coltivare il dubbio nella valutazione degli elementi raccolti.
Solo, in definitiva, un pubblico ministero autorevole ed indipendente potrà assicurare l’autorevolezza e l’indipendenza del giudice, che sul fascicolo formato dal pubblico ministero si troverà a lavorare.
Perché questo è il punto: c’è chi parla di un “giudice debole”, schiacciato sulle posizioni del pubblico ministero.
Certo, la neghittosità può indurre il giudice a sposare acriticamente la tesi dell’accusa e a questo può solo rispondersi con il massimo rigore in sede di valutazioni di professionalità.
È però un fatto che il giudice per le indagini preliminari valuta in questa fase sempre e quasi solo il materiale che gli viene messo a disposizione dal pubblico ministero, che è tenuto ad operare una prima cernita e valutazione ragionata di quanto raccolto durante le indagini.
È dunque fisiologico che, operando di consueto inaudita altera parte e senza poteri integrativi, il giudice per le indagini preliminari sia indotto ad una lettura conforme a quella suggerita dal pubblico ministero, salva però la verifica della sua tenuta in caso di successiva instaurazione del contraddittorio. Così è nel caso delle richieste cautelari personali, in cui l’interrogatorio di garanzia impone un primo vaglio anche delle diverse argomentazioni difensive, o delle istanze ex art. 299 cpp, o delle richieste di proroga indagini, o delle richieste di archiviazione, almeno ove vi sia l’opposizione della persona offesa.
Occorre allora garantire al giudice il tempo e le risorse necessarie per una analisi serena e ponderata delle istanze delle parti.
Vanno perciò combattute in ogni modo alcune pratiche distorte tese a “forzare” il giudice per le indagini preliminari nei tempi e nelle valutazioni, finendo per svilire le garanzie che il controllo giurisdizionale dovrebbe invece tutelare.
Capita, ad esempio, di ricevere richieste di proroga del termine delle indagini supportate da pochissimi atti, del tutto inidonei a compiere un serio vaglio dei presupposti, che costringono il giudice a defatiganti richieste di integrazione.
Capita di ricevere decreti di fermo di migliaia di pagine da convalidare in 48 ore, emessi da alcune Procure del sud nell’evidente tentativo di evitare il “tappo” costituito dai tempi – divenuti patologici – di Uffici Gip sottodimensionati e da tempo in evidentissimo ed inevitabile affanno nell’emissione delle ordinanze cautelari.
Capita, ancora, di incamerare richieste di convalida di decreti di intercettazione emessi dal pubblico ministero in casi in cui l’urgenza risulta molto discutibile.
Si tratta di prassi viziose, tese a bypassare i problemi anziché risolversi mediante adeguati aumenti di organico e dotazioni di ulteriori risorse, contro cui occorre evidentemente reagire.
In generale, da esse traspare l’insofferenza per il controllo giurisdizionale, quasi fossero forche caudine attraverso cui passare più in fretta possibile, sperando di uscirne incolumi.
Si nota la stessa insofferenza del pubblico ministero nei casi in cui il giudice per le indagini preliminari, a fronte di una richiesta di archiviazione, indica ulteriori indagini o, peggio, dispone l’imputazione coatta ex art. 409 cpp; di solito si traducono in fascicoli “suicidi”, con dispendio di energie e risultati nulli.
L’esperienza quotidiana induce insomma a negare radicalmente l’esistenza di un “rapporto di collaborazione” in senso stretto fra giudice per le indagini preliminari e pubblico ministero: lo stesso codice di rito disegna una relazione di tipo diverso, che accentua evidentemente le occasioni di contrasto, a prescindere dalla colleganza o dal comune reclutamento.
Né argomenti a contrario possono ovviamente essere tratti dal dato relativo alla percentuale di condanne in abbreviato davanti al giudice dell’udienza preliminare, visto che fisiologicamente sono destinati ad essere definiti con rito alternativo proprio i processi in cui più solido è il materiale probatorio raccolto in fase di indagini.
Il rispetto dei ruoli e dei compiti di ciascuno fonda così la stessa possibilità di un esercizio serio ed effettivo del controllo giurisdizionale, mentre il quadro tracciato dal “Comitato promotore per la separazione delle carriere nella magistratura” nei propri documenti[5] appare disancorato dalla realtà che quotidianamente osserviamo negli uffici giudiziari.
Gli ostacoli frapposti dal 2006 alla trasmigrazione da una funzione all’altra[6], anzi, hanno fatto sì che, dopo circa dieci anni di applicazione, l’uno guardi con sospetto e quasi con fastidio l’operato dell’altro, anziché vivere come fisiologica la differenza di ruolo: il pubblico ministero “soffre” gli ostacoli a volte frapposti dal giudice per le indagini preliminari che rigetta una sua richiesta, il giudice per le indagini preliminari mal tollera il pubblico ministero recalcitrante alle indicazioni inserite nelle proprie ordinanze.
Si tratta invece di procedere in un’unica direzione che, per entrambi, dovrebbe essere sempre e solo – per quanto possibile – l’accertamento della verità nel pieno rispetto dei diritti costituzionali dell’indagato prima e dell’imputato poi.
Per fare ciò, non solo è indispensabile che pubblico ministero e giudice continuino ad essere reclutati con il medesimo concorso e svolgano insieme la prima parte del tirocinio (cd. “generico”), ma emergono con sempre maggiore evidenza i benefici della contaminazione e della osmosi[7] fra le funzioni, tanto che appare auspicabile tornare a facilitare il passaggio dall’una all’altra.
Analoghi benefici porta d’altronde anche il passaggio dal libero foro all’ordine giudiziario: il tanto vituperato concorso di secondo livello per l’accesso alla magistratura ha infatti oggi comportato – come corollario – l’ingresso di moltissimi avvocati con già qualche anno di esperienza all’attivo, senza che mai alcuno abbia dubitato della loro successiva capacità di essere imparziali. La precedente esperienza come difensori, al contrario, li rende particolarmente sensibili e attenti anche ad aspetti apparentemente secondari della professione.
La progressiva estensione di momenti di formazione comune con il foro (a livello territoriale ma – sia pure in modo più limitato – anche a livello centrale) evidenzia poi gli effetti benefici della contaminazione culturale, pur nel rispetto dei ruoli.
È una strada che va perseguita con sempre maggior convinzione, come salutare risulta ogni occasione di dibattito e confronto culturale.
Formazione comune induce, a cascata, una più naturale condivisione di obiettivi e di metodi in termini di effettività e trasparenza della risposta giudiziaria fuori da dogmi e infingimenti.
E così anche la creazione di tavoli di lavoro congiunti, di individuazione di prassi condivise, di redazione di protocolli di intesa, spesso estesa alla partecipazione di rappresentanti del Foro locale, costituiscono una realtà sempre più diffusa in molti distretti; l’esperienza milanese al riguardo ha dato e continua a dare risultati assai gratificanti per tutti quelli che vi hanno preso parte in vari ambiti.
Al momento dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito, d’altronde, lo stesso legislatore si era preoccupato di istituzionalizzare periodici momenti di confronto fra i protagonisti della giurisdizione, coinvolgendo non solo i dirigenti degli uffici giudicanti e requirenti, ma anche i rappresentanti dell’avvocatura[8] e il personale amministrativo.
Neppure è possibile leggere come impropria contiguità i recenti tentativi – suggeriti dallo stesso Csm[9] - tesi alla individuazione concordata di criteri di priorità nella trattazione del procedimenti ex art. 132bis disp. att. cpp fra Procure e Tribunali; si tratta infatti di meri provvedimenti di “condivisione organizzativa” tesi a non disperdere le sempre scarse risorse disponibili e, come ricorda il Consiglio, ad inverare i canoni di buona amministrazione dettati dall’art. 97 Cost.
Non dalla separazione, dunque, possono nascere frutti virtuosi, ma solo dalla costruzione di modelli comuni a tutti gli operatori sin dalla fase delle indagini; l’idea che l’indipendenza del giudice possa essere salvaguardata solo considerando quest’ultimo una turris eburnea appartiene al passato e rischia di tradursi di fatto in un alibi per sottrarsi alla corresponsabilità che deve legare tutti gli attori del processo che – ciascuno con il proprio ruolo – devono invece muovere verso un unico, condiviso obiettivo.
[1] Così Cass. sez. IV, 28 settembre 2001, Patruno, RV 219881.
[2] Si veda la relazione del Presidente Giovanni Canzio all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 in Cassazione (Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2016, Roma, 2017); la proposta è stata fatta propria da Giorgio Spangher in una recente intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio il 28 novembre 2017.
[3] Le Sezioni unite hanno infatti escluso che il giudice per le indagini preliminari possa sindacare la tempestività dell’iscrizione della notizia di reato (cfr. Cass. sez. un., 24 settembre 2009, Lattanzi, in Cass. pen., 2010, 503).
[4] Perché, come ricorda Giuliano Scarselli, «se il pubblico ministero esce dalla giurisdizione, inevitabilmente entra nell’amministrazione» – v. la nota di G. Scarselli, Contro la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, pubblicato sulla rivista on line Judicium (Pacini Giuridica) il 9 novembre 2017.
[5] V. in particolare il documento che accompagna la raccolta di firme per la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, reperibile sul sito www.separazionedellecarriere.it.
[6] Ostacoli tali da rendere oggi di fatto eccezionale il passaggio – si vedano al riguardo i puntuali dati citati da A. Spataro in La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica e inutile pubblicato in www.giustiziainsieme.it il 24 dicembre 2017.
[7] Si veda al riguardo il bel documento del Coordinamento nazionale di AreaDg del 10 ottobre 2017 dal titolo Osmosi delle funzioni. Per avere un pubblico ministero forte, equilibrato, efficace ed indipendente, www.areadg.it/comunicato/osmosi-delle-funzioni.
[8] Ci si riferisce alle riunioni periodiche previste dall’art. 15 d.lgs n. 273 del 28 luglio 1989.
[9] V. da ultimo Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari – rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti (Risposta a quesito dell’11 maggio 2016), che esplicitamente invitano ad un concerto fra i due uffici.