Magistratura democratica

Contro la demonizzazione dei magistrati fuori ruolo

di Claudio Castelli

È in corso un’ingiusta demonizzazione dei magistrati fuori ruolo. Quanto ai magistrati ordinari, si tratta di 80 impegnati presso il Ministero della giustizia, 33 in altri Ministeri ed enti e 28 in incarichi internazionali (spesso direttamente giurisdizionali). Il numero non giustifica le aspre polemiche in corso e una legge delega che sul tema è estremamente penalizzante, in quanto prevede una drastica riduzione del numero massimo di magistrati che possono essere collocati fuori ruolo e ostacoli e trattamenti deteriori quando rientrano in ruolo. Non si affronta in tal modo il problema di fondo, che porta all’utilizzo anche in ruoli amministrativi delle varie magistrature, ovvero la debolezza della dirigenza pubblica. Il problema da risolvere è quello di rilanciare e rafforzare una dirigenza pubblica formata, qualificata, autonoma ed efficiente.

1. Polemiche strumentali e realtà / 2. Indennità e retribuzioni dei magistrati fuori ruolo / 3. La legge delega in materia di ordinamento giudiziario sul collocamento fuori ruolo / 4. La legge delega in materia di ordinamento giudiziario sul ricollocamento in ruolo / 5. La crisi della dirigenza pubblica 

 

1. Polemiche strumentali e realtà

È in corso una vera e propria demonizzazione dei magistrati fuori ruolo accusati delle più varie nefandezze. Al luogo comune, diffuso anche in magistratura, che li vede come privilegiati che fuggono dalla giurisdizione per avere laute prebende e per lavorare poco, si uniscono accuse che, francamente, non si possono definire che come infamanti. Sarebbero il braccio armato della magistratura nei ministeri, che in tal modo imporrebbe a un Parlamento evidentemente inconsapevole opzioni gradite alla magistratura. Accuse che a mio avviso è giusto definire infamanti perché pensare che dei tecnici di alto livello, quali i magistrati distaccati presso i ministeri, possano torcere la loro funzione a fini di parte, violando l’elementare lealtà istituzionale, non vedo come possa essere definito altrimenti.

E allora, per evitare luoghi comuni e campagne propagandistiche e arrivare a proposte che possano rendere migliore e più razionale l’attività della magistratura e dei ministeri, occorre partire dalla realtà e cominciare da numeri e fatti. Dall’ultimo censimento (30 aprile 2021) effettuato dal Csm sui magistrati ordinari fuori ruolo, tolti i ruoli elettivi (16 componenti del Csm e 4 parlamentari), ne risultano 42 impegnati presso organi costituzionali (Csm, Corte costituzionale e Presidenza della Repubblica, tra cui 2 giudici costituzionali) e 161 in altri incarichi, di cui ben 28 con incarichi internazionali (spesso direttamente giurisdizionali), 80 presso il Ministero della giustizia e i restanti presso altri ministeri e organi.

Un numero che, onestamente, non mi sembra eccessivo, dovendosi tra l’altro ritenere che gli incarichi internazionali non solo non sono comprimibili, ma sono essenziali e, fortunatamente, in costante espansione per lo sviluppo sia dell’attività giurisdizionale transnazionale sia di più ampi momenti di collegamento e coordinamento con le giurisdizioni di altri Paesi.

Il numero residuo di 133 è meno della metà di un concorso di magistrati e non è, quindi, sicuramente decisivo ai fini della copertura degli organici. 

Si lamenta che circa 200 magistrati ordinari (il limite è dato dalla legge) siano impegnati in vari incarichi fuori ruolo. Va subito detto che non è con il loro rientro nei ranghi della magistratura che si migliorerebbero in modo significativo le performance degli uffici giudiziari, trattandosi di una percentuale irrisoria (meno del 2%) e dovendosi sopperire alle scoperture di organico (oggi del 15%) con il bando di concorsi almeno annuali, oltre che con una formazione dedicata, che consenta un più ampio reclutamento.

Suona, poi, davvero incredibile che chi più di altri si lamenta per l’eccessivo numero di magistrati fuori ruolo siano gli stessi che per anni hanno bloccato i concorsi di magistratura, riducendo il reclutamento fisiologico. Se si vogliono coprire gli organici, cosa assolutamente doverosa, anche per il recente aumento degli organici della magistratura, occorre procedere con i concorsi, eventualmente com’era stato fatto nel lontano 1991, bandendo più concorsi lo stesso anno. Concorsi che, anche grazie alla nuova recente esperienza che migliaia di giovani laureati stanno facendo nell’ufficio per il processo, nel prossimo periodo dovrebbero consentire un reclutamento pieno rispondente al numero dei posti banditi.

Si dimentica che la normativa già oggi esistente è molto restrittiva, segnando sia un tetto massimo di magistrati ordinari fuori ruolo, sia un periodo massimo (10 anni) di permanenza fuori dal ruolo della magistratura, sia un minimo di anzianità per accedervi. Disciplina complessivamente equilibrata, sia per limitare le posizioni fuori ruolo ad attività funzionali per la giurisdizione, sia per far sì che l’attività fuori ruolo sia una parentesi, formativa e di enorme interesse e rilevanza, ma pur sempre parentesi, nella vita professionale di un magistrato. Del resto, qualora il magistrato ritenga che la nuova attività possa essere più adatta alle sue capacità, può sempre chiedere (come già avvenuto) – sempre che sussistano i requisiti – il passaggio ai ruoli della dirigenza pubblica.

 

2. Indennità e retribuzioni dei magistrati fuori ruolo

Anche quanto alle retribuzioni, le notizie che circolano e che parlano di “doppi stipendi” non rispondono al vero. È innanzitutto sbagliato pensare che tutti i magistrati fuori ruolo percepiscano le medesime indennità. Normalmente, ricevono la stessa retribuzione che avevano in precedenza, corrispondente alla valutazione di professionalità conseguita. Ai magistrati che ricoprono incarichi di capo dipartimento, capo gabinetto, capo ufficio legislativo, capo dell’ispettorato, capo della segreteria del ministro, vicecapo e direttore generale (complessivamente, poco più di venti persone) è data l’opzione tra conservare il proprio trattamento economico con un’indennità pari al 25% della retribuzione in godimento e percepire un trattamento economico complessivo per l’incarico ricoperto di euro 240.000 annui lordi per i capi, 190.000 annui lordi per i vicecapi dipartimento, 180.000 annui lordi per gli altri vicecapi e per i direttori generali, 160.000 annui lordi per i provveditori generali penitenziari[1]. Trattamento economico che, in nessun caso, può superare i 240.000 euro[2] e che cessa nello stesso momento in cui finisce l’incarico. Nulla viene riconosciuto di rimborso spese per trasferimento, nuova abitazione o altro. Gli altri magistrati impegnati presso il Ministero percepiscono una modesta indennità limitatamente agli uffici di diretta collaborazione (gabinetto, ufficio legislativo, ispettorato). Gli addetti ad altre funzioni mantengono l’originario trattamento economico senza alcuna integrazione, né rimborso spese. Ciò spiega le ragioni per cui si tratta di incarichi ambiti in principalità da magistrati romani o che intendano stabilirsi con continuità a Roma.

L’emolumento accessorio è stato creato per i magistrati e i dirigenti generali penitenziari[3] proprio per perequarli ai dirigenti contrattualizzati, i cui emolumenti sarebbero risultati superiori rispetto ai primi che avessero optato per il mantenimento del proprio trattamento economico. A tal fine, è stato introdotto un fondo per il trattamento accessorio dei dirigenti generali con il fine di evitare trattamenti differenziati a fronte di funzioni assimilabili. Un vantaggio, quindi, ma limitato a pochissime figure tra i magistrati ordinari (complessivamente, nel Ministero della giustizia, tra 10 e 15 magistrati ordinari, e meno di 10 negli altri ministeri) e comunque sempre contenuto dal tetto massimo previsto dalla legge.

Proprio al fine di troncare sul nascere false affermazioni su “doppi stipendi” e “retribuzioni milionarie”, sarebbe comunque quanto mai opportuna una totale trasparenza, indicando sui siti ministeriali retribuzioni e indennità percepite da ciascuno. 

 

3. La legge delega in materia di ordinamento giudiziario sul collocamento fuori ruolo

La recente legge delega sull’ordinamento giudiziario del 17 giugno 2022, n. 71, che probabilmente non vedrà la sua attuazione con i decreti legislativi, risponde ai luoghi comuni penalizzanti che vedono in modo sostanzialmente negativo l’esperienza del magistrato fuori ruolo. 

Il suo taglio è sostanzialmente restrittivo. Da un lato, riprende e ripete alcune acquisizioni già presenti nelle circolari del Csm e già applicate, anche se la novità consiste nella loro estensione ai magistrati amministrativi e contabili. All’art. 5 vengono riaffermati una serie di principi in larga parte condivisibili:

– individuare le tipologie di incarichi da esercitare esclusivamente con contestuale collocamento fuori ruolo (lett. a);

– prevedere che il collocamento fuori ruolo possa essere autorizzato solo se corrisponde a un interesse dell’amministrazione di appartenenza, valutando le possibili ricadute sotto i profili dell’imparzialità e dell’indipendenza (lett. c);

– la valutazione della sussistenza dell’interesse sulla base di criteri oggettivi che tengano conto anche dell’esigenza di distinguere, in ordine di rilevanza: gli incarichi che la legge affida esclusivamente a magistrati; gli incarichi di natura giurisdizionale presso organismi internazionali e sovranazionali; gli incarichi presso organi costituzionali; gli incarichi presso organi di rilevanza costituzionale; gli incarichi non giurisdizionali apicali e di diretta collaborazione presso istituzioni nazionali o internazionali; gli altri incarichi (lett. d);

– il minimo di anzianità di servizio di dieci anni per essere collocati fuori ruolo (lett. f);

– i limiti temporali di sette anni e massimo dieci anni di permanenza fuori ruolo (lett. g) e il lasso di tempo che deve trascorrere tra un incarico fuori ruolo di durata congrua, almeno cinque anni, e un eventuale successivo incarico (lett. e).

Ma l’immagine negativa del magistrato fuori ruolo viene ribadita, sempre all’art. 5, nella lett. h che, in omaggio al dominante clima di sospetto e penalizzazione, prevede la necessità di «ridurre il numero massimo di magistrati che possono essere collocati fuori ruolo, sia in termini assoluti che in relazione alle diverse tipologie di incarico che saranno censite, prevedendo la possibilità di collocamento fuori ruolo dei magistrati per la sola copertura di incarichi rispetto ai quali risultino necessari un elevato grado di preparazione in materie giuridiche o l’esperienza pratica maturata nell’esercizio dell’attività giudiziaria o una particolare conoscenza dell’organizzazione giudiziaria; individuare tassativamente le fattispecie cui tale limite non si applica».

Invece, elemento positivo che coglie i profondi mutamenti in atto e le nuove prospettive a livello transnazionale è la differenziazione che viene operata per gli incarichi fuori ruolo svolti in ambito internazionale, per cui viene prevista una regolamentazione autonoma (lett. i).

Questi incarichi, definiti come “fuori ruolo”, in realtà sono direttamente giurisdizionali o di supporto alla giurisdizione (con un’attività svolta presso corti internazionali o di collegamento con altri Paesi o con istituzioni internazionali). Il fatto che questi incarichi, in costante aumento, data la crescente integrazione a livello europeo e internazionale, direttamente giurisdizionali o fondamentali per la giurisdizione, siano definiti fuori ruolo dipende unicamente dalla necessità amministrativa e di bilancio di definire un numero massimo che non può essere oltrepassato di magistrati che devono essere pagati, ma non ha nulla a che fare con il tipo di attività svolta dai magistrati a ciò destinati, che resta giurisdizionale o di immediato supporto alla giurisdizione (si parla dei magistrati destinati alle diverse corti internazionali, a Eurojust, alla Procura europea, oltre che i magistrati di collegamento, in costante aumento, con diversi Paesi e con organismi sovranazionali). Così, pare evidente come sia inevitabile che siano magistrati coloro che si occupano, nel Ministero della giustizia, dei rapporti internazionali – estradizioni, rogatorie, mandati internazionali – proprio per la specifica competenza.

Se da una parte continua il refrain della riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo, dall’altra si pongono ostacoli e trattamenti deteriori ai magistrati fuori ruolo quando rientrano in ruolo. 

 

4. La legge delega in materia di ordinamento giudiziario sul ricollocamento in ruolo

Un’ulteriore penalizzazione viene attuata con la disciplina di ricollocamento in ruolo, una volta cessato l’incarico, sia pure limitata agli incarichi apicali, quelli definiti come incarichi politico-amministrativi apicali a livello nazionale o regionale ed incarichi di governo non elettivi. Tale normativa (art. 20) riguarda unicamente i ruoli di segretario generale, capo e vicecapo dell’ufficio di gabinetto, capo e vicecapo dei dipartimenti presso la Presidenza del Consiglio, presso i ministeri, i consigli e le giunte regionali, trattandosi di ruoli o di diretta collaborazione con l’autorità politica o di raccordo tra la politica e l’amministrazione. Correttamente, non vi rientrano invece le posizioni di direttore generale, in quanto prettamente amministrative.

Il provvedimento, al comma 1, prevede due alternative: il collocamento per un anno in posizione di fuori ruolo, in un ruolo non apicale (trascorso l’anno, il magistrato potrà tornare a svolgere le funzioni giudiziarie, ma non potrà per i tre anni successivi assumere incarichi direttivi o semidirettivi), oppure il ricollocamento in ruolo e la destinazione a incarichi non direttamente giurisdizionali, individuati dagli organi di autogoverno (dovrebbe trattarsi del Massimario), salvo che l’incarico abbia avuto una durata inferiore all’anno (art. 20, comma 4).

Ne consegue che, invece di cercare di selezionare per queste posizioni le migliori capacità, indipendentemente dal ruolo di provenienza, nel futuro accederanno ragionevolmente a questi incarichi apicali unicamente magistrati con prospettive di prossimo pensionamento o dirigenti amministrativi.

Se si vogliono abbandonare i luoghi comuni e arrivare a proposte equilibrate, viene a esser necessario differenziare tra i diversi incarichi ricoperti dai magistrati fuori ruolo e cominciare ad affrontare con serietà il problema che è a monte dall’impegno necessitato di tanti magistrati (non solo ordinari, ma ancor più amministrativi e contabili) in ministeri e altre autorità, ovvero la crisi della dirigenza pubblica.

 

5. La crisi della dirigenza pubblica

La debolezza della dirigenza pubblica porta a ricorrere ai magistrati anche per ruoli che potrebbero essere svolti da una dirigenza amministrativa forte. Non è un problema di privilegiare i magistrati rispetto ad altre figure, ma di arrivare a una dirigenza pubblica formata e qualificata.

Difatti, uno dei problemi italiani è l’assenza di una dirigenza pubblica dotata di autorevolezza e prestigio, che possa essere – ed essere vissuta – come la spina dorsale dell’amministrazione. I vari interventi riformatori avutisi si sono mossi nella direzione del rafforzamento dei poteri dei dirigenti pubblici e dell’emancipazione degli stessi dalla tradizionale dipendenza gerarchica dal potere politico, con forme di valutazione del loro operato e un nuovo modello di responsabilità del ruolo dirigenziale connessa alla validità e all’efficienza dell’attività gestionale svolta. Questa direzione, del tutto apprezzabile, è il frutto di plurimi interventi normativi, a volte contraddittori, ma è riuscita solo parzialmente a produrre una dirigenza pubblica forte, autonoma dalla politica (cui spetterebbe un potere di indirizzo e controllo), non più soggetta a controlli gerarchici.

Questo anche per la mancanza, in Italia, di una Scuola della pubblica amministrazione paragonabile a quel momento di vera e propria formazione della classe dirigente che è l’École nationale d’administration in Francia.

Problemi che sono, poi, particolarmente vividi in settori in cui la dirigenza amministrativa deve confrontarsi e coesistere con dirigenze che sono espressione di professioni in ambito altamente tecnico (militari, ambasciatori, magistrati). 

Nel Ministero della giustizia vi sono attività in cui viene ad essere necessaria una specifica esperienza e competenza giuridica, quale l’ufficio legislativo, che potrebbe essere ricoperto non solo da magistrati, ma anche da professori universitari e avvocati. Essenziale viene ad essere non solo il sapere giuridico, ma la concreta esperienza nei palazzi di giustizia, proprio per avere norme che tengano conto della valutazione di impatto che queste possono avere e del loro effetto, una volta applicate e messe sul terreno – esperienza che spesso manca ai professori universitari “puri” (la cui scelta, peraltro, apprezzo profondamente). Ovviamente, non può esservi alcuna preclusione alla destinazione di avvocati e professori universitari a incarichi ministeriali, del resto già presenti, sia pure con numeri limitati, ma si trascura che proprio la diversa strutturazione delle professioni porta a disincentivare avvocati e professori universitari ad ambire a tali incarichi. Per un avvocato, accettare un tale ruolo, la cui durata è incerta essendo legata alla permanenza del Governo, vuol dire chiudere lo studio – una scelta non conveniente, specie se si tratta di professionisti affermati. Per un professore, significa interrompere una carriera con conseguenze che possono essere deteriori. Del resto, proprio quando mi trovavo al Ministero, venne a chiedermi informazioni un valente giovane avvocato cui era stato offerto dal Ministro un posto di vicecapo di gabinetto. Una volta capita non solo l’incompatibilità con la professione, ma il blocco che la sua carriera avrebbe incontrato, decise di rinunciare, dando la disponibilità solo a incarichi di collaborazione o consulenza.

Altri settori richiedono una competenza di magistrati, dirigenti amministrativi o altro personale come l’ispettorato e il vasto mondo penitenziario. Si tratta di competenze tutte necessarie, che devono essere utilizzate in sinergia e in cui l’unico criterio per scegliere i vari incarichi apicali dev’essere la competenza, l’attitudine e la conoscenza sul campo delle problematiche e della specificità del mondo della giustizia.

Quello che deve contare è la competenza, non il ruolo, e proprio per questo occorre superare logiche di categoria che, specie all’inizio, hanno “avvelenato” i rapporti tra magistrati e dirigenti amministrativi. Nel settore giudiziario la ripartizione di competenze è stata disciplinata con il d.lgs 25 luglio 2006, n. 240, le cui previsioni, pur in molti punti ambigue e del tutto insoddisfacenti[4], hanno comunque retto a questi oltre quindici anni di applicazione. In primis, il ruolo dei dirigenti amministrativi, prima osteggiato, è oggi riconosciuto come indispensabile dai magistrati ed anzi è invocato in tutti i molteplici casi in cui il posto di dirigente risulti vacante. Permangono ambiguità e problemi che non possono essere ignorati, derivanti dal solipsismo di alcuni capi di ufficio magistrati e dalla timidezza che, troppo spesso, la dirigenza amministrativa ha manifestato: anche se il magistrato capo dell’ufficio ha la titolarità e la rappresentanza dell’ufficio giudiziario, la ripartizione di compiti, con esclusività di alcuni in capo al dirigente amministrativo, in un quadro di integrazione delle competenze, può consentire – e in molti casi ha consentito – collaborazioni eccellenti con relativi risultati.

Ma, al di là di precisazioni normative che devono valorizzare la dirigenza pubblica, mettendo fine alle continue proposte di creare un court manager[5], che ignorano esistenza e ruolo dei nostri dirigenti amministrativi, il primo problema da affrontare che potrebbe dare una seria risposta alla necessità di qualità e preparazione di chi ha oneri di direzione e organizzazione degli uffici giudiziari è quello della formazione iniziale e permanente, che esiste sia per i dirigenti magistrati, sia per i dirigenti amministrativi. Formazione che non può limitarsi a qualche giornata o sessione.

Se riteniamo che il numero dei magistrati fuori ruolo sia eccessivo (di tutti, non solo dei magistrati ordinari), l’unico rimedio è costituire una direzione pubblica forte, autonoma ed efficiente. Questo vuol dire formazione e, per quello che riguarda lo specifico della giustizia, l’inveramento di quel rapporto di direzione integrata che la normativa prevede e che, dove è stata realizzata, ha portato ad ottimi risultati. Questo vuol dire, in primis, che abbiamo bisogno di dirigenti amministrativi, oggi scandalosamente sotto organico, ma poi che la formazione iniziale e permanente di dirigenti amministrativi, aspiranti dirigenti magistrati e dirigenti magistrati deve essere comune, sia per superare nello stesso crogiolo formativo diffidenze e incomprensioni, sia per diffondere la specificità della cultura dell’organizzazione indispensabile in un ufficio giudiziario. Questo porterà inevitabilmente a un rafforzamento di tutti, a una presenza più ampia e qualificata della dirigenza amministrativa nei ministeri e a realizzare quella sinergia di ruoli fondamentale per la giustizia.

 

 

1. Art. 23-ter dl 6 dicembre 2011, n. 201.

2. Art. 52, comma 45, l. 28 dicembre 2001, n. 448.

3. Ibid.

4. In particolare, la competenza data al Ministro per gli interventi in caso di inerzia (art. 4, comma 2) e la totale assenza di qualsiasi disciplina che regoli i casi di contrasto. Inoltre, il sistema ideato nel decreto legislativo per l’attribuzione delle risorse al dirigente amministrativo di ogni singolo ufficio, basato sul decentramento amministrativo e sulla ripartizione effettuata dal direttore generale regionale o interregionale, non è mai stato realizzato per l’abbandono, prima in fatto, poi anche normativo, del progetto di decentramento del Ministero. 

5. La proposta di istituire il court manager, peraltro sinora articolata in modo estremamente generico, riprende un istituto anglosassone ed è stata propugnata dal Consiglio nazionale forense, dal Forum “Ambrosetti” e da altri, ed emerge nel dibattito sulla giustizia in modo carsico. 
Proposta molto diversa è quella avanzata dal «Progetto Giustizia 2030»: poli territoriali gestiti da un Consiglio comprendente tutti i capi degli uffici giudiziari territoriali (procure, tribunali, corte, minorenni e sorveglianza), coordinato dal presidente di corte d’appello, affiancato da un ufficio di direzione tecnico-amministrativa retta da un direttore generale, con compiti di coordinamento degli uffici giudiziari del polo che opera per lo sviluppo e la gestione dei servizi di staff necessari a tutti gli uffici giudiziari (bilancio, personale, digitalizzazione, controllo di gestione, logistica, etc.).