Ordinamento giudiziario: isolare, separare, atomizzare la magistratura. Solo un preludio delle politiche della destra?
In questo fascicolo doppio della Rivista, realizzato con il coordinamento di Ezia Maccora, il lettore troverà un esame completo dei diversi aspetti della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario. Ad un primo sguardo d’insieme la legge rivela, sotto la superficie variegata delle norme e degli istituti introdotti ex novo o rivisitati, un tratto di fondo: la volontà di ridefinire la presenza della magistratura nella vita delle istituzioni, riducendone il peso ed il ruolo. Per attuare tale ridefinizione sono state messe in campo le tecniche del “distanziamento”, della “separazione” e dell’“atomizzazione”. Per un verso, si è dato vita a uno statuto fortemente separato della magistratura (attraverso meccanismi di distanziamento non solo dalla politica, ma anche dall’alta amministrazione e dalla stessa “amministrazione della giurisdizione”). Per altro verso, si è realizzata nel corpo della magistratura la maggiore divaricazione possibile – a Costituzione invariata – tra giudici e pubblici ministeri. Infine, si è inteso favorire, con la legge elettorale del Csm, l’atomizzazione del corpo dei magistrati a discapito del suo associazionismo e ridurre, grazie al sistema elettorale tendenzialmente maggioritario, il pluralismo della rappresentanza. Operazione, quest’ultima, riuscita solo in parte. Se, infatti, si è rivelato innaturale e impossibile azzerare il ruolo delle aggregazioni in un momento collettivo come le elezioni, il sistema elettorale maggioritario binominale ha comunque alterato e distorto il rapporto tra voti ricevuti e seggi assegnati alle formazioni che hanno sostenuto le candidature individuali. Ad ispirare, giustificare e sorreggere l’operazione di riduzione e di ridimensionamento hanno concorso diversi fattori: l’attuale crisi di credibilità della magistratura; la distruttiva campagna di stampa in corso da anni nel Paese; la lentezza della giustizia, non di rado interamente addebitata ai magistrati; l’annosa diffidenza, quando non l’aperta ostilità, del ceto politico. Va riconosciuto che in questo redde rationem – che a tratti sembra assai più una operazione di potere che una riforma mirata all’efficienza – è stato rispettato il limite della Costituzione. Ma c’è già chi ritiene insufficiente il nuovo assetto, non è pago del realizzato ridimensionamento e preme per ulteriori “innovazioni” attuate con radicali modifiche del dettato costituzionale. Innovazioni perseguite da settori della politica e dell’avvocatura interessati a ri-creare l’assetto burocratico della magistratura del passato, anche a costo di depotenziare la giurisdizione. La legge Cartabia rischia perciò di essere solo il preludio delle future politiche della destra vittoriosa alle elezioni, mentre l’area della “non destra” (un confuso coacervo che non sapremmo definire altrimenti) sembra destinata a scontare a lungo la logica da puro “ceto politico” seguita nella competizione elettorale.
1. Una “istantanea” della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario / 2. Magistrati, politica e alta amministrazione / 3. E gli avvocati? / 4. La massima separazione possibile delle funzioni (a Costituzione invariata) / 5. Il nuovo sistema elettorale del Csm: tra atomismo e opzione maggioritaria / 6. Giurisdizione e magistratura all’epoca della destra…
1. Una “istantanea” della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario
La scelta di questa Rivista – soprattutto nei settori che più le sono propri, come la disciplina del processo civile e penale e l’ordinamento giudiziario – è di osservare, da vicino e in tempo reale, il magma della politica che si cristallizza in diritto.
A questa impostazione hanno obbedito i recenti numeri della Trimestrale – vds. i nn. 3 e 4 del 2021 – centrati, con grande tempestività, sulle leggi delega di riforma del processo civile e del processo penale.
Nel caso della legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario, questo metodo di lavoro, felicemente sperimentato per gli altri due interventi riformatori, ci ha fatto però pagare uno scotto.
Le difficoltà incontrate nel cammino della riforma ordinamentale e l’itinerario legislativo più lungo e tortuoso che ne è derivato (conclusosi solo nel giugno di quest’anno) si sono inevitabilmente riflessi sulla programmazione dei lavori della Trimestrale, determinando un significativo slittamento rispetto ai tempi originariamente previsti.
D’altro canto, le note vicende politiche – dimissioni del Governo Draghi, elezioni anticipate, Governo in carica solo per gli affari correnti – comportano che l’itinerario di attuazione della delega, scandito dalla elaborazione dei decreti legislativi delegati e dall’acquisizione dei pareri delle commissioni parlamentari competenti, rientri interamente nella responsabilità del nuovo Governo che sarà in carica dopo le elezioni.
Ci sarà dunque un passaggio di testimone tra esecutivi di cui è ora difficile prevedere modi, tempi e caratteristiche.
In un siffatto contesto, il compito degli Autori di questo fascicolo della Rivista è consistito nello scattare, con la massima precisione, una nitida “istantanea” della legge n. 71 del 17 giugno 2022.
Istantanea indispensabile per descrivere e valutare le consistenti novità introdotte nell’ordinamento giudiziario; per analizzare, all’occorrenza criticamente, le linee del progetto riformatore; per discutere le prospettive dei lavori di redazione dei decreti legislativi delegati.
2. Magistrati, politica e alta amministrazione
L’area su cui interviene la legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario è amplissima e stimola, come il lettore avrà modo di constatare, le analisi e le valutazioni differenziate contenute in questo numero della Rivista.
Sotto la superficie variegata delle norme e degli istituti, introdotti ex novo o rivisitati, emerge però un dato politico e istituzionale di fondo: la ridefinizione della presenza della magistratura nel quadro delle istituzioni repubblicane.
Per attuare tale ridefinizione sono state messe in campo tecniche differenti – il “distanziamento”, la “separazione”, l’“atomizzazione” –, con risultati a volte condivisibili e positivi, a volte criticabili e negativi.
Un netto distanziamento dalla politica era da tempo rivendicato dalla stessa magistratura.
Nel n. 3/2019 di questa Rivista, chi scrive, dando voce a un orientamento diffuso tra i magistrati progressisti, aveva sottolineato la necessità di tale presa di distanza in termini molto netti, che vale la pena di riportare qui: «La magistratura di orientamento democratico ha mantenuto viva negli anni un’idea alta della politica, del suo dinamismo, della sua responsabilità, e non intende certo rinunciarvi. È divenuto, però, via via più evidente che le profonde trasformazioni verificatesi nel sistema politico italiano negli ultimi decenni hanno inciso sulle modalità di partecipazione del giudice-cittadino alla vicenda politica del Paese. Tanto la lunga fase politica caratterizzata da sistemi elettorali tendenzialmente maggioritari e dal bipolarismo, quanto la successiva esplosione nel Paese di movimenti di segno dichiaratamente populista e l’asprezza assunta dal conflitto politico, hanno reso problematica la diretta partecipazione di magistrati alla competizione per il potere politico (la politics), mentre hanno rafforzato la necessità di una magistratura più autonoma e più capace di una visione d’insieme della politica, ispirata a valori della Carta costituzionale (la policy). In quest’ottica, la magistratura ha apertamente condiviso le proposte di legge, sinora peraltro sempre abortite, dirette a precludere il ritorno in magistratura di quei magistrati che abbiano scelto di prendere parte alla competizione politica (ad avviso di chi scrive, anche solo candidandosi alle elezioni politiche o amministrative), prevedendo la loro ricollocazione – al termine del mandato o in caso di mancata elezione – in altri comparti dell’amministrazione (…). Si tratta, in sostanza, di aumentare la distanza tra sistema politico e potere giudiziario per salvaguardare il libero svolgimento delle loro dinamiche interne, mettendoli al riparo anche solo dal sospetto di impropri condizionamenti e indebite influenze reciproche. Distanza da salvaguardare con determinazione, in un contesto istituzionale nel quale la fine dell’immunità parlamentare, nella sua versione forte, e il rilievo mediatico e politico assunto da particolari indagini e processi hanno talvolta dato vita a cortocircuiti, rivelatisi dannosi per l’immagine e la credibilità tanto della politica quanto della giurisdizione. In definitiva, va contrastata – nei limiti del possibile e nel rispetto del diritto, costituzionalmente sancito, di elettorato passivo – la “spendita” nella sfera politica di meriti o di visibilità raggiunta in quella giudiziaria, rendendo irreversibile e per ciò stesso straordinaria la scelta del magistrato di trasformarsi in attore politico»[1].
In quest’ottica vanno inquadrate le norme del capo III della legge delega (artt. 15-19), che dettano disposizioni in materia di eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale, regionale o locale, prevedendo meccanismi differenziati di temporaneo “distanziamento” dalla giurisdizione o di vero e proprio “distacco” da essa dei magistrati candidati e non eletti, dei magistrati al termine del mandato elettivo e dei magistrati al termine di incarichi apicali o di incarichi di governo non elettivi.
Si è di fronte a scelte istituzionali che non sono prive di ricadute negative perché riducono, fin quasi ad annullarlo in concreto, l’apporto di conoscenze e di esperienze dei magistrati alle assemblee elettive (nazionali o locali), ma che sono divenute inevitabili nel contesto politico istituzionale del Paese.
Occorre, però, constatare criticamente che la legge delega è andata ben oltre una incisiva linea di demarcazione tra politica e magistratura.
Nell’art. 20 della legge, che disciplina il ricollocamento dei magistrati a seguito dell’assunzione di incarichi apicali e di incarichi di governo non elettivi (capo e vice-capo dell’ufficio di gabinetto, segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei Ministeri, capo e vice-capo di dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e i Ministeri, nonché presso i consigli e le giunte regionali), il legislatore ha infatti esteso meccanismi di raffreddamento e di penalizzazione professionale anche ad incarichi di natura più strettamente tecnica[2].
Con l’effetto di dissuadere o distogliere i magistrati dallo svolgimento di compiti che, per capacità tecniche ed esperienza sul campo, hanno spesso dimostrato di saper svolgere alla pari o meglio di altri professionisti.
In sostanza, sotto questo profilo, Governo e Parlamento si sono dimostrati corrivi alle impostazioni polemiche interessate a dilatare a dismisura il tema delle cd. sliding doors, trasferendolo impropriamente dalla sfera dei rapporti tra politica e giurisdizione alla sfera dell’amministrazione.
Più in generale, anche le scelte della legge delega sulla posizione dei magistrati fuori ruolo appaiono fortemente influenzate dalle polemiche alimentate in questa materia da settori della politica e dell’avvocatura, rispondendo «ai luoghi comuni penalizzanti che vedono in modo sostanzialmente negativo l’esperienza del magistrato fuori ruolo»[3].
E ciò in un ambito nel quale non dovrebbero valere posizioni preconcette e ostilità di principio, ma considerazioni e valutazioni differenziate sulla natura degli incarichi da ricoprire e sull’opportunità o meno che essi siano ricoperti da magistrati.
L’originaria questione istituzionale – riguardante i rapporti tra magistratura e politica – sembra essersi progressivamente trasformata in un’operazione di redistribuzione di potere a favore di altre categorie di esperti (avvocati e professori universitari).
Constatazione, questa, evidente anche quando si guardi alle norme dirette all’immissione di avvocati e docenti universitari nella struttura del Csm[4].
3. E gli avvocati?
Per altro verso, resta discutibilissimo che all’estrema attenzione dedicata, nella nuova legge, alla posizione dei magistrati rispetto alla politica e all’amministrazione corrisponda l’assoluta indifferenza per la posizione dei parlamentari-avvocati.
Questi ultimi fruiscono, senza limitazione alcuna, della libertà di esercitare la professione. Libertà maturata in un diverso contesto storico, nel quale la professione liberale dell’avvocato si svolgeva senza contatti e collegamenti stretti con grandi centri di interesse e di potere economico.
Oggi, invece, tanto gli intensi legami di alcuni avvocati con grandi imprese, oligopoli e centri di potere, quanto la costituzione di settori dell’avvocatura in gruppi di pressione politica, quanto, infine, la triste esperienza di avvocati parlamentari impegnati a far approvare leggi utili alla difesa dei loro assistiti impongono di riconsiderare una questione di fondo: la possibilità per gli avvocati di continuare a esercitare, senza limiti di sorta, la professione forense in costanza del mandato parlamentare.
Un vero e proprio tabù, che non viene affrontato né sotto il profilo dei possibili conflitti di interesse né sul versante di eventuali torsioni dell’attività legislativa.
Nel momento in cui ci si propone di distanziare politica e giurisdizione, evitando tra di loro dannosi attriti, continuare ad ignorare il tema delle possibili incompatibilità del crescente numero di avvocati che siedono in Parlamento appare il frutto di uno strabismo non più tollerabile.
Un Parlamento che, di fatto, si priva delle competenze e dei saperi dei magistrati, ma non pone alcun limite alla presenza di avvocati in servizio permanente effettivo rischia di ricevere input unilaterali e fuorvianti, perché troppo fortemente ispirati da esigenze “particolaristiche” dell’avvocatura , su molte questioni di giustizia.
4. La massima separazione possibile delle funzioni (a Costituzione invariata)
All’opera di distanziamento della magistratura dalla politica e dall’amministrazione, la legge delega sull’ordinamento giudiziario fa seguire un’accentuazione estrema del processo di interna divisione del corpo della magistratura.
Sul versante delle funzioni dei magistrati la riforma è, infatti, vicina a realizzare il massimo di separazione possibile tra giudici e pubblici ministeri a Costituzione invariata.
L’art. 12 della legge delega modifica l’art. 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una volta nel corso della carriera, entro 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni.
Trascorso tale periodo, è ancora consentito, per una sola volta: a) il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, a condizione che l’interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali; b) il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste.
La regola generale intende evitare che la scelta delle funzioni sia troppo fortemente condizionata dalla posizione del magistrato nella graduatoria del concorso di accesso e da considerazioni compiute nella fase iniziale della sua vita professionale, lasciando aperta una porta per una opzione fondata su di una più matura vocazione.
Tanto la regola generale quanto i due ulteriori spiragli lasciati aperti per il mutamento di funzioni che si sono in precedenza ricordati costituiscono solo modesti e parziali temperamenti di una separazione ormai pressoché totale.
Preludio, nei programmi di alcune forze politiche e di settori dell’avvocatura, di una integrale separazione delle carriere, attuata attraverso distinti concorsi di accesso e distinti organi di governo autonomo.
Dall’ulteriore passo in avanti compiuto dalla riforma Cartabia non c’è da attendersi il risultato di una migliore e più efficiente distribuzione delle risorse umane in magistratura.
Ancora una volta, l’intento principale dell’innovazione attuata è un riassetto organizzativo posto in essere sul presupposto che la residua vicinanza tra le figure del giudice e del pubblico ministero si traduca in una impropria alterazione degli equilibri tra le parti nel processo.
Un dato, questo, smentito sul piano “quantitativo” dalle elevate statistiche sulle assoluzioni e, sul piano “qualitativo”, dal rigetto dell’ipotesi accusatoria in grandi processi nei quali importanti Uffici di procura avevano investito molto in termini di impegno e di immagine[5].
5. Il nuovo sistema elettorale del Csm: tra atomismo e opzione maggioritaria
Ulteriore tassello dell’operazione riformatrice è stata l’opzione per un sistema elettorale imperniato sull’atomizzazione del corpo elettorale (favorita dalla possibilità di presentare candidature individuali senza firme di sostegno) e di carattere tendenzialmente maggioritario[6].
È evidente che, nella scelta compiuta, ha esercitato un peso notevolissimo la furiosa polemica nei confronti delle associazioni dei magistrati intesa a presentarle, in blocco e in tutte le loro espressioni, come aggregazioni di potere da dissolvere per liberare energie e genuina rappresentanza della magistratura.
Polemica originata dalle gravi deviazioni emerse nella gestione delle nomine al Csm, ma poi divenuta campagna politica incessante e martellante, ottusamente cieca di fronte alle differenze emerse tra diversi gruppi e ingenerosa nell’investire in toto la complessa realtà dell’associazionismo, irriducibile alle sole degenerazioni e tuttora capace di produrre idee, di fare cultura, di rappresentare istanze non meramente corporative.
Le vistose ed acritiche concessioni del legislatore allo spirito dei tempi hanno prodotto meccanismi elettorali che – per effetto della singolare combinazione tra candidature individuali e curvatura maggioritaria del sistema di provvista dei membri togati del Consiglio – rischiano di deprimere proprio le aggregazioni fondate su idee e programmi e di favorire le aggregazioni di potere su base localistica o personalistica.
Con il corollario di ridurre la capacità del Consiglio di essere un interlocutore autorevole del Ministro della giustizia e del Parlamento nella vita delle istituzioni giudiziarie del Paese.
Per il momento è stata scongiurata, anche in ragione della sua palese incostituzionalità, la prospettiva più negativa e umiliante per il governo autonomo della magistratura: il sorteggio, in una delle sue tante fantasiose varianti, dei componenti togati del Csm.
Ma, naturalmente, c’è già chi ritiene insufficiente il nuovo assetto, non è pago del realizzato ridimensionamento, e preme per ulteriori “innovazioni” da attuare grazie a radicali modifiche del dettato costituzionale.
Innovazioni perseguite da settori della politica e dell’avvocatura interessati a ri-creare l’assetto burocratico della magistratura del passato anche a costo di depotenziare la giurisdizione.
6. Giurisdizione e magistratura all’epoca della destra…
Le elezioni politiche del 25 settembre hanno fatto registrare un netto successo della destra, che ha trovato l’unità elettorale a dispetto delle diversità e dei personalismi, sfruttando a proprio vantaggio una legge elettorale contorta e distorsiva della rappresentanza.
Legge oggetto di unanime esecrazione ma difficilissima da cambiare perché, di fatto, attribuisce alle oligarchie partitiche il potere di decidere i rappresentanti dei cittadini, dando vita al cd. “Parlamento dei nominati”.
Sul versante opposto, la “non destra” (non si saprebbe, oggi, come chiamarla altrimenti) ha affrontato la competizione elettorale in ordine sparso, obbedendo a un riflesso condizionato da puro “ceto politico”.
Le diverse forze in campo hanno infatti messo in conto di perdere una battaglia politica decisiva per le sorti del Paese pur di conservare o accrescere singolarmente le loro modeste “rendite di opposizione”, fatte di seggi in Parlamento e di presenze minoritarie nelle istituzioni.
Così che, dopo lo spettacolo di mediocri egoismi offerto ai cittadini, per un periodo prevedibilmente lungo sarà difficile alla “non destra” chiamare a raccolta forze sociali e intellettuali per grandi battaglie ideali e di principio.
In tale contesto, non è facile prevedere quali saranno gli sviluppi politici e gli esiti legislativi sul terreno delle istituzioni, della giustizia e in particolare dell’ordinamento giudiziario.
Stando ai programmi e ai proclami di chi ha vinto le elezioni[7], gli approdi raggiunti sul piano ordinamentale nella legge delega n. 71/2022 dovrebbero essere ritenuti insufficienti e inadeguati.
Di qui una serie di interrogativi.
La nuova coalizione di governo si sentirà impegnata a varare i decreti legislativi delegati della legge n. 71 o la delega verrà lasciata cadere per procedere a più radicali interventi di modifica dell’ordinamento della magistratura, attuati attraverso una revisione della Costituzione?
E, se si sceglierà di mettere subito mano alla Costituzione, quale sarà il cantiere dei lavori di rifacimento? Un’assemblea costituente (che discuta di giustizia unitamente al tema del presidenzialismo e delle autonomie), una commissione bicamerale con un perimetro di intervento deciso dalle Camere, oppure leggi di revisione costituzionale di carattere più circoscritto e settoriale?
I dati relativi ai seggi assegnati allo schieramento della destra – 115 al Senato e 235 alla Camera – dicono che la compagine uscita vittoriosa dalle elezioni dispone della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, necessaria per approvare, in seconda votazione, una revisione della Costituzione, ma non della maggioranza di due terzi dei componenti delle Camere (132 al Senato e 266 alla Camera), indispensabile per approvare norme di revisione non sottoponibili al referendum costituzionale.
Ma questo dato non sarà certo in grado di dissuadere forze politiche che appaiono fermamente intenzionate a porre in essere profonde modifiche della Costituzione sui temi della giustizia, e possono sperare nell’appoggio e nella cooperazione di formazioni politiche oggi collocate nell’area degli sconfitti.
Con ogni probabilità, dunque, la nuova frontiera del confronto sull’assetto della magistratura e della giurisdizione sarà la Costituzione.
Nella drammaticità di questo confronto, la magistratura italiana – dopo gli scandali, le autocritiche, le campagne di stampa furiose, incessanti, demolitorie – ha l’occasione di voltare definitivamente pagina, recuperando slancio e unità nella difesa dei valori fondanti della giurisdizione.
Senza cedimenti, timidezze, tentennamenti e ritrovando un’unità non corporativa ma ideale.
Quando si naviga su di una costa insidiosa, il piccolo cabotaggio è la scelta più pericolosa. E si può sperare di superare le tempeste solo volgendo con coraggio la prua verso il mare aperto.
Ottobre 2022
1. N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, ma un permanente campo di battaglia, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2019, pp. 55-56, www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/649/qg_2019-3_05.pdf.
2. Su tale problematica, cfr. E. Bruti Liberati, Magistrati e politica, pubblicato in anteprima su Questione giustizia online, 24 settembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistrati-e-politica), ora in questo fascicolo.
3. Così C. Castelli, Contro la demonizzazione dei magistrati fuori ruolo, pubblicato in anteprima su Questione giustizia online, 9 settembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/contro-la-demonizzazione-dei-magistrati-fuori-ruolo), ora in questo fascicolo. Per un’attenta disamina della materia, vds. D. Cardamone, La nuova disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati, pubblicato in anteprima su Questione giustizia online, 22 settembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-nuova-disciplina-del-collocamento-fuori-ruolo-dei-magistrati), ora in questo fascicolo.
4. Sul tema, vds. M. Patarnello, Assetto, struttura e funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura nella proposta della Commissione Luciani, in Questione giustizia online, 10 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/assetto-struttura-e-funzionamento-del-consiglio-superiore-della-magistratura-nella-proposta-della-commissione-luciani), ora in questo fascicolo in versione aggiornata: Assetto, struttura e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura nel tormentato percorso della riforma Cartabia.
5. Su questo aspetto della legge delega vds. il contributo di M. Guglielmi, Un pubblico ministero “finalmente separato”? Una scelta poco o per nulla consapevole della posta in gioco. E l’Europa ce lo dimostra, pubblicato in anteprima su Questione giustizia online, 17 settembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/un-pubblico-ministero-finalmente-separato), ora in questo fascicolo.
6. Sulla nuova legge elettorale del Csm, cfr. V. Savio, Da un Porcellum al Marta-rellum. Una prima lettura della nuova legge elettorale per il CSM, pubblicato in anteprima su Questione giustizia online, 7 settembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/csm-da-un-porcellum-al-marta-rellum), ora in questo fascicolo, e, dello stesso Autore, i numerosi scritti sulla normativa elettorale del Consiglio pubblicati su Questione giustizia online.
7. Nell’«Accordo quadro di programma per un Governo di centro destra» (www.forzaitalia.it/speciali/PER_L_ITALIA_Accordo_quadro_di_programma_per_un_Governo_di_centrodestra.pdf), stipulato dai tre partiti uniti nell’alleanza di destra figurano, tra gli obiettivi programmatici, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, la valorizzazione delle autonomie regionali e degli enti locali e l’attuazione del federalismo fiscale.
Con particolare riguardo alla giustizia, vengono poi enunciati in termini generici ed estremamente sintetici i seguenti punti: «Riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del CSM. Riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama. Riforma del diritto penale: razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività, riforma del diritto penale dell’economia, interventi di efficientamento su precetti e sanzioni penali» (punto 3).
Più esplicito in tema di giustizia il programma elettorale del partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia (www.fratelli-italia.it/programma/), che annovera tra gli obiettivi di riforma: la «[s]eparazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, con concorsi distinti e impossibilità di passaggio di funzioni»; la «[r]iforma del Csm con sorteggio dei membri per sconfiggere la lottizzazione correntizia che ha fortemente minato l’indipendenza e l’autorevolezza della magistratura»; lo «[s]top alle porte girevoli tra magistratura e politica» con il «rafforzamento della riforma Cartabia»; la «[r]evisione degli incarichi fuori ruolo al fine di ricondurre più magistrati possibili allo svolgimento delle funzioni loro proprie e sostenere il lavoro delle procure nel garantire la giustizia» (p. 33).
Sul terreno della giurisdizione, si afferma poi di voler realizzare una «[r]iforma del processo civile e penale orientata a offrire effettive garanzie per le parti, parità di condizioni e ragionevole durata» e si punta su di un tradizionale cavallo di battaglia della destra: la «[c]ertezza della pena», accompagnata dal «no a provvedimenti “svuota carceri”», dalla proposta di un «[n]uovo piano carceri e di aumento dell’organico e delle dotazioni della Polizia penitenziaria» nonché di «[a]umento della pianta organica di tribunali e procure» (ibid.).
Se il generico richiamo all’elezione diretta del Presidente della Repubblica nulla dice sulle effettive modalità con le quali ci si propone di innovare la forma di governo, in materia di giustizia le proposte della destra collidono con il dettato costituzionale tanto sul versante della definitiva separazione delle carriere quanto sul sistema di provvista dei membri togati del Csm, e potranno essere attuate solo modificando profondamente la Costituzione.