La separazione delle carriere tra argomenti tradizionali ed evoluzione del processo: un tema ancora attuale?
È giunto il tempo di un modello nuovo, che tenga conto del fatto che il pubblico ministero è una parte pubblica orientata ai principi costituzionali e che il tema della separazione delle carriere non è più attuale.
1. Premessa / 2. Le ragioni a sostegno della separazione delle carriere / 3. Le garanzie del pubblico ministero magistrato come garanzie di tutela per i cittadini / 3.1. L’autonomia dal potere politico / 3.2. Il valore dell’indipendenza interna / 4. La pluralità di attori nel processo penale e il ruolo del pm, oltre la separazione delle carriere
1. Premessa
I miei maestri mi hanno insegnato che il diritto penale deve essere un diritto sussidiario, ossia a cui ricorrere come extrema ratio solo nel caso in cui gli altri rami dell’ordinamento non offrano strumenti atti a sanzionare e contrastare in modo utile ed efficace determinati fatti illeciti, che il processo penale è il luogo in cui l’indagato/imputato va garantito dagli abusi del sistema punitivo statuale e che la pena deve tendere alla risocializzazione del reo e, dunque, al suo reinserimento nel tessuto socio-economico.
Quando ho vinto il concorso in magistratura e ho dovuto scegliere la prima funzione e la prima sede, ho scelto con molta titubanza, ma con un forte impulso istintivo, la Procura. Ero così indecisa che, nonostante io sia napoletana e avessi a disposizione la scelta tra vari uffici requirenti in Campania, ho preferito una Procura laziale. Volevo garantirmi la possibilità di ritornare nella mia Regione cambiando funzione, e temevo che l’ufficio requirente potesse rappresentare il tradimento di quegli ideali giuridici con cui ero cresciuta come studentessa, prima, e come dottoranda, poi[1].
Nei miei primi anni di lavoro ho capito invece che il coordinamento autonomo delle indagini, il rapporto costante con la polizia giudiziaria, l’acquisizione certosina dei riscontri alle notizie di reato, l’ascolto dei dissensi e rigetti del gip o del riesame, la costruzione della prova nel rapporto con la difesa, la capacità di cambiare idea durante l’istruttoria dibattimentale sono la più significativa garanzia per l’indagato/imputato.
Ho imparato anche che il processo non può essere solo lo spazio di garanzia della persona accusata, ma anche quello di riconoscimento della persona offesa, che ha diritto – comunque vada – alla verità e alla ricostruzione della sua identità in relazione all’indagato/imputato, alle istituzioni e alla società, alla ricomposizione della memoria e alla riparazione. In quest’ottica, come espliciterò meglio nell’ultimo paragrafo, non comprendo per nulla l’idea della separazione delle carriere e la sua ratio.
Il tema si è riproposto, recentemente, con la riforma Cartabia che, con disposizione immediatamente attuativa, ha sancito la possibilità di un unico passaggio di funzione (un solo passaggio possibile tra funzione requirente e funzione giudicante in tutta la vita lavorativa di un magistrato). Tale statuizione segna un progressivo avvicinamento all’obiettivo della integrale separazione delle carriere, nonostante l’ampio dissenso manifestato – aderendo allo sciopero del 16 maggio 2022 o ad altre forme di protesta – dalla magistratura tutta e dai cittadini italiani che hanno disertato i referendum sulla giustizia, tra cui uno specifico sul summenzionato punto. E tuttavia questo processo non è irreversibile, tanto più se si conta che è stato avviato con legge ordinaria. E, dunque, non bisogna smettere di spiegare le ragioni del dissenso in rapporto all’opzione per la separazione delle carriere.
2. Le ragioni a sostegno della separazione delle carriere
Le ragioni prospettate – alternativamente o cumulativamente[2] – a sostegno della separazione delle carriere sono, sostanzialmente, così riassumibili:
- la necessità che il magistrato giudicante sia un controllore terzo e imparziale tanto rispetto al rappresentante legale dell’accusa che a quello della difesa, che debbono godere di parità di armi (cfr. art. 111 Cost., secondo cui «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»);
- l’idea che il pubblico ministero sia portatore di un interesse generale della collettività pubblica e/o della persona offesa diverso e distinto dall’interesse particolare dell’indagato/imputato;
- la convinzione che l’assetto istituzionale vada complessivamente modificato nel senso di una discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale e di una sottoposizione dell’organo requirente al potere esecutivo, che lo tramuti in un uomo di governo inserito in una prospettiva strettamente gerarchica nel sistema burocratico[3], movibile e revocabile, sulla falsariga dei sistemi prima napoleonici, poi italiani (cfr. rd n. 3781/1859 e, poi, la formula bifasica del pm e del giudice istruttore) e, infine, inglesi e americani;
- la volontà di rendere il pubblico ministero un attore fragile; come direbbe Franco Cordero, un ritorno alle origini francesi in cui il pm è «un attore pubblico dai poteri esigui: dapprima è il giudice che lo autorizza alle “poursuites”; risulta escluso dal potere istruttorio; e ancora nel tardo Ancien Régime è luogo comune l’iniziativa ex officio»[4].
I fautori di questa idea sono mossi da spinte diverse: taluni ritengono che la separazione delle carriere sia più rispondente a un rito accusatorio e, complessivamente, all’impianto del codice Vassalli; altri, semplicemente, guardano ai modelli di common law.
Quali che ne siano le fondamenta teoriche, tutte queste opzioni nella loro declinazione pratica comportano, a seconda dei punti di vista, concorsi diversi, percorsi formativi diversi, organi di autogoverno (rectius: eterogoverno) diversi, garanzie diverse, diverse sfumature di autonomia e indipendenza.
3. Le garanzie del pubblico ministero magistrato come garanzie di tutela per i cittadini
3.1. L’autonomia dal potere politico
Ebbene, va rilevato che un diverso concorso, una diversa formazione, fino ad arrivare alla posizione più estrema e non unanime di una prospettiva di un pubblico ministero emanazione diretta dell’esecutivo (allo stato, non possibile a Costituzione immutata), minano proprio quell’autonomia del pubblico ministero-magistrato che tutela l’indagato/imputato e rendono l’accusa un esercizio discrezionalmente strumentalizzabile e imprevedibilmente manipolabile dal decisore politico, con buona pace dell’ideale di giustizia uguale per tutti e in ogni tempo.
In realtà, se è vero che “il diritto è politica e la politica è diritto”, nel senso che è la politica che emana le leggi, queste ultime trovano un limite invalicabile nella loro legittimità costituzionale. Nell’ambito giurisdizionale che notoriamente esaurisce quello di applicabilità del diritto penale, esso diventa il principio della sottoposizione del giudice alla legge costituzionalmente legittima (artt. 101, comma 2, e 134)[5]. E, dunque, il giudice è sottoposto alla legge costituzionalmente legittima e alle sue interpretazioni costituzionalmente orientate, e non al decisore politico in sé.
Questa soggezione soggettiva purchessia, invece – come detto –, sarebbe in contrasto con gli artt. 104, 107, comma 4, e 112 della Costituzione, che statuiscono l’indipendenza della magistratura, l’obbligatorietà dell’azione penale e la comunanza per gli organi requirenti e quelli giudicanti delle garanzie costituzionali e ordinamentali (accesso per concorso pubblico, inamovibilità, presenza di un pm naturale non precostituito, impersonalità dell’ufficio del pubblico ministero, uguaglianza con mera diversità di funzioni, possibilità di sollevare conflitto costituzionale, etc.[6]). D’altro canto, giudici e pubblici ministeri parimenti compongono la magistratura, con la conseguenza che non si può interpretare la figura del pm come una figura intermedia tra giudici e funzionari amministrativi[7].
Inoltre, una diversificazione di accesso e formazione allontanerebbe il pm dalla cultura della prova: non vi può essere un criterio di selezione o di formazione diverso tra chi raccoglie le prove che ritiene atte a formare un quadro indiziario solido e a identificare con certezza il responsabile di un fatto di reato o, al contrario, l’assenza dello stesso e/o di responsabilità per lo stesso, e chi quel fatto giudica. Né il giudice può non conoscere le tecniche investigative e i protocolli d’indagine. L’indagare e il giudicare bevono alla fonte dello stesso sapere scientifico e tecnico.
3.2. Il valore dell’indipendenza interna
L’assunto di una separazione delle carriere pare anche militare per un’idea verticistica degli uffici requirenti, coerentemente con il processo avviato con la riforma Mastella, d.lgs n. 106/2006 e successive modifiche, il quale all’art. 1, comma 1, stabilisce che il Procuratore della Repubblica è «il titolare esclusivo dell’azione penale», e da ultimo implementato con la legge n. 71/2022 che, all’art. 11, comma 1, lett. a, n. 1, inserisce una nuova ipotesi di illecito disciplinare nell’ipotesi di reiterata o grave inosservanza delle direttive degli organi apicali.
La separazione delle carriere sarebbe un tassello definitivo volto all’estromissione (almeno formale e teorica) degli uffici requirenti dalla cultura della giurisdizione libera, concentrando nelle mani di pochi organi decisioni destinate a incidere non solo sui cittadini, ma sugli stessi magistrati.
Ciò in contrasto, invece, con l’idea di un controllo diffuso e partecipato degli uffici di procura, generata dalla convinzione di svolgere il proprio lavoro sotto il coordinamento e coadiuvati dal procuratore a fini di uniformità e per rendere ai cittadini un servizio equo ed uguale, nell’ambito di una comunità tra pari.
La diversità dei magistrati solo nelle funzioni – con possibilità di spostarsi orizzontalmente e verticalmente dal merito alla legittimità, e dagli uffici requirenti a quelli giudicanti e viceversa – serve proprio a evitare gerarchie e carrierismi che alimentano «una subordinazione ostile al libero e corretto esercizio della funzione (…) ed una subordinazione gerarchica potrebbe comportare l’obbligo di eseguire ordini contrastanti con il concorrente dovere di perseguire la legalità nell’esercizio dell’azione penale»[8].
E l’indipendenza non va limitata all’ufficio, ma estesa alla persona (come evidenzia, peraltro, la modifica dell’art. 70, comma 3, rd n. 12/1941, ex l. n. 449/1988, che in riferimento al rapporto tra sostituti procuratori e procuratore sostituisce la locuzione «dipendenti» con quella di «designati»).
Una gestione condivisa e non meramente ossequiosa è garanzia di uguaglianza, efficienza e tempestività del nostro servizio, come già peraltro si verifica, nei fatti, in moltissimi uffici (ferme le dovute eccezioni e senza intenzioni corporative – ma nemmeno autodistruttive).
4. La pluralità di attori nel processo penale e il ruolo del pm, oltre la separazione delle carriere
Infine, lascio per ultimo il punto a me più caro, ossia che non si tiene conto del dato per cui tutte le recenti modifiche normative al sistema procedimentale e processuale penale – volute o imposte – ne hanno mutato notevolmente il volto e, a parere di chi scrive, hanno altresì superato alcune questioni di principio prospettate da chi si fa portatore della bandiera della separazione delle carriere ovvero, in particolare, quelle dell’asimmetria di poteri procedimentali e processuali tra accusa e difesa e della visione del pubblico ministero quale portatore dell’interesse della persona offesa, in contrasto con quello dell’indagato.
Ebbene, la parità di armi nel processo mi pare un fatto assunto. Non mi risulta che nel processo le parti abbiano poteri asimmetrici.
Piuttosto, il tema vero è la parità delle armi nel procedimento e come questa parità di armi si sia evoluta a fronte della moltiplicazione di soggetti attivi nel procedimento e di parti costituite nel processo.
Oltre al giudice e al pm, nel procedimento e nel processo penale ormai interagiscono attivamente l’indagato e la persona offesa (nel procedimento come soggetto e nel processo come parte civile).
Addirittura è prassi comune che enti e associazioni, senza scopo di lucro e con finalità – riconosciute loro in forza di legge – di tutela degli interessi collettivi o diffusi compromessi dalla realizzazione dell’illecito penale, possano esercitare diritti e facoltà spettanti alla persona offesa – previo suo consenso – con atto di intervento il cui contenuto è descritto nell’art. 93 cpp (si pensi alle associazioni antiracket nei reati d’usura ed estorsione).
In materia di vittime vulnerabili, vi sono amministratori di sostegno e curatori a tutela dei soggetti deboli e dei minori senza genitori o con genitori decaduti dalla relativa responsabilità genitoriale, e avvocati che seguono le donne vittime di reati di genere dall’ingresso nel centro antiviolenza fino al processo e oltre. La persona offesa non ritiene più di cedere l’iniziativa della potestà punitiva al pubblico ministero e mettersi da parte, attendendo gli esiti della sua azione. Vuole partecipare. Vuole controllare.
Il procedimento e il processo sono vissuti, ormai, da tanti attori.
Ci sono tante parti private e una sola parte pubblica.
Tutte queste parti, sin dall’origine del procedimento, possono informarsi, svolgere investigazioni difensive, confrontarsi parimenti con il pubblico ministero, promuovere istanze.
Non è un caso l’ampliamento richiesto e praticato a strumenti partecipativi sin dalle indagini: si pensi agli incidenti probatori, agli accertamenti tecnici irripetibili, alle notifiche degli avvisi di conclusione delle indagini preliminari alla persona offesa nelle ipotesi dei reati ex artt. 612-bis e 572 cp, delle archiviazioni in caso di reati commessi con violenza, delle sostituzioni e revoche delle misure cautelari in materia di reati introdotti dalla legge 19 luglio 2019, n. 69 (cd. “Codice Rosso”). Nella stessa prospettiva va letto anche un accesso più libero al gratuito patrocinio (nei reati di genere, anche a prescindere dalla fascia di reddito).
Sotto altro versante, oltre alle regole sull’assunzione e valutazione della prova, la presenza di controlli sempre più stringenti sui poteri investigativi del pubblico ministero sia preventivi (ad esempio, per le intercettazioni e i tabulati telefonici) che successivi (a mero titolo esemplificativo, riesame sempre più pervasivo sull’oggetto e motivazione dei sequestri probatori e delle perquisizioni) rendono già le indagini uno spazio cogestito.
Non è più possibile raggiungere un risultato dissimulando i mezzi[9].
Il principio di parità delle armi non permea più solo il processo, come richiesto dall’art. 111 della Costituzione e come già pienamente attuato, ma anche le indagini. E soprattutto, il principio di parità delle armi non concerne più solo l’indagato. Ovvio, non del tutto: ma questo è imprescindibile rispetto al fatto che il pubblico ministero è un portatore di interesse pubblico.
Il pubblico ministero, fortunatamente, è spogliato dall’idea di dover vendicare il torto, non è in conflitto con nessuna delle altre parti, ma è mero accertatore della responsabilità. Questa spinta verso la verità è dimostrata proprio dall’onere di investigare a favore dell’indagato, richiedere l’archiviazione in fase procedimentale e l’assoluzione in fase dibattimentale. Altrimenti, se non a ricostruire la verità, a cosa servirebbero le indagini preliminari?
Il pubblico ministero non si limita a formulare l’accusa ed esercitare l’azione penale, ma segue anche quanto accade nel processo con tutto ciò che ne deriva (dalla possibilità di modificare o integrare la contestazione a quella, invece, di non ritenerla più provata in ragione di elementi di conoscenza sopravvenuti, ad esempio). Insomma, il suo ruolo non termina con la fine delle indagine, non è un soggetto fuori dal processo, non è solamente un contraddittore, non è un mero investigatore, non è organo di polizia, non ha funzione meramente repressiva come dimostrano i vari istituti di giustizia riparativa già presenti nel nostro ordinamento e incrementati con la riforma Cartabia.
Proprio queste modifiche mettono in luce l’erroneità dell’idea che il pubblico ministero sia portatore di un interesse di parte; o meglio, egli è portatore di un interesse pubblico che non è simmetrico a nessun interesse delle parti private.
La magistratura è uno dei poteri dello Stato e il pubblico ministero, quale parte della magistratura, rappresenta lo Stato.
Va altresì aggiunto che, dalla Convenzione di Istanbul alla giurisprudenza recente in materia di reati di genere[10], è forte la richiesta europea agli Stati, almeno per questi reati, di introdurre l’obbligatorietà dell’azione penale (che in alcuni Stati non c’è), di ridurre il valore delle ritrattazioni in fase processuale[11] (proprio ad ulteriore conferma di un pubblico ministero terzo) e di essere permeabili, in fase investigativa, alle richieste della difesa (permeabili, pur nella propria indipendenza nella decisionale finale). Tutti dati che corroborano la tesi finora sostenuta.
E allora in questi corsi e ricorsi storici, ormai fuori tempo massimo, insistere nella rappresentazione di un pubblico ministero separato significa non cogliere le modifiche sostanziali e costituzionalmente orientate, nonché sollecitate dalle politiche e dalla sensibilità giurisdizionale europea, che stanno permeando la nostra forma di processo, il nostro modo di lavorare, il nostro essere servitori solo della Costituzione e, forse, spostare l’attenzione rispetto a veri e seri problemi sociali, sostanziali e processuali che rendono il sistema giustizia inefficiente e diseguale.
Dunque, provocatoriamente, concludo chiedendo: forse non bisognerebbe pensare a una formazione unica, sia iniziale che permanente? Forse non bisognerebbe introdurre l’obbligo di cambiare le funzioni? Visto che la forma dell’indagini ormai è completamente cambiata, forse non sarebbero da rivedere le previsioni inerenti all’istruttoria dibattimentale?
Dopo l’inquisitorio e l’accusatorio, forse è giunto il tempo di un modello nuovo, che tenga conto del fatto che il pubblico ministero è una parte pubblica orientata ai principi costituzionali, con la schiena dritta ma anche gentile, che tiene la porta similmente aperta per un confronto con un giudice come con un avvocato e che, parimenti, non deve temere né il giudice né l’avvocato.
1. Ciò, a mio avviso, a dimostrazione plastica che non ci sono profili di inopportunità pratica nel cambio di funzione: chi la cambia deve anche cambiare Regione e, dunque, non guarderà mai da giudice processi istruiti come pm e viceversa. D’altro canto, guardare le cose con prospettive e occhi diversi è elemento di crescita, per cui credo che i passaggi di funzione rendano i magistrati persone più umili e professionisti migliori, più flessibili e con maggiore apertura mentale.
2. Nel senso che il binomio “separazione delle carriere - dipendenza dal potere politico” secondo taluni è scindibile e secondo altri no.
3. Sul punto, vds. M. Nobili, Accusa e burocrazia. Profilo storico-costituzionale, in G. Conso (a cura di), Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, Zanichelli, Bologna, 1979, pp. 93 ss.
4. F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2006, p. 189.
5. Cfr. G. Riccio, Responsabilità penale, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Istituto Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1991, p. 3; S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, ESI, Napoli, 1992, pp. 85 ss.; F. Schiaffo, Fondamento e limiti dell’idea di scopo per la scienza integrata del diritto penale, in Cultura giuridica e diritto vivente, vol. 8, 2021, pp. 1-11.
6. Per un’ampia dissertazione sulle garanzie costituzionali e ordinamentali (con riserva di legge assoluta) dei magistrati tutti, vds. G. D’Elia, Commentario alla Costituzione, vol. III, UTET Giuridica, Milano, 2006, pp. 2051 ss.
7. G. Amato, Individuo ed autorità nella disciplina della libertà personale, Giuffrè, Milano, 1976, p. 390.
8. G. D’Elia, Commentario, op. cit., pp. 2058 e 2059.
9. S. De Santis, L’uso politico degli strumenti processuali penali, in Archivio penale, n. 3/2012, p. 9.
10. Cfr., ex multis, per quanto riguarda il nostro Paese, Corte Edu: J.L. c. Italia, 27 maggio 2021; Landi c. Italia, 7 aprile 2022; De Giorgi c. Italia, 16 giugno 2022; M.S. c. Italia, 7 luglio 2022; da ultimo, la pronuncia del Comitato CEDAW A.F. c. Italia (148/2019), 20 giugno 2022.
11. Vds. la sentenza Corte Edu, OPUZ c. Turchia, del 19 giugno 2009, sull’irrilevanza della remissione della querela e della ritrattazione al fine della tutela della vittima (dato pacifico ormai anche nella giurisprudenza italiana, quantomeno di legittimità: cfr. Cass. pen., sez. VI, n. 24027/2020). Sul punto, va evidenziato che la direttiva approvata dal Parlamento europeo il 14 dicembre 2010 (COM (2010)0095-c7-0087/2010 –2010/0065 - COD), all’art. 9, espressamente prevede che «gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le indagini o l’azione penale relative ai reati di cui agli artt. 2 e 3 non siano subordinate alle dichiarazioni o all’accusa formulate dalla vittima e il procedimento penale possa continuare anche se la vittima ritratta le proprie dichiarazioni».