La procedura tabellare per l’adozione del documento organizzativo delle procure della Repubblica: un ritorno al passato o un ponte verso il futuro?
Nel disegno di legge delega AC 2681 si delinea la possibilità di raccordare in termini più pregnanti gli assetti organizzativi di uffici inquirenti e giudicanti nei settori di comune interesse, di declinare le funzioni dei dirigenti in armonia con il percorso tracciato in sede di elaborazione normativa del Csm, in termini conformi alla Costituzione. L’elaborazione normativa in corso, tuttavia, appare poco lineare, probabilmente disturbata da pregiudizi “ideologici” sul ruolo del pubblico ministero, cosicché i suggerimenti proposti spesso si rivelano tra loro contraddittori. L’intromissione del Ministro di giustizia, i conseguenti potenziali conflitti con l’autorità giudiziaria, l’accentuazione di percorsi professionali definitivamente differenziati tra pm e giudici potrebbero, almeno in astratto, vanificare tale spunto di modernità con l’inganno di risolvere la problematicità dell’assetto ordinamentale del pubblico ministero nella sua separazione dal giudice.
1. Cenni storico-giuridici / 1.1. Le indicazioni costituzionali sul ruolo del pubblico ministero / 1.2. Il percorso legislativo sulle prerogative del pubblico ministero / 1.3. I correttivi posti in sede di autogoverno / 2. La funzione del documento organizzativo / 3. Il documento organizzativo nelle circolari del Csm: le procedure / 4. [Segue] Obiettivi, contenuti, strumenti / 5. Il valore aggiunto del procedimento tabellare / 6. Le soluzioni normative contenute nel disegno di legge delega AC 2681 / 7. Conclusioni e un’apparente digressione
1. Cenni storico-giuridici
La recente legge n. 134 del 27 settembre 2021 si scompone sin dal titolo in una «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa» e in «disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari».
L’art. 1, in particolare, contiene l’enucleazione di una serie di criteri e principi nel rispetto dei quali dovrà operare il legislatore delegato; tra questi, il compito di «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti (…)» (art. 1, comma 9, lett. i).
In tali sintetiche enunciazioni viene appena indicato un aspetto di fondamentale importanza per il funzionamento dell’Ufficio di procura, ossia il riferimento al relativo documento organizzativo, che ne costituisce il motore e ne rappresenta, per così dire, “la cilindrata”; dall’assetto organizzativo dipendono conseguenze decisive sul suo andamento.
Il legislatore delegante (salvo l’esplicito richiamo ai criteri di priorità[1]) non si sofferma più di tanto nel delineare principi con riguardo al contenuto del documento organizzativo; l’aspetto che più interessa è la procedura per la sua approvazione, che si vuole regolata sul modello delle tabelle per gli uffici giudicanti[2].
Contenuti e procedure, però, si intersecano continuamente nel documento organizzativo, inevitabilmente destinato a risentire anche dell’impianto riconosciuto all’Ufficio di procura, il cui assetto può variamente caratterizzarsi a seconda dell’impronta più o meno verticistica e gerarchizzata conferitale nell’ambito del sistema processuale e costituzionale.
1.1. Le indicazioni costituzionali sul ruolo del pubblico ministero
Dall’adozione di un modello gerarchico è derivato negli uffici di procura il pericolo dell’operatività fortemente condizionabile dal suo vertice e, dunque, l’interesse della politica (in forme legittime e, talvolta, arbitrarie) a influire sulle nomine dei dirigenti.
Il che mostra in maniera palmare quanto sia importante un pieno recupero, da parte del Csm e dei consigli giudiziari, del controllo sugli assetti degli uffici di procura.
Anche per questo, quando si dibatte sul futuro del Consiglio superiore della magistratura sarebbe quanto meno prudente considerare il suo ruolo di garante dei valori costituzionali inerenti all’organizzazione dell’ordine giudiziario. Le sue ragioni fondanti, al di là delle complesse ragioni storiche nelle quali maturò il pensiero costituente, risultano abbastanza evidenti, almeno nella loro diretta estrinsecazione: il trasferimento delle funzioni dal Ministro della giustizia – e, dunque, dal Governo – a un particolare organo che sapesse preservare l’indipendenza della magistratura da qualsivoglia minaccia (interna o esterna)[3].
Proprio in ragione del potere direttivo sull’amministrazione della giurisdizione, il Csm ha potuto promuovere una lettura costituzionalmente orientata sul d.lgs n. 106/2006, che, nella sua concreta applicazione, avrebbe inevitabilmente prodotto il rischio di collisione con i principi costituzionali espressi negli artt. 105 e 112 della Costituzione[4].
Un’involuzione in senso gerarchico è stata, peraltro, resa possibile proprio da una certa ambiguità dello statuto costituzionale del pubblico ministero; se, infatti, l’art. 112 Cost. pone il principio di obbligatorietà dell’azione penale, il comma 4 dell’art. 107 Cost. pone una riserva di «ordinamento giudiziario» nella costruzione delle garanzie riguardanti il pubblico ministero[5].
Si marca, per tal modo, una netta differenziazione rispetto allo statuto costituzionale del giudice, per il quale l’art. 25, comma 1, Cost. («Nessuno» può essere sottratto al giudice «precostituito per legge») e l’art. 101, comma 2, Cost. («I giudici sono soggetti soltanto alla legge») delineano un tracciato d’indipendenza (interna ed esterna). Per il pubblico ministero, invece, la riserva di ordinamento giudiziario potrebbe consentire al legislatore ordinario di sottrarsi a quella pienezza di garanzie che per il giudice sono direttamente indicate in Costituzione.
L’inclusione delle figure del giudice e del pubblico ministero nell’ambito del medesimo ordinamento giudiziario ha posto un ineludibile e minimale livello di garanzie oltre al quale, però, talune asimmetrie tra tali figure paiono possibili[6].
Possono distinguersi tre diversi piani d’indipendenza:
a) indipendenza di status: le posizioni del pubblico ministero e del giudice risultano perfettamente coincidenti per la generale e non frazionabile garanzia indicata negli artt. 104 e 105 della Costituzione[7] e nessuna differenziazione sarebbe giustificabile con il richiamo al comma 4 dell’art. 107 Cost., che, semmai, esclude ogni possibilità di ridurre il pubblico ministero al rango di funzionario amministrativo;
b) indipendenza funzionale: è complementare del principio di obbligatorietà dell’azione penale, evidentemente da estendere a tutta la fase a questa prodromica e, dunque, alla fase delle indagini. Il pubblico ministero, pertanto, in ragione dell’obbligatorietà della sua azione, è soggetto soltanto alla legge esattamente come lo è il giudice nell’esercizio della sua attività. L’indipendenza dell’uno e dell’altro giustifica l’assoluta incompatibilità con una struttura gerarchica esterna. La vera asimmetria tra giudice e pubblico ministero sembrerebbe doversi cogliere sul piano dell’indipendenza interna;
c) indipendenza organizzativa: i richiami espliciti in Costituzione al giudice naturale (art. 25, comma 1), all’assoggettamento del giudice soltanto alla legge (art. 101, comma 2), all’amministrazione della giustizia in nome del popolo (art. 101, comma 1), all’imparzialità del giudice (art. 111, comma 2) delineano un quadro forte d’indipendenza del singolo giudice, sulle cui spalle è posto il difficile onere di mediare «tra l’atto legislativo e il concreto conflitto d’interessi che si dibatte nel giudizio, operando, in modo imparziale, l’applicazione di una scelta – l’atto legislativo – che per definizione imparziale non è»[8]. Si profilerebbe un forte attrito con le norme costituzionali sopra indicate, un modello organizzativo strutturato per comprimere l’indipendenza del singolo giudice all’interno del suo ufficio, allorché egli venisse sottratto a un automatismo di assegnazione degli affari, se non addirittura a una sua libertà d’interpretazione delle norme, qualora incanalata in rigidi schemi precostituiti e verticalmente imposti. Un analogo statuto costituzionale potrebbe ritenersi non sussistente per il pubblico ministero, il cui destino incrocia la norma derogatoria di cui al comma 4 dell’art. 107 Cost., rispetto alla quale modelli di organizzazione gerarchica degli uffici requirenti non parrebbero incompatibili.
1.2. Il percorso legislativo sulle prerogative del pubblico ministero
Su tale assetto costituzionale si è sviluppato un iter normativo accidentato verso un modello organizzativo che fosse realmente garante dell’indipendenza interna del pubblico ministero[9].
Nel perdurante vigore del codice di rito elaborato nel regime fascista, superato solo con la riforma del 1988, rimase inalterato l’art. 70, comma 3 dell’ordinamento giudiziario, secondo il quale il procuratore della Repubblica esercita l’azione penale «personalmente o per mezzo dei dipendenti magistrati».
Quel che colpisce non è tanto la parola «dipendenti», che compare in un testo elaborato nel contesto di una cultura dittatoriale, rispetto alla quale il modello gerarchico era all’evidenza del tutto coerente, ma le considerazioni che sul punto elaborò la Corte costituzionale in pieno regime repubblicano. Con la sentenza n. 53/1976, la Corte (pur dando atto della sua precedente decisione - sent. n. 190/1970 -, in cui aveva definito la posizione del pubblico ministero come quella di un magistrato appartenente all’ordine giudiziario, che, fornito di istituzionale indipendenza rispetto a ogni altro potere «non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale dell’osservanza della legge, perseguendo fini di giustizia»), con netto avallo del modello gerarchico negli uffici di procura, afferma:
a) «(…) è altrettanto vero che le garanzie di indipendenza del pubblico ministero sancite a livello costituzionale dall’art. 107, vengono rimesse, per la determinazione del loro contenuto, alla legge ordinaria sull’ordinamento giudiziario, le cui disposizioni non possono essere ritenute illegittime se per alcuni momenti processuali, in cui è più pronunciato il carattere impersonale della funzione, atteggiano a criteri gerarchici l’attività dell’organo»;
b) «A differenza delle garanzie d’indipendenza previste dall’art. 101 Cost., a presidio del singolo giudice, quelle che riguardano il pubblico ministero si riferiscono all’ufficio unitariamente inteso e non ai singoli componenti di esso».
L’art. 70, comma 3, o.g., nella prospettiva dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (dPR 22 settembre 1988, n. 447), sarebbe stato modificato con dPR n. 449/1988: «i titolari degli uffici del pubblico ministero dirigono l’ufficio cui sono preposti, ne organizzano l’attività ed esercitano personalmente le funzioni attribuite al pubblico ministero dal codice di procedura penale e dalle altre leggi (...) quando non designano altri magistrati addetti all’ufficio».
La designazione, a differenza della delega (che presuppone la conservazione del potere in capo al delegante), attribuisce al designato un potere proprio e una determinata sfera di competenza nell’ambito della distribuzione del lavoro interna all’ufficio[10].
Si tende a rafforzare il concetto di autonomia del pubblico ministero nell’ordinamento giudiziario (art. 70, comma 4)[11], replicandolo nel codice di rito al comma 1 dell’art. 53.
Ancora un significativo passo in avanti verso il superamento del modello gerarchico si ottiene con l’introduzione nella legge sull’ordinamento giudiziario, a mezzo dell’art. 6, comma 1, lett. b, d.lgs n. 51/1998, dell’art. 7-ter, comma 3, che, estendendo il sistema tabellare dell’organizzazione degli uffici giudiziari anche a quelli di procura, opera una duplice operazione:
– sul piano del metodo di democrazia interna: la predeterminazione del progetto organizzativo presuppone, per legge, un’approvazione assembleare di tutti i componenti dell’ufficio, il parere favorevole del consiglio giudiziario, l’approvazione del Consiglio superiore della magistratura;
– sul piano ordinamentale e culturale: l’adozione del progetto organizzativo, attraverso un procedimento tabellare comune a giudici e pubblici ministeri, predica l’unità della giurisdizione e rafforza il principio personalistico (o diffusivo) della funzione, la cui autonomia, fissata per le udienze negli artt. 73, comma 4, o.g. e 53 cpp, si espande (attraverso il sistema tabellare di cui all’art. 7-ter, comma 3, o.g.) anche all’area dell’indagine e delle attività in essa svolte[12].
Il processo evolutivo verso modelli di superamento gerarchico subisce un brusco arresto con le riforme del 2006 (ossia con il d.lgs n. 106/2006, in parte mitigato dalla l. n. 269 del 24 ottobre 2006).
L’organizzazione delle procure, dal 2006 in poi, si caratterizzerà per un certo ibridismo, in ragione di una commistione di indicatori gerarchici e verifiche rimesse agli organi di autogoverno, tuttavia privo del potere di veto e legittimato alla sola formulazione di rilievi non vincolanti.
È il risultato di una riforma, per così dire (e fortunatamente), realizzata a metà. Nella sua formulazione originaria era stata pensata, infatti, con obiettivi più ambiziosi, volti a operare la separazione dei pubblici ministeri dai giudici, ponendo i primi nell’ambito di un sistema piramidale al cui vertice il procuratore generale della Corte di cassazione avrebbe potuto esercitare un controllo gerarchico, attraverso i procuratori generali distrettuali, i quali a loro volta, sulla base delle indicazioni del primo, avrebbero esercitato il loro controllo sui procuratori territoriali.
L’anno 2006 segna, dunque, l’inizio di una diversa filosofia della gestione degli uffici di procura; i procuratori, i quali per primi dovettero aggiornare le tabelle già redatte per il biennio 2006/2007, nel compilare il documento organizzativo imposto dall’art. 1, comma 1, d.lgs n. 106/2006, non esitarono a manifestare un’esigenza di delimitazione dei nuovi compiti dalla legge attribuiti al procuratore[13].
1.3. I correttivi posti in sede di autogoverno
Il modulo di tipo militare preteso dal legislatore stentava a prendere il sopravvento; le sue incompatibilità con i parametri costituzionali ne avrebbero impedito un successivo sviluppo, le leggi successive e le fonti secondarie hanno faticato a darne un senso effettivo.
Dell’originaria idea gerarchica, però, sono rimasti alcuni importanti capisaldi, come ad esempio la centralità del procuratore della Repubblica, riportando a tale figura la titolarità esclusiva dell’esercizio dell’azione penale, benché ripartita attraverso assegnazioni tra i vari sostituti, il controllo sulla domanda cautelare, esercitata attraverso l’obbligatorio assenso, le deleghe per specifiche attività e/o servizi.
Il punto d’arrivo, con un’efficace sintesi della molteplicità di fonti succedutesi nel tempo[14], è rappresentato dall’ultima «Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura» (16 dicembre 2020).
Alle spalle di tale ultima fonte normativa c’è un pesante passato segnato da codici e leggi di varia ispirazione, con la successione al codice del 1930 (ispirato a criteri inquisitori) del codice del 1989 (ispirato a criteri accusatori), strumenti di un percorso giudiziario complicato in cui indagini e processo sono state importanti leve per la comprensione di accadimenti storici e fenomeni sociali, talvolta rivelatori di gravi difficoltà istituzionali, con inevitabile produzione di conflitti tra magistratura e politica.
Né si possono tacere gli errori della prima nella gestione giudiziaria e l’ambiguità della seconda nella progettualità di una giustizia moderna, il più delle volte abbandonata agli accomodamenti compiuti in autonomia dalla stessa magistratura in mancanza di risorse adeguate.
Il tutto è proceduto tra luce e buio, ma, seppure con contrasti e diverse visioni ordinamentali, sono pure stati posti alcuni punti fermi imposti dall’esperienza pregressa, in cui l’azione penale appariva esercitata in forme spesso incoerenti, con un disinvolto ricorso alla domanda cautelare, effetti riconducibili a governi degli uffici di procura talvolta lasciati in balia di componenti i quali agivano in difformità l’uno dall’altro e con tempistiche vessatorie nei confronti di chi era sottoposto a indagini e a giudizio.
2. La funzione del documento organizzativo
Non si può affermare che tali profili problematici siano cessati e che, dunque, il rimedio rinvenuto nel tentativo di responsabilizzare il procuratore, in quanto unico referente riconoscibile dell’ufficio, sia stato efficace; è certo, però, che la scelta d’individuare nel procuratore il titolare esclusivo dell’azione penale, l’obiettivo di raccordare l’obbligatorietà dell’azione penale alla ragionevole durata del processo, l’obiettivo di garantire il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale e del giusto processo hanno costituito delle risposte (quanto meno come linee programmatiche) a situazioni critiche che meritavano di essere rimesse in ordine, benché ambiguamente strumentalizzate nel tentativo – in qualche caso interessato – di “normalizzare” l’operato della magistratura.
Nel contesto del diritto positivo vigente, probabilmente neppure lo strumento del documento organizzativo può costituire una risoluzione agli aspetti disfunzionali maggiormente rimproverati alla magistratura inquirente, sulla quale più benefico sarebbe un radicale mutamento di mentalità, una maggiore apertura verso l’esterno, una maggiore disponibilità all’autocritica ogni qual volta si debba constatare l’intrapresa d’iniziative assunte senza la necessaria prudenza.
È, tuttavia, innegabile che, se non risolutivo, un buon documento organizzativo costituisce quanto meno un ottimo avvio, pur rimanendo il prosieguo del percorso affidato alle gambe dei magistrati persone fisiche, che ne daranno attuazione concreta.
Il documento organizzativo costituisce l’ultimo, ma fondamentale anello di una lunga catena di principi e di norme (dalla Costituzione alle leggi, alle norme secondarie e di autogoverno) che in esso dovrebbero trovare un momento di sintesi estrema, proponendone un condensato funzionale a un processo operativo coerente al sistema complessivamente considerato.
La proficuità del documento organizzativo dipenderà non solo dai contenuti, ma anche dalle modalità di sua formazione. Contenuti e procedura finiscono con il costituire lati della medesima medaglia; gli uni e l’altra, infatti, convergono nel costruire un tassello del principio di collaborazione al quale dovrebbe conformarsi tutto il più articolato sistema delle relazioni all’interno del medesimo ufficio giudiziario e tra gli uffici giudiziari.
Tale ultima considerazione vale soprattutto nei rapporti tra tribunale e procura della Repubblica, per i quali l’importante segmento organizzativo che riguarda l’area penale (ma anche, seppure in misura ridotta, alcuni aspetti della giustizia civile) meriterebbe di essere governato in piena sinergia e condivisione d’intenti.
Da ultimo, ma non certo per minore importanza, vi è la cura dei rapporti sia tra uffici giudiziari e avvocatura, sia tra uffici giudiziari e utenza in genere.
3. Il documento organizzativo nelle circolari del Csm: le procedure
Il Consiglio superiore della magistratura è intervenuto sul tema dell’organizzazione degli uffici di procura a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs 20 febbraio 2006, n. 106 con le prime risoluzioni del 12 luglio 2007 e del 21 luglio 2009; successivamente, con la circolare del 16 novembre 2017 si è dettata una disciplina di più ampio respiro, raffinata con l’ultima circolare del 16 dicembre 2020.
Come significativamente espresso nella relazione introduttiva alla circolare 16 dicembre 2020, l’attività normativa del Csm è giustificata in quanto ritenuta strumentale o ausiliaria all’assolvimento delle funzioni che il Costituente ha attribuito a tale organo quale vertice organizzativo della magistratura ordinaria, nella prospettiva di superare le eventuali carenze e disorganicità del quadro ordinamentale primario. Con riferimento specifico agli uffici di procura, nella stessa relazione si esprime il convincimento che il loro assetto ordinamentale complessivo (precedente e successivo all’intervento normativo del 2006) «non può che essere ispirato ed interpretato alla luce dei principi espressi dagli artt. 105, 107, 108 e 112 della Costituzione e che, nel rispetto della normativa primaria, i poteri di indirizzo del Consiglio (…) rappresentano lo strumento per orientare i dirigenti degli uffici di procura quando, come nel caso della formazione e dell’attuazione del progetto organizzativo, “sono in gioco attribuzioni che concorrono ad assicurare il rispetto delle garanzie costituzionali”[15] quali, anzitutto, quelle che trovano esplicitazione nel precetto del giusto processo di cui all’art. 111 Cost».
In base all’elaborazione normativa secondaria, il documento organizzativo non è il risultato di scelte solipsistiche del procuratore, ma l’esito di un procedimento in cui è imprescindibile la partecipazione dei magistrati dell’ufficio, destinato a essere sottoposto a verifiche degli organi di autogoverno.
Nella circolare del 16 dicembre 2017, il documento organizzativo veniva attuato attraverso le seguenti fasi:
– assemblea generale obbligatoria per la partecipazione dei magistrati dell’ufficio;
– redazione del progetto organizzativo da parte del procuratore;
– sua comunicazione ai magistrati dell’ufficio, i quali entro 15 giorni possono formulare osservazioni;
– adozione da parte del procuratore del decreto organizzativo, in cui si dà conto delle eventuali osservazioni;
– sua comunicazione ai magistrati dell’ufficio;
– trasmissione del decreto a cura del procuratore al procuratore generale presso la corte d’appello e al Csm, per il tramite del consiglio giudiziario che, espletata l’istruttoria e richiesti eventuali chiarimenti, esprime il proprio parere entro 30 giorni;
– la commissione referente del Csm, ricevuti gli atti, espleta l’istruttoria e può richiedere chiarimenti al procuratore della Repubblica;
– all’esito, il Csm, nel prendere atto del provvedimento, invia al procuratore della Repubblica eventuali osservazioni e specifici rilievi;
– i provvedimenti adottati dal Csm sono comunicati al procuratore della repubblica interessato, al procuratore generale presso la Corte di cassazione e al procuratore generale presso la corte d’appello;
– tali provvedimenti sono inseriti nel fascicolo personale del dirigente anche ai fini delle valutazioni di professionalità e della conferma;
– presso la VII Commissione referente si è istituito, per la compiuta e costante informazione anche statistica del Csm, il «fascicolo dell’organizzazione della Procura», nel quale sono inseriti il progetto organizzativo, le sue conferme, le modifiche e le variazioni, i provvedimenti sulle assegnazioni dei magistrati ai gruppi di lavoro e ogni altro documento avente significativo riflesso sull’organizzazione.
È particolarmente significativo quanto indicato nel comma 3 dell’art. 2, secondo il quale: «I magistrati dell’Ufficio partecipano alle riunioni, alle assemblee generali e di sezione, e forniscono i contributi in tema di organizzazione, quale adempimento di un preciso obbligo funzionale e secondo canoni di leale collaborazione».
Ai canoni di leale collaborazione deve ispirarsi anche l’azione che il procuratore aggiunto svolge a supporto del procuratore della Repubblica.
Il metodo di lavoro del procuratore aggiunto parrebbe esso stesso codificato in quanto, all’interno delle sue attribuzioni, egli ha a disposizione lo strumentario costituito da:
– riunioni periodiche di coordinamento tra i sostituti;
– riunioni periodiche con la polizia giudiziaria;
– interlocuzione con i titolari di procedimenti inerenti al gruppo di lavoro da lui diretto;
– verifiche circa l’effettiva distribuzione degli affari tra i magistrati componenti del proprio gruppo di lavoro in termini di equità e funzionalità;
– confronto costante fra i magistrati del proprio gruppo di lavoro finalizzato all’omogeneità delle soluzioni investigative e interpretative.
Tali indicazioni procedurali, chiaramente poste a salvaguardia del coinvolgimento più ampio possibile di tutti i magistrati dell’ufficio nell’elaborazione del documento organizzativo, sono state rafforzate nell’ultima delibera del 16 dicembre 2020.
Nell’art. 8 di tale documento, infatti, il procedimento per la formazione del documento organizzativo ha il suo avvio nella redazione di una proposta di progetto, cui segue la sua trasmissione:
– ai magistrati dell’ufficio almeno 15 giorni prima dell’assemblea generale;
– al presidente del tribunale, affinché possa offrire il proprio contributo valutativo con riguardo agli aspetti organizzativi che interferiscono con l’ufficio giudicante.
La proposta di progetto organizzativo è, quindi, discussa in assemblea generale e ne viene redatto verbale.
Si tratta di un momento centrale per la formazione del documento organizzativo, in quanto sulla proposta di progetto tutti i magistrati sono messi nelle condizioni d’interloquire e di offrire i loro punti di vista. Ogni posizione, conforme o difforme, è riportata nel verbale.
Solo all’esito dell’assemblea il procuratore potrà redigere il documento organizzativo finale, del quale il verbale dell’assemblea costituirà il principale allegato.
È, infatti, dalla lettura incrociata tra documento organizzativo e verbale dell’assemblea che potrà emergere il grado di condivisione delle scelte organizzative e la misura di una consapevole partecipazione. L’efficacia del documento organizzativo dipenderà dalla capacità di sintesi delle diverse eventuali considerazioni svolte dai magistrati dell’ufficio e dalla chiarezza motivazionale sulle soluzioni adottate, eventualmente in difformità con tutti o con alcuni dei rilievi emersi in assemblea.
Le norme primarie e secondarie non esigono unanimità di consensi sulle opzioni organizzative, la cui adozione, però, richiede un’esplicitazione non soltanto delle ragioni che le sostengono, ma anche delle ragioni per le quali le opzioni alternative espresse ovvero i dissensi manifestati alla scelta formulata dal procuratore siano state da quest’ultimo disattesi nel documento organizzativo finale. Situazioni particolari e contingenti spesso costringono il procuratore ad assumere scelte in deroga a quanto stabilito da regole normative primarie o secondarie formulate sulla base di assetti teorici non necessariamente riscontrabili nelle realtà degli uffici: si pensi, ad esempio, alla disposizione di cui all’art. 19, comma 3, circolare 16 dicembre 2020: «I magistrati della DDA non possono essere destinati a svolgere attività ulteriore rispetto a quella propria della Direzione distrettuale, salvo comprovate e motivate esigenze di servizio dell’ufficio di Procura». Tale indicazione è vincolante in quanto l’organico e/o gli affari da trattare risultino in equilibrio; ma, qualora non sussistano le condizioni ottimali per garantire la piena separatezza dei magistrati della DDA, il procuratore ha la possibilità di prevederne la designazione in attività ulteriori e diverse da quelle caratteristiche dell’area antimafia. Per adottare tali soluzioni, non è neppure richiesto che vi sia un consenso unanime di tutti i magistrati dell’ufficio; è, però, necessaria la chiara esplicitazione delle ragioni della deroga alla regola.
Il documento organizzativo è, quindi, comunicato ai magistrati dell’ufficio e al presidente del tribunale. I magistrati dell’ufficio possono proporre osservazioni entro 15 giorni dall’avvenuta comunicazione. Seguono, quindi, le fasi già descritte nell’art. 7 della circolare del 16 novembre 2017, come sopra sintetizzate.
La delibera del 16 dicembre 2020 aggiunge, nei commi 9 e 10 dell’art. 8, due ulteriori importanti indicazioni in merito alla valenza delle scelte organizzative operate dal dirigente:
– ogni qual volta in cui il consiglio giudiziario debba, infatti, valutare l’attività svolta dal dirigente, può accedere al «fascicolo dell’organizzazione della Procura» depositato presso la VII Commissione referente, secondo quanto disposto dall’ art. 7 circolare 16 novembre 2017 e dall’art. 8, comma 8, delibera 16 dicembre 2020 (vds. art. 8, comma 9, delibera 16 dicembre 2020);
– il «fascicolo dell’organizzazione della Procura» è condiviso con la V Commissione del Csm, ai fini della valutazione di conferma alla scadenza del primo quadriennio di esercizio delle funzioni direttive ovvero in ogni altra occasione in cui risulti necessario valutare l’attività svolta dal dirigente che abbia proposto domanda per ulteriore incarico (vds. art. 8, comma 10, delibera 16 dicembre 2020).
Si potrebbe in definitiva ritenere che, se le norme primarie e secondarie fossero effettivamente applicate nella loro interezza, ben poco residuerebbe del modello gerarchico. La partecipazione attiva e fattiva di tutti i magistrati a costruire le linee organizzative e programmatiche, la sintesi del procuratore della Repubblica, la possibilità di affidare spazi di autonomia gestionale ai procuratori aggiunti, i procedimenti per la soluzione dei conflitti con le incursioni degli organi di autogoverno nei progetti organizzativi delle procure, i loro possibili riverberi sulla valutazione di professionalità disegnano un sistema sul quale non sono molti gli aggiustamenti normativi auspicabili.
Un tale sistema appare assolutamente compatibile con il principio costituzionale della pari dignità delle funzioni.
Occorre, d’altra parte, considerare che strutture complesse come gli uffici giudiziari abbiano necessariamente bisogno di criteri di organizzazione e di metodi di lavoro il più possibile condivisi e uniformi, cosicché ogni magistrato diventi (e ne assuma la consapevolezza) una parte di un ben più articolato meccanismo.
In tale prospettiva, si avverte la necessità di figure professionali (non importa come definirle – direttivi, semidirettivi o semplicemente magistrati preposti all’organizzazione), alle quali attribuire specificamente la funzione di gestione dell’ufficio nelle sue dinamiche strettamente giudiziarie e nelle sue esigenze logistiche.
Quanto alle dinamiche strumentali, viene in mente l’obiettivo della costruzione di involucri organizzativi (o di neutri contenitori) che pongano i singoli magistrati nelle condizioni di svolgere al meglio le proprie funzioni giudiziarie.
Compito precipuo del magistrato addetto all’organizzazione è, dunque, quello di comprendere le condizioni di lavoro dell’ufficio nel suo complesso e dei singoli in modo da massimizzarne le risorse umane e ottimizzare i risultati complessivi.
È nel procedimento di formazione del progetto che, almeno sul piano normativo, si recupera la funzione partecipata di tutti i componenti dell’ufficio e una più puntuale connotazione del ruolo dell’aggiunto (almeno negli uffici in cui tale figura sia contemplata) nella costruzione e nel conseguimento degli obbiettivi di organizzazione.
È, peraltro, inevitabile chiedersi se il perfezionamento di tale percorso richieda, come sollecitato nella legge delega n. 134 del 27 settembre 2021, il ritorno alle verifiche da parte degli organi di autogoverno secondo lo sperimentato schema del metodo tabellare previsto per gli uffici giudicanti, e quale valore aggiunto possa derivarne alla formazione del documento organizzativo della procura; occorre, in particolare, verificare se l’auspicato metodo tabellare per il documento organizzativo dell’ufficio requirente si risolva solo in una rievocazione di un modulo procedurale già sperimentato in epoca antecedente alle riforme del 2006, oppure se la definitiva ratifica del documento organizzativo da parte del Consiglio superiore della magistratura, tenuto conto dell’elaborazione maturata sull’argomento in sede di autogoverno, possa essere in qualche misura attualizzata in ragione delle esigenze di funzionalità degli uffici di procura e, in particolare, in ragione di una lettura del ruolo del pubblico ministero effettivamente coerente con la sua declinazione costituzionale e processuale[16].
Sembrerebbe di potere affermare che proprio in tale ambito si avverta maggiormente la stretta interdipendenza tra procedure, contenuti e obiettivi.
4. [Segue] Obiettivi, contenuti, strumenti
Il progetto organizzativo costituisce il documento programmatico e di descrizione operativa dell’ufficio. Può definirsi lo schema strutturale in cui viene illustrata la modalità di funzionamento di un motore (quasi un manuale d’uso).
In quanto documento programmatico, dovrebbe essere rappresentativo di una serie di esigenze da fronteggiare per il perseguimento di taluni obiettivi.
Il perseguimento di tali obiettivi, tuttavia, non può avvenire secondo scelte arbitrarie, ma nel rispetto di alcuni contenuti imprescindibili.
Obiettivi, contenuti e strumenti s’intrecciano continuamente tra loro e danno insieme sostanza ai compiti che la legge e la normazione secondaria attribuiscono al procuratore della Repubblica, quale figura esponenziale dell’ufficio.
Gli strumenti caratteristici del procuratore sono costituiti principalmente dal progetto organizzativo, dalle sue variazioni, dai provvedimenti attuativi.
Attraverso il progetto organizzativo il procuratore illustra il percorso per il raggiungimento di due fondamentali obiettivi (vds. art. 2, comma 1, circolare Csm 16 dicembre 2020):
– la ragionevole durata del processo (anche in fase investigativa);
– il corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale, nel rispetto delle norme sul giusto processo e sull’indipendenza dei magistrati dell’ufficio.
Per ciascuno di tali obiettivi sono richiesti strumenti differenti di analisi e di conoscenze.
Sono le stesse circolari del Csm[17] a indicare come funzionali all’obiettivo della ragionevole durata del processo e dell’obbligatorietà dell’azione penale:
– l’attenta e particolareggiata analisi dei flussi e delle pendenze dei procedimenti;
– il loro costante monitoraggio;
– la consultazione della commissione flussi istituita presso il consiglio giudiziario;
– la consultazione dei dati presso il presidente del tribunale sul ricorso ai riti speciali e sugli esiti delle diverse tipologie di giudizio;
– la possibilità del ricorso ai criteri di priorità.
Si comprende, però, che la stessa ragionevole durata del processo e l’obbligatorietà dell’azione penale non valgano per se stesse, ma in quanto inserite in un percorso operativo per il contrasto a una realtà criminale individuata come prevalente nell’ambito del territorio di competenza, della quale la normazione secondaria (vds. art. 7, comma 2, circolare 16 dicembre 2020) pretende «analisi dettagliata ed esplicita»; quest’ultima, infatti, è considerata come la base giustificativa dei criteri adottati per l’organizzazione dell’ufficio.
L’intento di adeguare l’assetto dell’ufficio al tipo di problematiche criminose da affrontare è per certo condivisibile. Occorrerebbe, tuttavia, soffermarsi sulle fonti e sul metodo per il compimento dell’analisi in questione.
Oltre ai flussi di lavoro, allo stato delle pendenze, alle conoscenze acquisite nel corso d’indagini e/o di processi, quali altri dati possono ritenersi nella disponibilità del procuratore?
L’analisi dettagliata ed esplicita della criminalità nel territorio di competenza richiederebbe, infatti, un incrocio di informazioni provenienti da plurime fonti, attraverso le quali si possa distinguere tra criminalità reale e criminalità percepita.
La criminalità denunciata (quale quella ricavabile dai flussi di lavoro o dallo stato delle pendenze) e la criminalità giudicata (quale quella ricavabile dalle conoscenze acquisite nei processi in ordine a vicende, peraltro, spesso assai risalenti nel tempo) non necessariamente esauriscono l’entità del malessere sociale in cui si innestano fenomeni criminosi della più varia tipologia, né possono mostrarne le forme più gravi.
Proprio la difficoltà nel reperimento di fonti conoscitive utilmente spendibili nell’approccio ad analisi criminose su base territoriale è la ragione per la quale i documenti organizzativi delle procure sono solitamente carenti in riferimento a tali aspetti.
Al di là della difficoltà nell’individuazione delle fonti conoscitive o dei dati oggettivamente utilizzabili per delineare il quadro del fabbisogno di contrasto alla criminalità, non è neppure trascurabile il valore politico dell’operazione rimessa al procuratore, al quale, in definitiva, è riconosciuto il potere-dovere d’individuare obiettivi da prendere di mira massimizzando le risorse di cui è a disposizione.
Tale programmazione, qualora possa essere davvero consapevole e informata, sembra peraltro includere il tema dei criteri di priorità e, probabilmente, anche per questo la legge delega n. 134/2021, pur rendendoli specifico contenuto del documento organizzativo, ha al contempo attribuito al Parlamento il compito – se non di una specifica individuazione di tipologie prioritarie – di indicare i criteri generali in base ai quali procedere a tale individuazione.
Il legislatore delegante, infatti, vorrebbe che la scelta da parte del procuratore sulle priorità venga effettuata sulla base di “criteri” trasparenti e predeterminati, nell’ambito dei “criteri” generali rimessi alla legge del Parlamento[18].
Il tema dei criteri di priorità non è nuovo. L’art. 132-bis norme di attuazione al cpp, nella formulazione attuale introdotta con l’art. 2-bis dl 23 maggio 2008, n. 92 (convertito con modificazioni, nella l. 24 luglio 2008, n. 125), propone un’indicazione dei criteri di priorità nella formazione dei ruoli d’udienza e trattazione dei processi; la norma, rivolta al giudice, contiene un catalogo di reati articolato in termini generici in ragione delle pene piuttosto che in riferimento a una ben specifica tipologia di reati e, proprio per la sua genericità e astrattezza, non pare sempre in sintonia con le effettive priorità di tutela penale percepite nell’ambito di determinate realtà.
La questione di tali scelte, all’evidenza, si complica quando si tratti dell’organo inquirente.
Potrebbe certo apparire più trasparente che il procuratore individui le priorità nell’ambito di criteri generali indicati dal Parlamento, ma tale soluzione (che contiene in nuce il rischio dell’emotività di un particolare contesto storico-politico in cui si tenda a valorizzare l’importanza di un fenomeno criminoso in astratto, ma assente o diversamente incidente in concreto nelle varie zone geografiche, o - all’opposto - il rischio dell’intenzione di deviare la vigilanza su determinati ambiti criminosi per i quali è mal tollerato il controllo di legalità) è tanto più plausibile quanto più si riesca, nei criteri generali posti nella legge, a considerare, per un verso, la diversificazione dell’espressione criminale sul territorio nazionale, lasciando poi ai procuratori della Repubblica coerentemente formulare le scelte appropriate e funzionali alle realtà soggette alla loro giurisdizione; per altro verso, a non alterare, attraverso un uso improprio dei poteri del Parlamento, la scala dei valori meritevoli di protezione penale.
Quand’anche tanto avvenisse, rimarrebbero da completare le prescrizioni di normazione secondaria che esigono la formulazione, nei documenti organizzativi, dell’analisi delle caratteristiche criminali sul territorio, dovendosi quanto meno chiarire attraverso quali fonti conoscitive tale analisi possa efficacemente essere svolta.
Potrebbe, sul punto, intervenire il legislatore con attenta individuazione delle informazioni da porre nella disponibilità dei procuratori?
In mancanza di una elaborazione legislativa al riguardo, occorrerebbe riflettere su possibili raccordi istituzionali, onerando (e al contempo legittimando) il procuratore a consultare enti qualificati, forze dell’ordine, autorità statali e periferiche, giacché da tali interlocuzioni potrebbe derivare un quadro più esaustivo sulle dinamiche criminali nel territorio e/o sulle aree della comunità nelle quali sia maggiormente avvertito il fabbisogno di tutela.
Su tale fabbisogno di tutela dovrebbe, perciò, essere tarata l’organizzazione dell’ufficio di procura, ferma restando la trattazione di qualsivoglia notizia di reato venga portata alla sua attenzione.
Individuati gli obiettivi prioritari, stabilita la distribuzione delle forze e delle risorse disponibili, il documento organizzativo dev’essere costruito in modo da salvaguardare l’indipendenza dei magistrati dell’ufficio e il giusto processo anche in fase d’indagini.
Uno dei fattori attraverso i quali si tutela l’indipendenza dei magistrati è costituito da un contenuto per così dire caratteristico del documento organizzativo, ossia l’assegnazione degli affari. I vecchi progetti tabellari degli uffici di procura della Repubblica antecedenti alle riforme del 2006 si riducevano, sostanzialmente, all’indicazione dei criteri attraverso i quali venivano distribuiti i fascicoli tra i vari sostituti, sin da epoche in cui non esistevano neppure le prassi di un’articolazione interna di ripartizione degli affari per materie specialistiche tra gruppi di lavoro.
La distribuzione degli affari deve avvenire attraverso criteri automatici e predeterminati in modo da salvaguardare l’esercizio dell’effettivo potere diffuso tra i magistrati, evitando personalismi con la concentrazione nelle mani di pochi delle indagini più particolari o complesse. La ripartizione in gruppi specialistici dovrebbe poi costituire un adeguato presidio alla formazione tecnico-culturale di ogni suo componente e, dunque, almeno in astratto, garantire interventi svolti con competenza professionale.
Pur trattandosi di argomento sul quale si è formata una rilevante esperienza, non si può non rilevare come la propensione a letture in chiave gerarchica dell’organizzazione degli uffici abbia indotto a soluzioni volte a dirottare sul capo dell’ufficio i procedimenti sulla base di criteri non privi di aspetti d’arbitrarietà. Può, ad esempio, apparire non in sintonia con l’oggettività del criterio di attribuzione dei procedimenti la scelta, nel documento organizzativo, di riservare al procuratore della Repubblica non determinate materie e/o tipologie di reato, ma, a prescindere da queste, i procedimenti nei quali risultino coinvolte, come indagati o come persone offese, determinate categorie di soggetti (ad esempio, gli appartenenti alle forze dell’ordine, i magistrati, etc.). Rimane, certo, il problema che, talvolta, le peculiarità delle vicende da indagare richiedano una particolare esperienza, sensibilità e autorevolezza del pubblico ministero che le tratta; in tali ipotesi, possono soccorrere espedienti e correttivi comunque compatibili con l’automatismo nell’assegnazione.
La ripartizione degli affari tra i singoli magistrati, negli uffici di medie e grandi dimensioni, raggruppati per aree specialistiche, deve accompagnarsi da modalità che incoraggino l’attenzione all’uniforme applicazione del diritto. Questa non necessariamente deve essere letta come un vulnus al potere diffuso, così come la sensibilità a un’impostazione ragionata sulle priorità non necessariamente è lesiva del principio di obbligatorietà dell’azione penale, e dunque dell’indipendenza del singolo pubblico ministero.
L’una e l’altra, infatti, costituiscono importanti capitoli dell’elaborazione di un progetto organizzativo partecipato, ottenuto (almeno nelle finalità normative) con il coinvolgimento di tutti i magistrati dell’ufficio, coinvolgimento costituente, peraltro, un preciso obbligo funzionale.
Si pensi ai temi dell’uniforme applicazione del diritto e della leale collaborazione che potrebbe unire legittimità e merito.
Quando venne scritto, l’art. 6 d.lgs n. 106/2006 nacque con pericolosi propositi. Si voleva, infatti, ricondurre al Procuratore generale della Corte di cassazione il controllo sulle organizzazioni delle procure territoriali, ben potendo, peraltro, utilizzare la leva in un certo senso intimidatoria del potere disciplinare. Così non è stato e la norma, che obbliga l’approdo presso la Procura generale della Corte di cassazione dei progetti organizzativi, oggetto di rilievi da parte del Csm, sarebbe apparsa priva di senso, non attribuendo al Procuratore generale della Cassazione alcuno specifico potere/dovere ulteriore, se non una mera presa d’atto. Occorre del resto rammentare che, all’art. 6 cit., grazie all’impegno di magistrati appartenenti a diverse estrazioni culturali di tipo associativo, si è cercato pian piano di dare il proficuo significato per una spinta propulsiva all’individuazione, attraverso anche lo studio dei progetti organizzativi oggetto di parziali rilievi da parte del Csm, di temi d’interesse comune che potessero già essere stati risolti da prassi virtuose adottate in singoli uffici. Ne è derivata l’idea di farne annualmente una selezione e, dunque, un’analisi sistematica attraverso l’acquisizione dei dati richiesti, per il tramite dei procuratori generali distrettuali, alle diverse procure territoriali, sollecitando un confronto centralizzato tra queste e ottenendo il non trascurabile risultato di veicolare conoscenze su soluzioni già adottate e, comunque, di attivare un dibattito aperto su argomenti diversamente destinati al silenzio e a una loro trattazione differenziata tra i diversi uffici.
Proprio su tale versante, i procuratori aggiunti ai quali siano assegnati compiti di coordinamento di gruppi di lavoro potrebbero essere maggiormente coinvolti in questa spirale di approfondimento di prassi interpretative, di certo funzionali ad apportare contributi verso una maggiore prevedibilità della decisione, percepita come bene da salvaguardare a fronte di un’azione giudiziaria forse esasperatamente differenziata a seconda di scelte talvolta non adeguatamente approfondite e ponderate del singolo magistrato, con abuso del suo potere diffuso.
L’articolazione tendenziale delle strutture organizzative degli uffici di procura in differenti gruppi specialistici agevola il più oculato utilizzo di tutti gli strumenti messi a disposizione del legislatore per operare scelte deflattive ovvero l’impiego di definizioni alternative all’esercizio dell’azione penale. Cosicché anche tali più particolari situazioni potrebbero entrare nel contenuto del documento organizzativo attraverso il quale assicurarne la diffusione e una più partecipe conoscenza.
Tra le stesse materie oggetto della legge delega n. 134 del 27 settembre 2021, ad esempio, ve ne sono alcune di particolare interesse per l’ufficio della Procura della Repubblica; l’enunciazione di principi e criteri direttivi sul processo penale telematico, sul sistema delle notificazioni, sulle condizioni di procedibilità, sulla giustizia riparativa, sull’esclusione di punibilità del fatto o, ancora, sugli stessi parametri in ragione dei quali spingere verso una richiesta di archiviazione piuttosto che verso l’esercizio dell’azione penale dall’esito incerto, costituiscono profili potenzialmente incidenti sugli stessi assetti organizzativi dell’ufficio.
E, del resto, le indicazioni di massima espresse nella legge delega, salvi gli affinamenti e le effettive declinazioni nel contesto dei decreti legislativi delegati, sembrano andare in una triplice direzione:
– accorciamento dei tempi del processo, incluse le fasi delle indagini preliminari;
– estensione delle garanzie di controllo giurisdizionale sull’attività d’indagine (verifica di tempistiche sulla legittimità di alcuni atti investigativi di tipo invasivo – come le perquisizioni non seguite da sequestro);
– generale tendenza deflattiva in ragione del rafforzamento di istituti sostanziali e processuali alternativi all’esercizio dell’azione penale e, tra questi, lo stesso parametro in ragione del quale debba richiedersi l’archiviazione, ossia «quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna».
Si tratta di principi che manifestano, peraltro, un’aspirazione a ricondurre l’ambito della verifica dibattimentale ai casi in cui le fonti di prova acquisite nelle indagini rendano plausibile una condanna, e non invece a situazioni in relazione alle quali si azzardi il tentativo di sperimentare una prova dall’esito incerto.
Parrebbe, perciò, profilarsi l’idea di un procedimento di indagini preliminari nel quale, per quanto possibile, si anticipino le verifiche in contraddittorio con la conseguente acquisizione di consapevolezza di tenuta della prova in sede dibattimentale. Viene per tal modo bandita la scelta del pubblico ministero di rinviare, alla cieca, al giudizio il vaglio dell’attendibilità dell’ipotesi accusatoria.
E, se si pone mente, per un verso, all’annunciato potenziamento degli istituti deflattivi e, per altro verso, alla valorizzazione della giustizia riparativa e delle soluzioni punitive alternative alla restrizione detentiva, sembra chiaro il segnale sull’intento di rarefazione del dibattimento e sull’articolazione della risposta punitiva.
Nel dibattimento, peraltro, traendo spunto da prassi giurisprudenziali virtuose, si innestano meccanismi per una sua razionalizzazione, premessa necessaria per un accorciamento dei tempi di definizione (si pensi all’idea della calendarizzazione del dibattimento collegiale, all’istituzionalizzazione dell’udienza di smistamento in funzione non solo e non tanto della programmazione delle udienze di trattazione successiva quanto, in primo luogo - e, segnatamente, nel processo monocratico -, di definizione alternativa anticipata rispetto al dibattimento).
L’ufficio della Procura di Firenze (come tanti altri uffici giudiziari), ad esempio, ha da tempo, in una certa misura, anticipato il contenuto della riforma in ragione dell’adozione di un sistema razionalizzato di coordinamento delle attività dei pubblici ministeri con le calendarizzazioni delle udienze degli uffici giudicanti, sia nella direzione di garantire nei processi penali (almeno tendenzialmente) la partecipazione del pubblico ministero delle indagini sia valorizzando le diverse specializzazioni in un percorso di progressiva corrispondenza tra Procura e Tribunale; il progetto, avviato sin dalla fine del 2018, si è progressivamente affinato grazie anche all’istituzione di una commissione interprofessionale (ossia partecipata da giudici, pubblici ministeri e avvocati), che si riunisce periodicamente per monitorare l’andamento organizzativo nei rapporti tra uffici requirenti e giudicanti. In tale sede vengono, ad esempio, esaminate le problematiche relative alle udienze di smistamento (per prassi, operato sia nel giudizio collegiale sia in quello monocratico), alla formazione dei dossier documentali (soprattutto in materie specialistiche) suscettibili di produzione sin da tale genere di udienza (ove non si realizzino le condizioni per soluzioni definitorie anticipate) nonché, in genere, tutte le variabili problematiche emerse e/o prospettabili nel giudizio preliminare e dibattimentale, in relazione alle quali si propongono le possibili soluzioni.
Non può non valutarsi con favore, perciò, la particolare disciplina delegata sull’udienza di smistamento nel giudizio monocratico, dalla quale, se accompagnata con la messa a disposizione di adeguate risorse di personale giudiziario e amministrativo (oltre che con un’oculata utilizzazione dell’ufficio del processo) potrebbero sortire risultati positivi sul piano di una più solerte definizione dei giudizi.
La scelta del legislatore di formulare una disciplina più dettagliata di tali argomenti non può, almeno in buona parte, non essere condivisa, perché in linea con le indicazioni delle fonti sovranazionali e coerente con l’impianto di un diritto punitivo moderno (ossia sistema polifunzionale nell’articolazione della diversificata risposta sanzionatoria); si deve, perciò, avanzare l’auspicio che il legislatore non disperda i risultati ottenuti attraverso l’adozione di prassi virtuose già in atto, nel tentativo di governare una giustizia penale gravemente compromessa dall’elevato numero delle pendenze, sempre valutate come sproporzionate rispetto agli organici e/o alle risorse disponibili. Sarebbe, parimenti, auspicabile un reale sostegno da parte del Ministero della giustizia nelle dotazioni logistico-informatiche effettivamente tarate sui bisogni e sugli obiettivi dei singoli uffici.
5. Il valore aggiunto del procedimento tabellare
Proprio quanto segnalato in riferimento alla necessaria interlocuzione tra ufficio inquirente e ufficio giudicante sarebbe sufficiente a giustificare la scelta di riportare alle verifiche di autogoverno le soluzioni organizzative adottate dal primo al pari di quanto avviene per il secondo.
Di certo, nel rapporto tra procure e uffici giurisdizionali di primo grado, le caratteristiche organizzative devono porsi in una relazione di reciproca armonia nella convergenza della realizzazione di neutrali obiettivi comuni: la rapida trattazione dei processi, l’uniforme interpretazione del diritto, una chiara previsione dei criteri di priorità, una condivisa utilizzazione della magistratura onoraria[19]. In tal senso, è sintomatico quanto sancito nel par. 3.2.d. della delibera Csm del 12 luglio 2007: «I consigli giudiziari potranno valutare –nell’ambito del più ampio esame delle tabelle degli uffici giudicanti e in relazione ai profili incidenti su di esse – i criteri adottati per l’organizzazione degli uffici di procura, atteso lo stretto rapporto di interdipendenza tra tali uffici, al fine di garantire una funzionalità complessiva del servizio nel settore penale».
E, da ultimo, con la circolare del 16 dicembre 2020, il Consiglio superiore della magistratura ha imposto ai procuratori di trasmettere la bozza del progetto organizzativo al presidente del tribunale, il quale può offrire il proprio contributo valutativo con riguardo agli aspetti interferenti con l’ufficio giudicante.
Si tratta, evidentemente, di esigenze e di risultati auspicabili, che esigono da parte di tutti i protagonisti coinvolti una stretta adesione a un principio di leale collaborazione, principio che investe non solo ogni magistrato nel rapporto con i colleghi del proprio ufficio, ma anche di ogni ufficio nelle relazioni con gli altri uffici.
Solo la sinergia tra tutti tali elementi, individuali e collettivi, può produrre risultati di una qualche utilità per l’utenza della giustizia, che dovrebbe costituire la principale motivazione di ogni scelta strategica.
Una particolare applicazione del principio di leale collaborazione si può individuare anche tra il magistrato preposto all’organizzazione e la platea dei magistrati componenti dell’ufficio.
Al primo spetterà di tirare le fila, componendo in un ragionamento le esigenze rappresentate dai magistrati presenti nell’ufficio e inerenti all’ambito di settori più specifici o più generali. Un ragionamento organizzativo sarà possibile solo attraverso un confronto svolto sulla base di una predisposizione empatica nei diversi interlocutori, da ciascuno esigendosi l’acquisizione di un senso delle proprie funzioni e di un imprescindibile spirito di servizio che dovrebbe connotare permanentemente il mestiere del buon magistrato.
Ed è, perciò, in tale contesto, anche in ragione delle considerazioni svolte, l’importanza di riflettere sull’effettiva portata dell’organizzazione, sull’opportunità di ripulirla dalla retorica della cultura della dirigenza intesa nei termini semplicistici di acquisizione di una posizione di potere o di supremazia, poco compatibile con l’impianto valoriale e di principi costituzionali.
È in tale ambito che appare necessario ragionare, a legislazione invariata, sul tipo di rapporto tra dirigenti e magistrati, soprattutto negli uffici di procura, e sull’importanza di far prevalere il metodo sui personalismi.
È in tale ambito che è ineludibile trasformare, per tutti i magistrati (dai più giovani ai più vecchi), la prescrizione deontologica in autentici ed effettivi conformi comportamenti. Il sistema vigente, che pure contempla momenti di concentrazione di potere nelle mani del dirigente dell’ufficio di procura, nello stesso tempo consente ampi spazi di confronto istituzionale per la verifica sull’attendibilità dei modelli organizzativi adottati, con possibilità di loro miglioramento.
Si tratta di occasioni che occorrerebbe valorizzare, rifiutando atteggiamenti talvolta presuntuosi o pigri.
Certo, lo schema delineato nella legge e nella formazione secondaria rimanda all’idea di un procedimento che è tanto più efficace e democratico quanto più sia effettivamente partecipato.
È peraltro vero che, talvolta, la partecipazione o è malamente attivata oppure non risulta adeguatamente percepita come un preciso compito gravante su ciascun magistrato. Allora, il progetto organizzativo che ne consegue viene vissuto come calato dall’alto e non vi si presta un’adeguata adesione.
Tutti i principi (uniformità nell’esercizio dell’azione penale, maggiore responsabilizzazione del pm, maggiore consapevolezza nella partecipazione dell’accusa nel giudizio e, per corollario, continuità tra pm delle indagini e pm del giudizio), in astratto condivisibili, posti in sede legislativa e di autogoverno, hanno determinato tentativi di un loro concreto perseguimento, che, di fatto, si sono risolti in un’inevitabile complicanza nell’organizzazione delle attività d’udienza rispetto al sistema precedentemente operante, che poteva essere governato con maggiore facilità.
Le difficoltà, tuttavia, sembrano principalmente riconducibili a una visione di separatezza tra uffici giudiziari (procura e tribunale) invece accomunati da identiche esigenze, fronteggiabili solo con un’azione organizzativa autenticamente concertata.
Se non altro, solo per tali aspetti sarebbe proficuo, per un verso, omologare il procedimento di formazione del documento organizzativo delle procure e del documento tabellare degli uffici giudicanti, sottoponendo l’uno e l’altro all’approvazione dell’organo di autogoverno e, per altro verso, promuovere, attraverso gli organi di autogoverno, un efficace coordinamento organizzativo tra procuratore della Repubblica e presidente del tribunale.
6. Le soluzioni normative contenute nel disegno di legge delega AC 2681
Il tema del coordinamento organizzativo tra uffici requirenti e uffici giudicanti è reso oggetto di un esplicito riconoscimento normativo nel disegno di legge delega AC 2681: «Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura».
Tra i diversi emendamenti proposti dal Governo[20], alcuni riguardano proprio i documenti organizzativi degli uffici giudiziari e, in particolare, la procedura per la loro approvazione e il loro contenuto.
Sul piano procedurale, si codifica il riferimento al parere che sul progetto organizzativo deve esprimere il presidente del tribunale e, specularmente, si prevede che il procuratore della Repubblica debba esprimere il proprio parere sul documento organizzativo del tribunale. L’adozione dell’uno e dell’altro presuppone il parere del presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati[21].
La regola di un parere incrociato parrebbe voler portare a un’intensa condivisione nella costruzione dei documenti organizzativi, che devono essere coerenti l’uno con l’altro e, in relazione a taluni ambiti, devono contenere scelte organizzative concertate tra presidente del tribunale e procuratore della Repubblica.
I risultati ottenibili molto dipenderanno dal grado d’intensità che, nella formulazione dei pareri incrociati, sarà ritenuto esigibile dal Consiglio superiore della magistratura; cosicché, quanto maggiore verrà valutato l’approfondimento del parere, tanto maggiore sarà l’esigenza, per gli uffici, di un’interlocuzione non solo formale, ma più decisamente indirizzata verso soluzioni autenticamente comuni. In tale ambito di riflessione, ad esempio, potrebbe porsi una più ponderata attenzione sul tema del giudizio (preliminare e dibattimentale) con tutti gli ulteriori aspetti collaterali e sul tema dei criteri di priorità, che potrebbero pure essere condizionati da una più chiara giurisprudenza adottata dal tribunale sugli istituti deflattivi. La conoscenza degli orientamenti del tribunale (se non addirittura una loro rappresentazione sinottica, in relazione a determinate categorie di reato) con la conseguente valutazione “predittiva” dei possibili esiti di giudizio potrebbe comportare l’incanalamento degli affari penali in percorsi alternativi al giudizio, con l’adozione di provvedimenti definitori diversi dall’esercizio dell’azione penale (si pensi all’utilizzo dell’istituto della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cp, fortemente assoggettato agli orientamenti interpretativi dei giudici) e l’alleggerimento dei ruoli d’udienza dibattimentale.
Né di minore importanza parrebbe, in tale prospettiva, il parere del presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati.
Tutto ciò occorrerà svolgere in termini coerenti all’obiettivo di raggiungere una sorta di omologazione dei documenti organizzativi (sia delle tabelle del tribunale sia dei progetti delle procure), che dovranno essere redatti sulla base di «modelli standard stabiliti con delibera del CSM e trasmessi in via telematica». Anche per i pareri che i consigli giudiziari devono esprimere sui documenti organizzativi si propone la regola di una loro redazione sulla base di schemi modulari, destinati a contenere esclusivamente le segnalazioni su eventuali criticità rilevate.
Con tali regole sembrerebbe perseguirsi un risultato di una più agevole e uniforme attività compilatoria non solo in ragione di una modulistica grafica predeterminata, ma (si deve ritenere) anche, e soprattutto, in ragione di una griglia di informazioni preselezionate che si ritengano indispensabili e, in quanto tali, costitutive di un contenuto minimo indefettibile del documento organizzativo[22].
L’individuazione del contenuto minimo indefettibile sembra di potersi rintracciare, negli intendimenti governativi, nell’art. 13 con il quale si propone una modifica dei commi 6 e 7 dell’art. 1 d.lgs n. 106/2006.
La prima delle disposizioni sopra richiamate si vorrebbe modificata nei termini seguenti:
«6. Il procuratore della Repubblica predispone, in conformità ai principi generali definiti dal Consiglio superiore della magistratura, il progetto organizzativo dell’ufficio, con il quale determina:
a) le misure organizzative dell’ufficio, che tengano conto dei criteri di priorità indicati dalla legge per la trattazione dei procedimenti, nonché del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili;
b) i compiti di coordinamento e direzione dei procuratori aggiunti;
c) i criteri di assegnazione e di coassegnazione dei procedimenti e le tipologie di reato per le quali i meccanismi di assegnazione dei procedimenti sono di natura automatica;
d) i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione dei procedimenti;
e) i criteri per l’individuazione del procuratore aggiunto o comunque del magistrato designato come vicario, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106;
f) i gruppi di lavoro, salvo che la disponibilità di risorse umane non ne consenta la costituzione, e i criteri di assegnazione dei sostituti procuratori a tali gruppi, che devono valorizzare il buon funzionamento dell’ufficio e le attitudini dei magistrati, nel rispetto della disciplina della permanenza temporanea nelle funzioni».
Nulla (o poco) di nuovo sotto il sole, se si rammenta che gli argomenti aggiunti nel comma 6 dell’art. 1 d.lgs n. 106/2006, di cui si suggerisce la modifica, riguardano in massima parte temi sui quali già le circolari del Csm pretendevano un’attenta indicazione. Vi si aggiunge il riferimento ai criteri di priorità, secondo la formula già adottata nella legge delega n. 134/2021 (vds., supra, par. 4).
Le novità maggiori, invece, sono contenute nella proposta di riedizione del comma 7 dell’art. 1 d.lgs n. 106/2006, non soltanto – come già rilevato – con riguardo ai necessari pareri del presidente del tribunale e del presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati, ai quali l’approvazione del progetto organizzativo è sottoposto, ma anche della sua durata quadriennale (e non più triennale) e della sua tacita rinnovazione, alla scadenza, salvo che non ne sopravvenga un altro.
A chiusura di una disciplina funzionale a un’operatività facilitatrice nell’iter di formazione, verifica e approvazione dei documenti organizzativi (sia per gli uffici giudicanti sia per gli uffici requirenti), si propone d’introdurre un’inedita forma di loro “approvazione per silenzio”: tali documenti si intendono approvati «ove il Consiglio superiore della magistratura non si esprima in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario, salvo che siano state presentate osservazioni dai magistrati dell’ufficio o che il parere del consiglio giudiziario sia a maggioranza»[23].
Un elemento innovativo coerente all’allineamento della procedura di approvazione del progetto organizzativo delle procure al documento tabellare degli uffici giudicanti è il riferimento, nell’ambito della proposta di modifica del comma 7 dell’art. 1, d.lgs n. 106/2006, alla necessità che il Csm proceda all’approvazione del progetto organizzativo, valutate anche «le eventuali osservazioni formulate dal Ministro della giustizia ai sensi dell’articolo 11 della legge 24 marzo 1958, n. 195»[24].
Il richiamo all’art. 11 della l. 24 marzo 1958, n. 195 è speculare all’identico richiamo operato all’interno dell’art. 7-bis del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 per l’approvazione del documento organizzativo degli uffici giudicanti:
«1. La ripartizione degli uffici giudiziari di cui all’art. 1 in sezioni, la destinazione dei singoli magistrati alle sezioni e alle corti d’assise, l’assegnazione alle sezioni dei presidenti, la designazione dei magistrati che hanno la direzione di sezioni a norma dell’art. 47-bis, secondo comma, l’attribuzione degli incarichi di cui agli artt. 47-ter, terzo comma, 47-quater, secondo comma, 50-bis, il conferimento delle specifiche attribuzioni processuali individuate dalla legge e la formazione dei colleghi sono stabiliti con decreto del Ministro della giustizia in conformità delle delibere del Consiglio superiore della magistratura assunte sulle proposte dei presidenti di corte d’appello, sentiti i consigli giudiziari»;
«2. Le delibere di cui al comma 1 sono adottate dal Consiglio superiore della magistratura, valutate le eventuali osservazioni del Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 11 legge 24 marzo 1958, n. 195».
La facoltà da parte del Ministro di formulare osservazioni al documento tabellare degli uffici giudicanti non risulta, storicamente, mai esercitata: perché, in riferimento agli uffici requirenti, si è proposto di replicare (piuttosto che abrogare) il secondo comma dell’art. 7-bis rd 30 gennaio 1941, n. 12?
L’interesse da parte del Ministro all’esercizio delle osservazioni, benché assente in riferimento al documento tabellare degli uffici giudicanti, potrebbe in effetti riaccendersi proprio in riferimento al progetto organizzativo delle procure, rischiando d’interferire sui contenuti tipici dell’organizzazione relativamente all’esercizio dell’azione penale anche in relazione ai criteri di priorità, seppure nella cornice dei principi indicati dalla legge.
Si prospetta, perciò, a fronte di una norma che contempla la facoltà di osservazioni del Ministro, una sua diversificata applicazione: assente (conformemente al passato) rispetto al documento tabellare dei giudicanti, potenzialmente scrupolosa (con declinazione inedita) rispetto al progetto organizzativo delle procure.
Una norma destinata, in astratto, a produrre intromissioni del Ministro sull’organizzazione sia degli uffici giudicanti sia degli uffici requirenti verrebbe, in concreto, a incidere solo sull’organizzazione di questi ultimi, per tal modo preparando il terreno al distacco tra gli uni e gli altri.
È, in tale prospettiva, particolarmente evocativo il coacervo dei sub-emendamenti che intendono realizzare in maniera decisa la vexata separazione delle funzioni, attraverso due tipi d’intervento normativo:
– abrogazione di tutte le norme che contemplano deroghe al divieto di tramutamento tra le funzioni giudicanti e le funzioni requirenti e viceversa, di fatto inglobando le istanze referendarie, che verrebbero, per tal modo, soddisfatte nella direzione perseguita dai proponenti[25];
– inserimento nel disegno legge delega dell’art. 1-bis, che, intitolato «separazione delle funzioni», contempla un concorso d’accesso in magistratura con opzione tra funzione giudicante e funzione requirente, uno sdoppiamento all’interno delle commissioni del Csm tra sezioni riferite ai magistrati giudicanti e ai magistrati requirenti, una distinzione di corsi di formazione all’interno della Scuola della magistratura per la funzione giudicante e per la funzione requirente[26].
Aleggiano, dunque, i propositi di imprimere una forte radicalizzazione distintiva tra giudici e pubblici ministeri sin dall’accesso al concorso in magistratura, non garantendo, peraltro, che all’opzione manifestata dal candidato promosso segua automaticamente una sua coerente destinazione di funzioni (e con il rischio, tra l’altro, che un soggetto si trovi costretto per sempre in una funzione che non aveva scelto e rispetto alla quale sono precluse anche le future possibilità di cambiamento).
Benché tali proposte più estreme siano scomparse nel disegno di legge delega approvato, con delibera del 14 aprile 2022, dalla II Commissione permanente, neppure la soluzione residua sulla modifica del comma 3 dell’art. 13 d.lgs n. 160/2006 parrebbe soddisfare i parametri del “buon senso”:
– si pone un limite alle volte in cui al magistrato sia consentito il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti (e viceversa), ossia per non più di una volta;
– si pone un limite temporale entro il quale tale unico passaggio può essere esercitato, ossia entro il termine di sei anni «dal maturare per la prima volta della legittimazione al tramutamento previsto dall’art. 194 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12»;
– si stabilisce che, oltre tale termine (che corrisponde alla prima legittimazione alla domanda di tramutamento e, dunque, all’inizio del percorso professionale), il passaggio di funzione è consentito,
sempre per una sola volta, alle seguenti condizioni:
· dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, solo se l’interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;
· dalle funzioni requirenti alle funzioni civili o del lavoro, solo in uffici in cui non vi sia il rischio che l’interessato possa essere chiamato a svolgere funzioni giudicanti penali o miste (neppure in supplenza).
La disciplina è poco comprensibile nel rifiuto di tesaurizzare la formazione professionale non soltanto con la preclusione del passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti penali, ma soprattutto con la preclusione del passaggio dalle funzioni giudicanti penali alle funzioni requirenti, in quanto si vuole che approdi a queste ultime il magistrato digiuno dell’esperienza maturata nell’esercizio giurisdizionale penale, elemento che, invece, meriterebbe di essere valorizzato al massimo grado nella prospettiva della costruzione empirica di un pubblico ministero con caratteristiche più aderenti allo statuto normativo costituzionale e processuale.
La puntigliosa attenzione riservata dal legislatore a tale argomento pare, peraltro, sproporzionata per eccesso rispetto all’entità che, nella storia della magistratura italiana, si è manifestata nel fenomeno del tramutamento tra funzioni giudicanti e requirenti e viceversa, come plasticamente dimostra la sottostante tabella fornita dal Consiglio superiore della magistratura[27]:
Sarebbe difficile negare che il problema della separazione delle funzioni sia stato sempre di dimensioni minimali già ancor prima delle riforme del 2006, che per la prima volta posero il divieto generale, derogabile sulla base di alcune condizioni (tra le quali, principalmente, l’obbligo di trasferirsi in altro distretto di corte d’appello).
Si consideri, ad esempio, il raffronto tra l’anno 1996, nel quale si segnala il maggiore numero (138) di tramutamenti dalla funzione requirente alla funzione giudicante (direzione che maggiormente preoccupa), e l’anno 2021, nel quale si segnala il numero di 16 tramutamenti dalla funzione requirente alla funzione giudicante, corrispondenti rispettivamente all’1,5% su un organico di 9.109 unità e allo 0,2% su un organico di 10.751 unità[28].
L’insistenza sul tema è, perciò, essenzialmente ideologica e costituisce la premessa su cui realizzare la definitiva e formale separazione tra giudici e pubblici ministeri, ponendoli in “ordinamenti” distinti.
La strategia funzionale a porre le basi per una distinzione di razza tra funzioni giudicanti e funzioni requirenti si rivela, tuttavia, in disaccordo non solo con il proposito dichiarato di omologare gli assetti organizzativi di giudici e pubblici ministeri nelle loro strutture predisposte per garantire indipendenza (criteri di assegnazione degli affari), professionalità (valorizzazione delle specializzazioni), funzionalità (standard di rendimento) e partecipazione diffusa all’elaborazione dei progetti (procedure di approvazione), ma anche con la volontà, anch’essa manifestata nel tortuoso iter legislativo, di eliminare l’impronta di gerarchizzazione negli uffici di procura, secondo una linea di tendenza che, in sé astrattamente condivisibile, dovrebbe essere percorsa in tracciati di maggiore coerenza e in articolati normativi caratterizzati da più chiara sistematicità[29].
È, dunque, necessario che a tutto questo si trovi un filo conduttore.
Non sembrerebbe logicamente consequenziale un sistema in cui, per un verso, il governo delle procure sia strutturato in modalità tendenzialmente orizzontale, con partecipazione corale di tutti i componenti dell’ufficio e con la sola supervisione di un “coordinatore” (ossia un procuratore “de-gerarchizzato”) e, per altro verso, si attribuisca al Ministro la facoltà d’interferire nelle scelte di organizzazione.
Tale interferenza, infatti, parrebbe più coerente con un sistema in cui il governo delle procure sia strutturato in senso verticale, su base gerarchica e “de-giurisdizionale”, ossia non solo con caratteristiche d’indipendenza interna assai attenuate, ma anche con interdipendenza rispetto al potere esecutivo.
La soluzione compatibile con l’attuale assetto costituzionale reclama, però, un sistema in cui sia salvaguardata sicuramente l’“indipendenza esterna” del pubblico ministero, che, invece, ogni forma d’impropria interferenza del Ministro nell’assetto organizzativo degli uffici di procura rischierebbe di minacciare.
In tale prospettiva, le osservazioni del Ministro agli assetti organizzativi degli uffici giudiziari devono inscriversi entro i confini dei compiti assegnati dall’art. 110 della Costituzione, in particolare sul funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
Piuttosto di riportare pedissequamente il secondo comma dell’art. 7-bis rd 30 gennaio 1941, n. 12 nell’iter di approvazione del documento organizzativo degli uffici requirenti, varrebbe invece la pena modificarne il contenuto, delimitando espressamente il perimetro delle osservazioni del Ministro al contenuto dell’art. 110 Cost., per tal modo attribuendo uno spunto di maggiore efficacia a una norma, rimasta priva di applicazione, nella sua vigente formulazione, in riferimento al documento tabellare degli uffici giudicanti; tale norma, se opportunamente modificata in base ai contenuti dell’art. 110 Cost., diverrebbe quindi di più facile esportabilità anche in riferimento al documento organizzativo degli uffici requirenti, senza alcun rischio di ingenerare sospetti di equivoche (in quanto non pertinenti) intromissioni del potere esecutivo sui loro assetti.
La sottoposizione del progetto organizzativo (al pari del documento tabellare degli uffici giudicanti) alle eventuali osservazioni del Ministro si giustificherebbe, così, in ragione dell’interesse (almeno teorico) del Ministro della giustizia all’approntamento di quanto occorra all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, e realizzerebbe in senso virtuoso il principio di collaborazione istituzionale.
7. Conclusioni e un’apparente digressione
La decisione di assegnare al legislatore delegato il compito di «allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti» (art. 1, comma 9, lett. i, l. 27 settembre 2021, n. 134) potrebbe essere l’occasione per chiarire alcuni profili non adeguatamente esplorati nell’elaborazione normativa di autogoverno ovvero per rimetterne a tale organo gli approfondimenti necessari.
Tra i profili di possibile interesse, possono, solo a titolo esemplificativo, essere menzionati i seguenti:
– l’indicazione più stringente sulle fonti utilizzabili dal procuratore della Repubblica per l’analisi dettagliata ed esplicita della realtà criminale del territorio;
– la doverosa collaborazione tra dirigenti degli uffici giudicanti e requirenti nell’elaborazione di una piattaforma organizzativa concernente ambiti di comune interesse;
– la formazione di momenti di riflessione autocritica su vicende sulle quali siano emersi errori d’impostazione in indagini dall’esito infruttuoso e/o con conseguenze inutilmente conflittuali rispetto a categorie sociali o istituzioni coinvolte con modalità non appropriate.
Se sul primo dei suindicati aspetti non compare alcun riferimento né nella legge delega n. 134/2021 né nel disegno di legge delega AC 2681, solo in tale ultimo articolato, invece, si accentua il principio della collaborazione tra dirigenti degli uffici, proponendo d’introdurre un incrociato parere sui rispettivi documenti organizzativi. Il terzo argomento è assente nella legge delega così come nel disegno di legge delega AC 2681 nella sua ultima versione, approvata con delibera del 14 aprile 2022 della II Commissione permanente.
Il percorso, perciò, è ancora suscettibile di completamento e, forse, di più approfondita analisi.
Nell’attuale fase storica, peraltro, si tende ad attribuire un peso forse troppo importante all’aspetto organizzativo e alle procedure formali attraverso le quali questo si compie; si tratta di un argomento di sicura rilevanza, la cui esasperazione, però, rischia di offuscare la sostanza del mestiere di magistrato e, in particolare, del magistrato penale nella sua moderna declinazione.
In sede legislativa e di normazione secondaria, qualsiasi impostazione si voglia riconnettere agli apparati organizzativi, non si deve infatti perdere di vista il principale significato del diritto e del processo penale.
L’interrogarsi sul diritto penale chiama in causa non solo la sua consistenza precettiva, ma anche la sua applicazione operativa. I dubbi sulle peculiarità di tale disciplina, perciò, coinvolgono non soltanto le funzioni del legislatore e della scienza giuridica, ma anche – se non soprattutto – i soggetti che, sulla base delle regole, dei principi e, anche, delle elaborazioni teoriche, hanno il compito di attribuire torti e ragioni, di guardare negli occhi colui che è prima indagato e poi giudicato.
Il processo è un insieme di regole attraverso le quali trova attuazione il diritto penale, a sua volta composto di principi e di descrizioni di divieti con la comminazione delle relative sanzioni, direttamente o potenzialmente incidenti sulla libertà personale.
Quale sia l’essenza di quest’ultimo è difficile dire.
La scienza giuridica pare ormai rassegnata al convincimento che la ricerca “romantica” dell’essenza, di un nucleo ontologico del diritto penale non può portare ad alcun risultato soddisfacente. Per lo stesso diritto, che poggia su una dimensione costantemente mutante, è pressoché impossibile descrivere tutte le condotte e, soprattutto, dominare, al livello gnoseologico, il disvalore che pure si dichiara di volere tutelare[30].
Eppure, è difficile disconoscere la coesistenza nell’uomo (in ogni uomo) del bene e del male.
Se volessimo tentare di rinvenire un paradigma concettuale che guidi la mano del legislatore nella creazione delle fattispecie incriminatrici astratte, potremmo provare a utilizzare il concetto del limite, non solo come confine tra il bene e il male, ma anche come misura nell’approccio alle soluzioni giuridiche con le quali si vogliano contrastare le aggressioni nei vari gradi ai beni che si intendono tutelare[31].
L’idea del limite è, del resto, il fondamento dei principi cardine del diritto penale moderno, inaugurato sulla base delle elaborazioni filosofiche dell’illuminismo (si pensi, ad esempio, alla configurazione del diritto penale come extrema ratio[32]).
Il concetto del limite, che, a un primo approccio, può apparire inadeguato a contenere la tendenza a fagocitare indiscriminatamente i comportamenti umani nel diritto penale, risulta, invece, suscettibile di una sua concettualizzazione giuridica all’interno del diritto positivo.
Il principio di ragionevolezza insito nell’art. 3 della Costituzione è, in tal senso, di rilevanza decisiva, perché, se non condiziona le scelte di valore, ne diventa un discrimine, inducendo a una selezione sulla base di parametri modali sotto un duplice profilo: per un verso, in relazione all’articolazione del diritto punitivo e, per altro verso, in riferimento all’individuazione degli elementi indefettibili dell’illecito penale.
Solo in base al principio di ragionevolezza si può concepire la polidimensionalità del sistema punitivo, nel cui ambito riportare non solo la sanzione penale, ma anche sanzioni di natura diversa, che sarà compito del legislatore somministrare distinguendo a seconda delle utilità collettive e delle convenienze di prevenzione generale.
E, anche all’interno del diritto penale, è il principio di ragionevolezza che impone soluzioni gradualistiche di tutela attraverso la creazione di comandi e/o divieti che, con intensità crescente, vengono posti per prevenire il più possibile la distruzione di beni ritenuti degni di massima protezione[33].
Il principio di ragionevolezza, perciò, consente la creazione di una griglia preparatoria che dovrebbe porre il legislatore nelle condizioni di scegliere oculatamente se e come punire.
E nella scelta del come punire non si può neppure prescindere dalla considerazione degli ingredienti necessari a comporre l’illecito penale, quali suoi propri connotati, che a loro volta diventano fattori al contempo di selezione e di salvaguardia. Di selezione: perché se nel reato devono essere riconoscibili determinati caratteri, a questi il legislatore deve essere particolarmente attento nell’opera creativa della norma. Di salvaguardia: in funzione della tenuta garantista del sistema penale.
Al senso di misura che si voleva accompagnasse l’approccio al ricorso alla sanzione penale (extrema ratio) si riportano, infatti, pure i fattori fondanti del diritto penale classico, poi riposti nelle scelte della Carta costituzionale.
Con tali fattori costitutivi, di cui si può tentare una breve (anche se ovvia) rassegna, si è cercato di risolvere quell’endiadi, “diritto penale”, le cui componenti verbali paiono dare luogo a un ossimoro accostando al termine diritto il termine penale, quasi che la punizione stessa (ossia, in definitiva, l’inflizione di un male) possa radicarsi, di per sé, in un diritto.
In realtà, il vero significato dell’endiadi in una dimensione garantista è assai più complesso e tiene conto di una serie di elementi, a fondamento dei quali vi è sempre la persona umana, con l’indefettibile compresenza in se stessa del bene e del male, i cui sconfinamenti sono rilevabili attraverso lo strumento dello specchio perché, in definitiva, è l’uomo la misura dei comandi e dei divieti. È l’uomo, infatti, che nel diritto penale moderno si declina nella triade “cittadino – imputato/reo – persona offesa/vittima”.
Nella civiltà giuridica moderna, che si pretende svincolata da pretese arbitrarie sui propri cittadini, lasciati principalmente liberi nel pensiero e nella condotta, fino ai limiti invalicabili della lesione agli altrui pari diritti e della lesione/minaccia ai fondamenti della repubblica democratica, era necessario che nella costruzione dei cardini del diritto penale si rifiutasse di concepire sanzioni potenzialmente restrittive della libertà personale sul tipo di autore[34], sulla condotta di vita, su vaghe nozioni di pericolosità.
Si afferma, per conseguenza, un diritto penale incentrato sul fatto tipico di natura tendenzialmente offensivo di beni e oggetto di previa determinazione legale.
Un sistema, dunque, di diritto penale sostanziale all’interno del quale si individuano una serie di intolleranze:
– alla costruzione di fattispecie incriminatrici attraverso elementi costitutivi dai contorni indefiniti;
– alla possibilità di applicazione retroattiva contra reum della norma penale;
– alla costruzione di fattispecie incriminatrici imperniate sul tipo di autore;
– alla costruzione di fattispecie incriminatrici in funzione di un loro uso meramente processuale;
– al ricorso all’analogia;
– al ricorso a reati di mero sospetto.
I principi di diritto penale sostanziale trovano poi un contrappunto sul piano processuale, in cui si afferma la presunzione d’innocenza, cosicché sarebbero inibite la possibilità dell’inversione dell’onere probatorio ponendolo a carico dell’imputato, la possibilità di costruire fattispecie sostitutive della prova. Non dovrebbero esistere istituti inducenti a forme di collaborazione o a confessioni (nemo tenetur se detegere). Nella ricerca della verità processuale è fondamentale la funzione maieutica del principio del contraddittorio, con l’inevitabile corollario della formazione della prova alla presenza delle parti innanzi al giudice incaricato della decisione.
Il diritto moderno, dunque, non nega l’esistenza del male; in una visione laica, ammette che esso sia presente affianco al bene in ciascun individuo e, perciò, pone dei limiti non al male in assoluto – perché sarebbe impossibile –, ma alle modalità della sua rilevazione e della sua prevenzione. Protagonista protetto di questo iter è sempre l’uomo, in tutta la sua complessità: uomo cittadino (garantismo sociale), uomo vittima (garantismo riparatore), uomo imputato (garantismo individuale).
Anche quando l’imputato diventi condannato e poi detenuto, non perde le caratteristiche di persona, cosicché il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione perentoriamente afferma che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Il carcere non può mai essere neutro o indifferente ai singoli individui che con le loro storie e le loro esistenze contiene; se lo fosse, diverrebbe inumano, in quanto indifferente all’uomo stesso, oscurandone dignità e bisogni[35].
Su tali basi, si comprende quali e quante debbano essere le regole attraverso le quali può formarsi un giudizio sull’accertamento della responsabilità di chi sia chiamato a rispondere di un reato. Sono regole contenitive del potere di chi indaga, dell’esercizio accertativo del giudice innanzi al quale si svolge la verifica della fondatezza dell’accusa, indicatrici delle modalità di esercizio del diritto della difesa.
È un cammino complesso e drammatico in ogni momento del suo svolgimento; sin da quando un fatto è iscritto nel registro di notizie di reato, il percorso non è mai libero, ma deve essere rispettoso di una serie di norme la cui principale ragione è nel contenimento di derive persecutorie e giustizialiste animate da un sentire emotivo e irrazionale, come quello che spesso anima chi è colpito dal delitto o la stessa opinione pubblica, che, a fronte del grave crimine, vorrebbe del suo autore, o semplicemente di chi è indicato in via provvisoria come ipoteticamente tale, la punizione con la massima severità e nel più breve tempo possibile. Anche in relazione a tali aspetti, si rivelano particolarmente complessi e delicati i compiti rimessi al pubblico ministero, in quanto se a quest’ultimo spetta di agire con determinazione a presidio della legalità, analogamente lo stesso (se non voglia rischiare di contraddirsi) è custode dei diritti e delle garanzie che la legge sostanziale e processuale stabilisce in favore dei soggetti coinvolti nel procedimento investigativo e nel processo di accertamento delle responsabilità.
Il percorso parrebbe poter essere più agevolmente compiuto nell’ambito di una visione culturale unitaria della giurisdizione che, al contrario, la subordinazione del progetto organizzativo alle valutazioni del Ministro della giustizia rischia di rompere, soprattutto nella visione distopica di una perseguita separazione ordinamentale tra giudice e pubblico ministero.
La separazione delle carriere, oggetto di uno dei referendum sdoganati dalla Corte costituzionale, inevitabilmente preparerebbe, anche sul piano normativo, all’abbandono financo di un atteggiamento giuridico del pubblico ministero tarato sul paradigma della giurisdizione, che è quel poco che rimane del senso di comune appartenenza alla magistratura delle funzioni giudicanti e requirenti.
L’idea (condivisibile) di allineare la procedura di approvazione del progetto organizzativo alla procedura tabellare prevista per l’organo giudicante e le proposte (seppure in stato larvale) di eliminare l’impronta gerarchica negli uffici di procura entrano, perciò, in contraddizione con l’idea di enfatizzare le osservazioni del Ministro con incursioni discutibili in valutazioni tipiche dell’autorità giudiziaria e, soprattutto, con il proposito di separare partendo dall’intenzione opposta di allineare gli assetti organizzativi tra giudici e pubblici ministeri.
Verrebbe, non senza aporie logiche, ad attenuarsi la portata di rivoluzione culturale sul processo di ammodernamento del progetto organizzativo, del quale si sarebbe potuto iniziare a valutare i contenuti sul piano delle garanzie.
Proprio tale significato, nel suo nucleo essenziale, dovrebbe ispirare (ben oltre agli aspetti di efficienza, di indipendenza interna ed esterna) le verifiche rimesse (ma senza alcun tipo d’interferenza politica del Ministro della giustizia) all’organo di autogoverno.
Un documento organizzativo, nella sua funzione di raccordare sul piano del funzionamento operativo principi e norme, non dovrebbe dimenticare il senso del diritto e del processo penale, nel segno della forse unica forma di moderazione esigibile.
1. Sul punto, infra, par. 4.
2. Regole più dettagliate sembrano contenute nel disegno di legge delega AC 2681 «Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura», sul quale infra, par. 6.
3. Così R. Romboli, Quale legge elettorale, per quale Csm: i principi costituzionali, la loro attuazione e le proposte di riforma, in Questione giustizia online, 25 maggio 2020, www.questionegiustizia.it/data/doc/2537/romboli-legge-elettorale-csm.pdf.
4. In tal senso, P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura, in Questione giustizia online, 18 dicembre 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/l-organizzazione-degli-uffici-di-procura_18-12-2019.php.
5. Secondo il quarto comma dell’art. 107 Cost., «Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme dell’ordinamento giudiziario».
6. Così P. Gaeta, L’organizzazione, op. cit.
7. Secondo il primo comma dell’art. 104 Cost., «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»; secondo l’art. 105 Cost., «Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati».
8. In tal senso G. Giacobbe, Artt. 104-107, La Magistratura, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, tomo II, Zanichelli/Il Foro italiano, Bologna/Roma, 1986, p. 8.
9. P. Gaeta, L’organizzazione, op. cit., pp. 6 ss.
10. N. Zanon, Pubblico ministero e Costituzione, Cedam, Padova, 1996, pp. 31 e 32.
11. Secondo il quale, «[n]el corso delle udienze penali, il magistrato designato svolge le funzioni del pubblico ministero con piena autonomia e può essere sostituito solo nei casi previsti dal codice di procedura penale. Il titolare dell’ufficio trasmette al Consiglio superiore della magistratura copia del provvedimento motivato con cui ha disposto la sostituzione del magistrato».
12. P. Gaeta, L’organizzazione, op. cit., p. 9.
13. In tali documenti, come ad esempio in quello intitolato «Criteri di organizzazione dell’ufficio e di assegnazione dei procedimenti di cui all’art. 1, co. 6, d.lvo 106/2006», redatto il 28 giugno 2006 dall’allora Procuratore della Repubblica di Firenze, si potranno rintracciare affermazioni del seguente tenore:
1. «L’art. 1, co. 1, del dpr 20 febbraio 2006, n. 106 stabilisce che il procuratore della Repubblica è titolare esclusivo delle funzioni attribuite dal codice di procedura penale. Si deve intendere la norma nel senso che l’esercizio delle funzioni giudiziarie viene effettuato mediante designazione – o delega che dir si voglia secondo l’attuale definizione – dei magistrati dell’Ufficio in base ai criteri automatici previsti dalle tabelle in vigore»;
2. secondo l’art. 1, comma 2, dPR 20 febbraio 2006, n. 106, «il procuratore assicura il corretto, puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale»:
«viene con tale disposizione a gravare sul titolare dell’Ufficio la responsabilità di assicurare una pluralità di doveri funzionali:
- la correttezza dell’esercizio delle funzioni – che significa rispetto delle norme processuali;
- la puntualità nell’esercizio dell’azione penale;
- l’uniformità di tale esercizio.
In proposito si osserva:
a. Sul primo punto è impensabile che il capo dell’ufficio possa controllare la gestione dei singoli procedimenti affidati ai magistrati (...). La disposizione va intesa nel senso che ove, su segnalazione o di iniziativa, rilevi qualche irregolarità di comportamento processuale, inviti il collega a fornire le opportune delucidazioni in esito alle quali adotterà i provvedimenti opportuni (...);
b. In ordine al secondo punto osserva che la disposizione va letta in stretto coordinamento con quanto stabilito dal d.lvo 23 febbraio 2006, n. 109, il quale, per effetto del combinato disposto della lettera q) e la lettera dd) dell’art. 2 di tale decreto, configura come illecito disciplinare del capo dell’ufficio la omissione di fatti che possono costituire illecito disciplinare. Tra i quali assume rilievo, per l’aspetto che qui interessa, la disposizione della lett. q), che definisce come grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti quello che eccede il triplo dei termini previsti per il compimento dell’atto (...);
c. Per quanto attiene all’uniformità nell’esercizio dell’azione penale, reputa lo scrivente che in primo luogo, in una lettura adeguatrice della norma ai principi costituzionali, non sia ammissibile che vengano emessi provvedimenti diretti a condizionare i poteri di autonoma determinazione del singolo magistrato, con disposizioni che impongano in via generale sia di elevare l’accusa sia di disporre l’archiviazione, in situazioni predeterminate, poiché simile facoltà implicherebbe la sussistenza di un potere gerarchico del capo dell’ufficio che è affatto incompatibile con l’indipendenza di ciascun magistrato dell’ordine giudiziario».
14. Tra le quali, norme della Costituzione e del codice di rito a parte, le seguenti: d.lgs n. 106/2006; risoluzione Csm 12 luglio 2007 («Disposizioni in materia di organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero a seguito dell’entrata in vigore del D.lvo 20 febbraio 2006, n. 106»); risoluzione Csm del 21 luglio 2009 («Organizzazione degli Uffici del Pubblico ministero»); circolare n. P. 24930 del 19 novembre 2010, succ. mod. il 19 ottobre 2016 («Nuova circolare in tema di organizzazione delle Direzioni Distrettuali Antimafia»); delibera 14 dicembre 2011 («Periodo di permanenza massima ex art. 19 d.lvo 160/2006 dei magistrati requirenti nel medesimo gruppo di lavoro»); risoluzione del 9 luglio 2014 («Criteri di priorità nella trattazione degli affari penali»); risoluzione del 16 maggio 2016 («Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi degli affari – rapporti tra uffici requirenti e uffici giudicanti»); risoluzione del 16 marzo 2016 («Organizzazione degli Uffici di Procura competenti per i delitti commessi in materia o con finalità di terrorismo. Rapporti con la Procura Nazionale antiterrorismo. Coordinamento investigativo»); risposta al quesito del 20 aprile 2016 in materia di «Limiti e modalità di esercizio delle competenze del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello ai sensi dell’art. 6 d.lvo 106/2006»; circolare del 16 novembre 2017.
15. Cfr. Csm, risoluzione del 12 luglio 2007, avente ad oggetto «Disposizioni in materia di organizzazione degli uffici del Pubblico Ministero a seguito dell’entrata in vigore del d. lgs. 20 febbraio 2006 n. 106», par. 2.1.
16. Solo per sintesi, mi permetto di richiamare, sul punto, G. Mazzotta, Il mestiere del pubblico ministero tra prerogative normative e declinazioni materiali, in Questione giustizia online, 26 aprile 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/il-mestiere-del-pubblico-ministero-tra-prerogative-normative-e-declinazioni-materiali.
17. Vds., ad esempio, art. 3 circolare 16 dicembre 2020, cit.
18. Sull’argomento si rimanda alle condivisibili considerazioni svolte da N. Rossi, I criteri di esercizio dell’azione penale. Interviene «il Parlamento con legge», in Questione giustizia online, 8 novembre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/i-criteri-di-esercizio-dell-azione-penale-interviene-il-parlamento-con-legge; vds., pure, F. Di Vizio, L’obbligatorietà dell’azione penale efficiente ai tempi del PNRR, ivi, 13 ottobre 2021, www.questionegiustizia.it/articolo/l-obbligatorieta-dell-azione-penale-efficiente-ai-tempi-del-pnrr.
19. A Firenze, ad esempio, pur con molte difficoltà è stato avviato – come accennato nel testo (supra, par. 4) – un interessante progetto organizzativo che, nato dall’esigenza di organizzare le diverse attività del pubblico ministero e in particolare l’impegno dei pm negli uffici giurisdizionali di primo grado, si è sviluppato attraverso un accordo formalizzato tra Procura, Tribunale e Avvocatura, istituendo una commissione permanente che periodicamente si incontra non solo per monitorare l’effettiva possibilità di assicurare la partecipazione del pubblico ministero delle indagini innanzi al giudice, ma anche per risolvere eventuali disfunzioni o criticità di tipo amministrativo, organizzativo o giuridico. Si tratta di una sperimentazione il cui percorso non si presenta né agevole né di breve durata. L’idea che ne è alla base e che, peraltro, valorizza fattivamente il principio di collaborazione tra uffici giudiziari e avvocatura potrebbe essere ulteriormente sviluppata anche con l’ausilio di un’adeguata informatizzazione, facendone un modello esportabile in ogni ufficio.
20. Si tratta delle proposte emendative presentate dal Governo il 25 febbraio 2022 in sede di II commissione permanente (giustizia).
21. Nel secondo comma dell’art. 2 ddl AC 2681 (come approvato con delibera 14 aprile 2022 della II Commissione permanente), alla lettera a, si prevede che i documenti organizzativi siano adottati «sentiti il dirigente dell’ufficio requirente corrispondente e il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati»; con l’art. 13 del citato disegno di legge delega si modifica il comma 7 dell’art. 1 d.lgs n. 106/2006, all’interno del quale, tra l’altro, si stabilisce che il progetto organizzativo dell’ufficio di procura è adottato «sentito il dirigente dell’ufficio giudicante corrispondente e il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati».
22. Nel secondo comma dell’art. 2 ddl AC 2681 (come approvato con delibera del 14 aprile 2022 dalla II Commissione permanente), alla lettera b, si prevede che i documenti organizzativi siano adottati «secondo modelli standard stabiliti con delibera del Csm e trasmessi in via telematica» e che, parimenti, i pareri dei consigli giudiziari siano redatti «secondo modelli standard, contenenti i soli dati concernenti le criticità».
23. Così nel secondo comma dell’art. 2 ddl AC 2681 (come approvato con delibera 14 aprile 2022 dalla II Commissione permanente), alla lettera c.
24. La legge 24 marzo 1958, n. 195, come noto, riguarda le «Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura»; l’art. 11 (intitolato «Funzionamento del Consiglio») dispone: «Nelle materie indicate al n. 1 dell’articolo 10 il Ministro per la grazia e giustizia può formulare richieste. Nelle materie indicate ai nn. 1, 2 e 4 dello stesso articolo, il Consiglio delibera su relazione della Commissione competente, tenute presenti le eventuali osservazioni del Ministro di grazia e giustizia. Sul conferimento degli uffici direttivi, esclusi quelli di pretore dirigente nelle preture aventi sede nel capoluogo di circondario e di procuratore della Repubblica presso le stesse preture, il Consiglio delibera su proposta, formulata di concerto col Ministro per la grazia e giustizia, di una commissione formata da sei dei suoi componenti, di cui quattro eletti dai magistrati e due eletti dal Parlamento».
Le materie indicate al n. 1 dell’art. 10, richiamato nel sopra riportato art. 11, riguardano le assunzioni in magistratura, assegnazioni di sedi e di funzioni, trasferimenti e promozioni e ogni altro provvedimento sullo stato dei magistrati; le materie indicate ai nn. 2) e 4) dello stesso articolo 10 riguardano, rispettivamente:
– la nomina e revoca dei vicepretori onorari, dei conciliatori, dei viceconciliatori, nonché dei componenti estranei alla magistratura delle sezioni specializzate;
– la designazione per la nomina a magistrato di Corte di cassazione, per meriti insigni, di professori e di avvocati.
25. Con sub-emendamento 0.10.24.1. (Morrone, Turri, Bisa, Di Muro, Marchetti, Paolini, Potenti, Tateo, Tomasi), si propone di premettere all’emendamento del Governo 10.24, parte consequenziale relativa all’art. 10-bis, il seguente:
«Articolo 10.1. (Modifiche in materia di carriere dei magistrati giudicanti e requirenti):
1. All’art. 192, comma 6, del Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, le parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del Consiglio superiore della magistratura” sono soppresse.
2. All’art. 18, della Legge 4 gennaio 1963, n. 1, il comma 3 è soppresso.
3. All’art. 23, comma 1, del Decreto Legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 le parole: “nonché’ per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa” sono soppresse.
4. Al Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160, sono apportate le seguenti modificazioni:
5. all’art. 11, comma 2, le parole “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti” sono soppresse;
6. all’art. 13, alla rubrica, le parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa” sono soppresse;
7. all’art. 13, comma 1, le parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,” sono soppresse;
8. all’art. 13 i commi 3, 4, 5 e 6 sono soppressi.
9. All’art. 3, comma 1, del Decreto-Legge 29 dicembre 2009 n. 193, convertito con modificazioni nella legge 22 febbraio 2010, n. 24, le parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160.” sono soppresse».
Si propone, inoltre, di sostituire all’emendamento del Governo 10.24 la parte principale con la seguente:
«1. La lettera a) è sostituita dalla seguente: a) all’articolo 11, comma 2, le parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti” sono soppresse».
Nella parte consequenziale, prima del capoverso «Articolo 10-bis», aggiungere i seguenti:
«sostituire la lettera b) con la seguente: “b) all’articolo 13 sono apportate le seguenti modificazioni: 1) al comma 1, le parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti” sono soppresse; 2) al comma 3, le parole da: “all’interno dello stesso distretto” fino alla fine del comma sono soppresse; 3) i commi 4, 5 e 6 sono abrogati; sostituire il comma 2 con i seguenti: “2. Al sesto comma dell’articolo 192 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, le parole: “salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del Consiglio superiore della magistratura” sono soppresse.
1 bis. Alla legge 4 gennaio 1963, n. 1, articolo 18, il terzo comma è abrogato.
2 ter. Al decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, all’articolo 23, comma 1, le parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa” sono soppresse.
2 quater. Al decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, articolo 3, comma 1, l’ultimo periodo è soppresso».
26. Il sub-emendamento Costa 1.10.24.7. si propone di aggiungere, dopo l’art. 1 del disegno legge delega AC 2681, l’art. 1-bis («Separazione delle funzioni»):
«1. Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla revisione ordinamentale della magistratura sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
a) prevedere per l’ingresso in magistratura che sia bandito annualmente un concorso e che i candidati debbano indicare nella domanda, a pena di inammissibilità, se intendano accedere ai posti nella funzione giudicante ovvero a quelli nella funzione requirente; prevedere che le tracce d’esame siano differenziate in base all’opzione sulla funzione prescelta nella domanda di partecipazione; prevedere che, al momento dell’attribuzione delle funzioni, tale indicazione costituisca titolo preferenziale per la scelta della sede di prima destinazione e che tale scelta, nei limiti delle disponibilità dei posti, debba avvenire nell’ambito della funzione prescelta;
b) prevedere che le commissioni del consiglio superiore della magistratura di cui all’articolo 4 e all’articolo 11, comma 3, della legge 24 marzo 1958, n. 195, siano composte da due sezioni rispettivamente riferite ai magistrati che svolgono funzioni requirenti e a quelli che svolgono funzioni giudicanti e i cui membri svolgano le rispettive funzioni;
c) modificare la normativa relativa al funzionamento della Scuola superiore della magistratura e all’aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, al fine di prevedere l’istituzione di due distinti corsi per la funzione requirente e giudicante».
27. In calce alla tabella, si precisa che «non è stato possibile conteggiare gli eventuali passaggi se intervallati da fuori ruolo a qualsiasi titolo.
L’estrazione potrebbe risentire di alcune mancate o non corrette annotazioni sulla banca dati. Il dato fornito riguarda il numero di passaggi tra funzioni e non il numero di magistrati che hanno cambiato funzione. Nell’83% dei casi il magistrato ha cambiato funzione (da giudicanti a requirenti o viceversa) una sola volta nel periodo 1992-2021. Nel restante 17% il magistrato ha effettuato più di un passaggio».
28. Vds., sull’argomento, pure A. Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati? una riforma da evitare, intervento per il convegno sulla separazione delle Carriere tenutosi a Sanremo l’1 e 2 luglio 2016, organizzato da Unione Camere penali e dalla Camera penale di Imperia, poi pubblicato su La Pazienza – Rassegna dell’Ordine degli avvocati di Torino, n. 3, settembre 2017, versione oggetto di un aggiornamento al 30 giugno 2019 dei dati statistici relativi al trasferimento di magistrati dagli uffici requirenti a quelli giudicanti e viceversa.
29. Si legga, ad esempio, l’emendamento 8.04. D’Orso, di proposta delle modifiche al d.lgs 20 febbraio 2006, n. 106 e il sub-emendamento T 2 Ascari. La sottrazione al procuratore della Repubblica della esclusiva titolarità dell’azione penale, la sostituzione del suo potere di assegnazione con il dovere di attribuzione dei procedimenti, le limitazioni al potere del procuratore della Repubblica e del procuratore aggiunto di negare l’assenso sulle richieste di misure cautelari personali o reali, la trasformazione dei poteri del procuratore di «direzione, controllo e organizzazione» in poteri di «coordinamento e organizzazione» sono evidenti segnali che, per un verso, riportano a statuti anteriori alle riforme del 2006 e che, per altro verso, parrebbero serventi del principio di pari dignità tra le funzioni. Si tratta di indicazioni che, qualora fossero accolte, sarebbero destinate a incidere in misura determinante non solo sul ruolo del dirigente e sulla portata del progetto organizzativo, ma anche sul processo di responsabilizzazione (rectius, di pari responsabilizzazione) di tutti i componenti dell’ufficio giudiziario, del quale ciascun pubblico ministero, e non solo il suo dirigente, è espressione esponenziale, con avvicinamento delle modalità di esercizio del potere diffuso da parte del pubblico ministero non dissimili da quelle nelle quali si muove il giudice e che, perciò, andrebbero nella direzione del loro avvicinamento formativo piuttosto che del loro contrario.
30. R. Alagna, Tipicità e riformulazione del reato, Bononia University Press, Bologna, 2007, p. 371: «C’è la convinzione che la ricerca “romantica” del Kern, dell’essenza, non può condurre a risultati appaganti. Le essenze, i valori che il diritto penale vuole tutelare sono, infatti, inafferrabili. Questo è il motivo per cui il diritto deve rapportarvisi per mezzo d’interfacce astratte. Non è solo perché il diritto non riesce a descrivere tutte le condotte, ma anche perché non è capace di comprendere e dominare gnoseologicamente il disvalore ch’esprime di voler tutelare».
31. In generale, su tale concetto, vds. R. Bodei, Limite, Il Mulino, Bologna, 2016. Una sua definizione più pertinente all’ambito giuridico è quella intramontabile di Orazio, Satire, I, 1, vv. 106-107: «Est modus in rebus: sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum» («Vi è una misura nelle cose, vi sono limiti precisi oltre i quali e prima dei quali non può consistere il giusto»).
32. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di A.C. Jemolo e G. Carnazzi, BUR, Milano, 1981, p. 65: «Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere più generale così: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico».
33. F. Palazzo, Corso di diritto penale (parte generale), Giappichelli, Torino, 2016, pp. 69 ss.
34. Elaborata dalla dottrina tedesca degli anni quaranta, la concezione di colpa d’autore o colpa per il modo d’essere (Taterschuld) si basa sull’idea che è soggetto a punizione non tanto il fatto commesso, sebbene contrario a norme penali, quanto piuttosto il modo d’essere dell’agente, il suo carattere, il suo permanente temperamento, la sua condotta antecedente o susseguente al fatto compiuto; al diritto penale interessa l’uomo non in quanto agisce, ma in quanto è, con un’attenzione tutta rivolta alla sua psiche, alla sua mentalità, alla sua condizione sociale e, di conseguenza, ai motivi che lo hanno spinto ad agire, trascurando quasi completamente il fatto in sé considerato.
35. È l’indimenticabile insegnamento di Alessandro Margara.