I fondamenti unionali e costituzionali della protezione complementare e la protezione speciale direttamente fondata sugli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato
Nonostante il cd. “decreto Cutro”, convertito in legge n. 50/2023, abbia modificato significativamente la disciplina della protezione complementare in Italia, le riflessioni svolte in occasione del seminario organizzato lo scorso febbraio da Questione giustizia, per esaminare in un’ottica interdisciplinare le novità portate dal dl n. 130/2020 rispetto all’istituto previgente della protezione umanitaria, rivestono un pregnante significato, anche nell’attuale quadro normativo. Oggetto del presente contributo sono, da un lato, la protezione complementare nei suoi fondamenti unionali e costituzionali; dall’altro, le forme di riconoscimento della protezione speciale direttamente attuative degli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato.
1. Fondamenti unionali e costituzionali / 2. La protezione speciale direttamente fondata sugli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato
1. Fondamenti unionali e costituzionali
La protezione complementare è prevista, a livello unionale, dalla cd. “direttiva rimpatri”, 2008/115/CE, all’art. 6, par 4. Ivi si prevede che, oltre alle due forme di protezione internazionale dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria disciplinate con il sistema comune europeo dell’asilo («Common European Asylum System», d’ora in poi: CEAS), «In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo (…) che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare». La direttiva riconosce, quindi, ai singoli Stati la possibilità di riconoscere a uno straniero irregolarmente presente sul territorio nazionale il diritto a un permesso di soggiorno, in presenza di particolari circostanze individuate dalla legislazione interna. Pertanto, la norma si riferisce a stranieri già presenti irregolarmente sul territorio, consentendo agli Stati di regolarizzare la loro permanenza col riconoscimento di un permesso di soggiorno di portata nazionale, per i motivi precisati dalla legislazione interna. Il sistema comune di asilo europeo consente quindi agli Stati membri di riconoscere forme nazionali di protezione complementare anche per motivi umanitari o caritatevoli, a condizione che le relative disposizioni siano compatibili con quelle delle direttive UE, nel senso che non modifichino i presupposti e l’ambito di applicazione della disciplina derivata dell’Unione (Cgue, C-57/09 e C-101/09, 9 novembre 2010).
Nel contesto del diritto dell’Unione, la Corte di giustizia ha già più volte considerato gli humanitarian grounds quale concetto autonomo del diritto dell’Ue, al di fuori di specifici casi di assistenza medica o di assistenza sanitaria – X e X c. Belgio, C638/16, 7 marzo 2017, e Jafari e Jafari c. Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl (Ufficio federale austriaco per il diritto degli stranieri e il diritto di asilo), C-646/16, 26 luglio 2017.
Nell’ambito specifico della protezione complementare prevista dall’art. 6, par. 4 della direttiva rimpatri 2008/115/CE, è poi largamente percepita nei diversi Stati europei l’esigenza di “completare” il sistema europeo di protezione dello straniero anche oltre le due protezioni maggiori. Diversamente da quanto viene spesso riportato nei media, dal rapporto del maggio 2020 redatto per la Commissione europea dallo European Migration Network (EMN) emerge che in 20 Paesi europei sono previste forme di protezione nazionale complementari alla protezione internazionale regolata dal CEAS[1]. Il rapporto evidenzia che nei diversi Stati l’ampiezza della protezione prevista è diversificata e, nella maggior parte dei casi, il permesso di soggiorno così riconosciuto ha contenuto analogo alla protezione minore prevista dal CEAS. Le ragioni in base alle quali viene riconosciuta la protezione complementare sono diverse nei singoli Paesi e possono riguardare la protezione dei minori, ragioni di salute, generali motivi umanitari, casi di divieto di respingimento, eventi climatici, programmi di ricollocamento o circostanze eccezionali; nella maggior parte dei casi, la protezione complementare è fondata su generali ragioni umanitarie, con un significativo margine di discrezionalità in capo all’organo decidente. Il tema è al centro del dibattito politico e, negli ultimi anni, in 10 Stati sono state introdotte modifiche legislative nel settore, accompagnate da un significativo dibattito pubblico in merito.
La protezione complementare nazionale si conforma quindi diversamente nei diversi stati e in alcuni casi è espressamente prevista a tutela dei diritti fondamentali, fra cui quello alla vita privata e familiare. In particolare, in Austria, Svizzera, Belgio e Svezia essa può essere fondata su circostanze personali connesse alla prolungata permanenza nello Stato (livello di integrazione, legami creati nel Paese di accoglienza, conoscenza della lingua, etc.)[2].
È quindi largamente condivisa fra i diversi Stati dell’Unione l’esigenza di completare il sistema comune europeo della protezione internazionale, e in questo ambito la legislazione italiana, nel corso degli anni, ha subito ripetute modifiche. La previsione originaria della protezione umanitaria era prevista dal d.lgs n. 286/1998 (d’ora in poi Tui). Il dl n. 113/2018, convertito nella l. n. 132/2018, l’ha abrogata sostituendola con permessi di soggiorno in casi speciali, specificamente individuati; successivamente, il dl n.130/2020, convertito nella l. n. 173/2020, ha regolato la protezione speciale allargando i casi di non respingimento e dando rilievo agli obblighi internazionali e costituzionali dello Stato e alla tutela della vita privata e familiare; infine, il recentissimo dl n. 30/2023, convertito nella l. n. 50/2023, ha abrogato la previsione della protezione speciale relativa alla tutela della vita privata e familiare, cancellando il terzo e quarto periodo del preesistente art. 19, comma 1.1, Tui, introdotti dal dl n. 130/2020.
Parallelamente al fondamento unionale posto nella direttiva rimpatri, nel nostro Paese la protezione complementare ha diretto fondamento costituzionale nell’art 10, comma 3, che assicura l’asilo allo «straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana (…) secondo le condizioni stabilite dalla legge».
L’ampiezza e la consistenza del diritto di asilo costituzionale, e il suo rapporto con il sistema comune europeo della protezione internazionale, sono da tempo oggetto di approfondite riflessioni in sede dottrinale[3]. Sul punto, la giurisprudenza costituzionale e quella delle sezioni unite della Cassazione si è univocamente espressa, chiarendo come il diritto costituzionale d’asilo non sia compiutamente regolato dal CEAS, non esaurendosi nelle misure di protezione internazionale dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria di matrice unionale.
Con plurime sentenze le sezioni unite della Suprema corte, fondando il ragionamento sulla preesistente giurisprudenza costituzionale, hanno espressamente chiarito che il diritto di asilo era attuato attraverso i tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e – all’epoca – dal diritto al rilascio di un permesso umanitario (Cass., sez. unite, sentt. 11 dicembre 2018, n. 32044, e 12 dicembre 2018, n. 32177).
Con ancora maggiore chiarezza si sono espresse le sentenze gemelle delle sezioni unite del 2019: «tutte le protezioni, compresa quella umanitaria, sono espressione del diritto di asilo costituzionale. (…) Il diritto di asilo scaturisce direttamente dal precetto costituzionale e si colloca, come ha osservato sin da epoca risalente autorevole dottrina, in seno all’apertura amplissima della Costituzione verso i diritti fondamentali dell’uomo. Il diritto di asilo è quindi costruito come diritto della personalità, posto a presidio di interessi essenziali della persona e non può recedere al cospetto dello straniero bisognoso di aiuto, che, allegando motivi umanitari, invochi il diritto di solidarietà sociale: i diritti fondamentali dell’uomo spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, sicché la condizione giuridica dello straniero non può essere considerata ragione di trattamenti diversificati e peggiorativi (Corte cost., 10 aprile 2001, n. 105; 8 luglio 2010, n. 249). Le condizioni che possono essere definite per legge, necessariamente conformi alle altre norme costituzionali e internazionali, allora, sono quelle chiamate a regolare il soggiorno dell’esule, la definizione dei criteri di accertamento dei requisiti richiesti per l’asilo e le modalità del relativo procedimento di accertamento (…). Quanto ai presupposti utili a ottenere la protezione umanitaria, non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano. Gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali; sicché, ha puntualizzato questa Corte, l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (tra varie, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096). Le basi normative non sono, allora, affatto fragili, ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione» (Cass., sez. unite, 13 novembre 2019, nn. 29459 e 29460).
Analogamente si è pronunciata la Corte costituzionale, affermando espressamente che il diritto d’asilo «nell’ordinamento costituzionale italiano copre uno spettro più ampio rispetto al diritto dei rifugiati di cui alla Convenzione di Ginevra del 1951. Per la definizione del contenuto di tale materia, infatti, ci si deve riferire all’art. 10, terzo comma, Cost., che appunto riconosce il “diritto d’asilo nel territorio della Repubblica” come diritto fondamentale dello straniero “al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”». Il permesso di soggiorno per motivi umanitari si inseriva pertanto nel diritto costituzionale di asilo consentendo di offrire protezione «alle persone che non possono rivendicare lo status di rifugiato e neppure beneficiare della protezione sussidiaria, benché siano minacciate nei propri diritti fondamentali in caso di rinvio nel paese d’origine» (C. cost., 24 luglio 2019, n. 194).
La giurisprudenza costituzionale e di legittimità, nella loro massima espressione, hanno quindi chiarito che il diritto d’asilo previsto dall’art. 10 Costituzione è un diritto della personalità che, pur rimesso al legislatore nella sua regolamentazione, deve conformarsi ai valori costituzionali e deve garantire allo straniero la tutela dei suoi diritti fondamentali con previsioni elastiche che ne assicurino il rispetto. La protezione complementare a quella internazionale regolata dal CEAS serve a «tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un’esigenza concernente la salvaguardia di diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale» (Cass. civ., sez. I, ord. 12 novembre 2018, n. 28996).
Il diritto vivente e consolidato, affermato nelle più alte giurisdizioni, ci dice quindi che la protezione complementare – in qualunque forma si voglia disciplinare e qualunque nome assuma – è necessariamente elastica ed è necessario completamento del diritto d’asilo costituzionale.
La protezione complementare è disciplinata in Italia nel Tui, come ripetutamente modificato anche dal dl 10 marzo 2023, n. 20, convertito nella l. 5 maggio 2023, n. 50. Vi sono previste diverse ipotesi di riconoscimento del diritto al soggiorno sul territorio nazionale di stranieri irregolarmente presenti in Italia dagli artt. 18, 18-bis, 19, commi 1 e 2, 20, 20-bis, 22, comma 12, e 31, comma 3 (per protezione sociale di vittime di violenza o grave sfruttamento nell’ambito di specifici procedimenti penali, per i minorenni, per i familiari prossimi di cittadino italiano, per le donne in stato di gravidanza e per i genitori nei primi sei mesi di vita del figlio, per chi è affetto da patologie di particolari gravità non curabili nel Paese d’origine, in casi di misure straordinarie di accoglienza disposte dal Presidente del Consiglio dei ministri, per contingenti ed eccezionali calamità, in ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo, per familiari di minori in particolari e gravi condizioni), e i permessi riconosciuti in ciascuna di queste ipotesi hanno contenuti diversificati, per lo più di brevissima durata – 6 mesi – e ben diversi dall’ampiezza dei permessi di soggiorno conseguenti al riconoscimento della protezione internazionale. È, inoltre, previsto il diritto al permesso di soggiorno per protezione speciale nei casi di divieto di respingimento indicati nell’ art. 19, comma 1, per le persone a rischio di persecuzione (comma 1), a rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti o in caso ricorrano gli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano (comma 1.1); ai sensi dell’art. 32, comma 3, d.lgs n. 25/2008, questo permesso è di durata biennale e non è ora convertibile in permesso per motivi di lavoro (art. 6 Tui, come modificato dal dl 10 marzo 2023, n. 20, convertito nella legge n. 50 del 5 maggio 2023).
2. La protezione speciale direttamente fondata sugli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato
L’art. 19 Tui – in attuazione della Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati – pone, al comma 1, il divieto di respingimento dello straniero verso uno Stato in cui possa essere oggetto di persecuzione. Al comma 1.1 si prevede identico divieto verso uno Stato in cui egli «rischi di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6», e cioè «gli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» ivi richiamati.
Come si ricorderà, il richiamo agli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato contenuto nell’art. 5, comma 6, Tui era stato abrogato dal dl n. 113/2018, convertito nella l. n. 132/2018. Dopo il dl n. 130/2020, l’art. 19 Tui attualmente vigente richiama espressamente questi obblighi al comma 1.1, laddove si vieta il respingimento, l’espulsione o l’estradizione dello straniero «qualora ricorrano gli obblighi dell’art. 5 co. 6».
Questa forma di protezione speciale è autonoma e distinta dalle altre.
La piana lettura dell’art. 19, commi 1 e 1.1, prevede infatti plurime ipotesi di non respingimento: rischio di persecuzione (comma 1), rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti, o qualora ricorrano gli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano (comma 1.1). Sia l’utilizzo della disgiuntiva «o», sia la evidente differenza nel contenuto delle ipotesi richiamate dalla norma – rischio di persecuzione, rischio di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, oppure sussistenza di specifici obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato – rendono evidente che uno dei fondamenti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per protezione speciale, distinto dagli altri e autonomo rispetto ad esso, è la sussistenza di specifici obblighi costituzionali o internazionali dello Stato.
A cosa si riferisce la specifica ipotesi di non respingimento nei casi in cui ricorrono obblighi costituzionali o internazionali dello Stato?
Possiamo meglio comprendere la portata di questa disposizione normativa partendo da alcuni casi della giurisprudenza di merito, in cui è stata riconosciuta sussistente la specifica ipotesi di non respingimento fondata sugli obblighi convenzionali assunti dal nostro Stato: nell’ambito della tutela delle vittime di violenza domestica, delle persone già sottoposte a tortura e delle persone disabili.
Il primo caso riguarda una donna tunisina sfregiata in volto dal marito e da lui gettata dalla finestra, con plurime fratture ossee, divorziata in Tunisia, che in Italia aveva chiesto la protezione internazionale ottenendo la prima volta in sede amministrativa un permesso per motivi umanitari poiché erano state accertate le violenze da lei subite – le cui cicatrici permanevano sul suo volto –, era stata ripudiata da tutta la sua famiglia d’origine eccetto sua madre ed era necessario che proseguisse il percorso psicologico in corso in Italia. In sede di rinnovo, il questore aveva rigettato la richiesta. Impugnato il provvedimento del questore ai sensi dell’art. 19-ter d.lgs n. 150/2011, il tribunale ha qualificato la ricorrente come vittima di maltrattamenti e di violenza domestica, essendo provata all’attualità la permanenza di gravi effetti fisici, psicologici e sociali cagionati dalle violenze subite da parte dell’ex-marito, e ha conseguentemente applicato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cd. Convenzione di Istanbul, sottoscritta dall’Italia il 27 settembre 2012, con autorizzazione alla ratifica da parte del Parlamento con l. n. 77/2013 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014. La Convenzione riconosce espressamente la violenza contro le donne quale violazione dei diritti umani e il collegio si è ritenuto vincolato alla sua applicazione ai sensi dell’art. 117 della Costituzione e del combinato disposto degli artt. 5, comma 6, e 19, comma 1.1, Tui. Nel settore della migrazione e dell’asilo, il principale obiettivo della Convenzione di Istanbul è di garantire che le procedure di asilo non ignorino le situazioni di vittime di violenza basata sul genere, prevedendo per le donne che si trovano in specifiche circostanze la possibilità di ottenere dei titoli autonomi di soggiorno. L’articolo 59, comma 3 della Convenzione prevede: «Le Parti rilasciano un titolo di soggiorno rinnovabile alle vittime, in una o in entrambe le seguenti situazioni: a) quando l’autorità competente ritiene che il loro soggiorno sia necessario in considerazione della loro situazione personale; b) quando l’autorità competente ritiene che il loro soggiorno sia necessario per la loro collaborazione con le autorità competenti nell’ambito di un’indagine o di procedimenti penali». Il capitolo III della Convenzione di Istanbul è dedicato alla prevenzione, e l’art. 12, comma 3, stabilisce che «Tutte le misure adottate ai sensi del presente capitolo devono prendere in considerazione e soddisfare i bisogni specifici delle persone in circostanze di particolare vulnerabilità, e concentrarsi sui diritti umani di tutte le vittime». In questo caso, la donna vittima di violenza aveva trovato tutela in Italia, ove era seguita sia dai servizi psichiatrici per una grave sindrome depressiva persistente, sia da diversi specialisti di medicina interna per patologie organiche concomitanti. Poiché nel 2018 era stata riconosciuta invalida al 67%, si trattava anche di persona in situazione di particolare vulnerabilità. Dalle COI esaminate nell’ordinanza emergeva poi che, nonostante in Tunisia fosse stata promulgata la legge n. 58 del 2017 sulla violenza contro le donne, le vittime di violenza continuano a non rivelare i maltrattamenti subiti poiché, in quel Paese, la violenza domestica è strettamente associata alla vergogna e le donne che sono vittime di violenza domestica «sentono di portare vergogna su se stesse e sui loro cari». Le COI davano, inoltre, atto di un aumento esponenziale dei casi di violenza contro le donne (da 4 a 7 volte rispetto agli anni precedenti) e che a tale incremento del rischio secondo quanto riportato da Euromed non si era fatto fronte con un innalzamento delle tutele. Il tribunale ha quindi ritenuto necessaria la permanenza della ricorrente in Italia in ragione della sua situazione personale, particolarmente vulnerabile e seguita da plurimi servizi territoriali, e ha riconosciuto i presupposti della protezione speciale prevista dall’art. 19, comma 1.1, Tui in esecuzione degli obblighi internazionalmente assunti dallo Stato italiano ai sensi degli artt. 59, comma terzo, e 12, comma terzo della Convenzione di Istanbul[4].
Il secondo caso riguarda un cittadino nigeriano amputato del braccio destro a seguito di infortunio sul lavoro, riconosciuto invalido al 60% e con necessità di arto artificiale a lui fornito dal servizio sanitario. Anche in questo caso, la iniziale domanda di protezione internazionale del ricorrente aveva portato in sede amministrativa al riconoscimento della protezione umanitaria, essendosi riconosciuta la complessità della situazione sanitaria del richiedente, ritenuta meritevole di tutela per garantire i diritti fondamentali di quest’ultimo. Era successivamente stata rigettata la richiesta di rinnovo del permesso, impugnata ai sensi dell’art. 19-ter d.lgs n. 150/2011. In questo caso il tribunale, a seguito dell’avvenuto riconoscimento della disabilità del ricorrente, ha ritenuto applicabile la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite, sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 e ratificata dal Parlamento con legge 3 marzo 2009, n. 18, applicabile e vincolante ai sensi dell’art. 117 Costituzione e dell’art. 5, comma 6, Tui: nell’art. 4, lett. d della Convenzione, gli Stati parti si impegnano «ad astenersi dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione e a garantire che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione»; nell’art. 5, essi «devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento»; nell’art. 25, gli Stati parti riconoscono che le persone con disabilità «hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità» e, a tal fine, devono «(a) fornire alle persone con disabilità servizi sanitari gratuiti o a costi accessibili (...) (b) fornire alle persone con disabilità i servizi sanitari di cui hanno necessità proprio in ragione delle loro disabilità (...)». Dalle numerose COI riportate nell’ordinanza, emerge che la Nigeria aveva ratificato nel 2007 la Convenzione, ma che la relativa legge ha avuto l’approvazione presidenziale solo nel 2019. La resistenza nell’approvarla da parte delle autorità nigeriane evidenzia la mancanza dell’impegno da parte del Governo di proteggere le persone che vivono con disabilità in Nigeria, e plurime fonti attestano discriminazioni, stigma e violenza nei loro confronti, oltre che mancanza di accesso ai servizi sanitari. Sono diffuse credenze negli spiriti maligni che causano disabilità a coloro che ignorano i loro avvertimenti, perciò le persone disabili sono spesso concepite come peccatori e devianti. Nell’ordinanza, il tribunale afferma: «In quanto Stato contraente della Convenzione, lo Stato italiano non può esimersi dal garantire il godimento al cittadino disabile, seppur straniero, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile, su base di uguaglianza con gli altri, impedendone l’allontanamento nel caso in cui egli non abbia la possibilità di esercitare questi stessi diritti nel Paese d’origine». A fronte delle necessità del ricorrente, disabile ed amputato, di effettuare controlli e variazioni prevedibili della protesi a seguito dell’uso prolungato, che non sarebbero garantiti nel Paese d’origine, vengono ritenuti sussistenti i presupposti della protezione speciale ai sensi dell’art. 19, comma 1.1, in adempimento degli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato italiano imposti dagli artt. 32 e 117 della Costituzione, dall’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998 e dalla citata Convenzione sui diritti delle persone con disabilità[5].
Il terzo caso riguarda un cittadino nigeriano torturato in Libia, richiedente la protezione internazionale con l’allegazione in via principale di timore di danno grave, in caso di rientro, proveniente da alcuni potenti anziani del suo villaggio. Integralmente rigettata la domanda in sede amministrativa, il provvedimento della commissione territoriale veniva impugnato ai sensi dell’art. 35-bis d.lgs n. 25/2008. Il tribunale, ritenuti insussistenti i presupposti della protezione internazionale, accertava che il ricorrente era stato vittima di torture in Libia in base alla documentazione depositata. In particolare, la perizia medico legale disposta dalla commissione territoriale dava atto che il ricorrente, in stato di schiavitù in Libia, era stato percosso dai suoi carcerieri sia con un bastone che aveva determinato l’avulsione di due denti, sia da un pugnale a doppio filo, con conseguenti lesioni alla guancia e al fianco; rilevava altresì la presenza di un corpo estraneo nella zona del ginocchio, poi estratto chirurgicamente, che determinava dolore e cedimento dell’articolazione; accertava inoltre la compatibilità degli esiti cicatriziali con quanto riferito in merito dal ricorrente. Dalla relazione sociale in atti emergeva altresì che il ricorrente era solo nella fase iniziale di un percorso riabilitativo, perché «il passato e la paura tornano da Jerry specialmente durante le visite mediche. Vede con tanto dubbio e terrore gli apparecchi che lo circondano». A seguito di un’articolata analisi del Protocollo di Istanbul delle Nazioni Unite dell’aprile 2008 («Manuale per un’efficace indagine e documentazione di tortura o altro trattamento o pena crudeli, disumani o degradanti»), il Tribunale qualificava quindi il ricorrente come vittima di tortura, ritenendo poi applicabile la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall’Assemblea generale dell’Onu il 10 dicembre 1984 e resa esecutiva in Italia con la l. 3 novembre 1988, n. 489. L’art. 14, comma 1 di tale Convenzione prevede che «ogni Stato Parte, nel proprio ordinamento giuridico, garantisce alla vittima di un atto di tortura il diritto a una riparazione e a un risarcimento equo ed adeguato che comprenda i mezzi necessari a una riabilitazione la più completa possibile (…)» e la riabilitazione per un soggetto vittima di tortura deve essere specifica e finalizzata ad assicurare un pieno recupero fisico e psicologico, con tutti gli interventi idonei a ripristinare l’autonomia del soggetto e le sue capacità fisiche e mentali. Nella fattispecie esaminata, la relazione depositata dava atto che il percorso riabilitativo in atto era solo nella fase iniziale, e il tribunale ha ritenuto che il rientro in Nigeria avrebbe esposto il ricorrente a una grave compromissione dei propri diritti umani, interrompendo un percorso diretto a ripristinare la sua autonomia e le sue capacità fisiche e mentali al fine di ottenerne un pieno reinserimento sociale. Il decreto conclude che il rispetto, da parte dello Stato italiano, della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti rappresenta il limite all’allontanamento del ricorrente dal territorio nazionale, sussistendo un divieto di respingimento ai sensi dell’art. 19, comma 1.1, per le vittime di tortura portatrici di patologie in atto che necessitano di cura, per assicurare la piena riabilitazione come previsto dall’art. 14 della Convenzione. Il collegio, quindi, ha ritenuto vincolante l’obbligo sottoscritto dallo Stato italiano nella Convenzione contro la tortura, con conseguente riconoscimento del permesso per protezione speciale in adempimento degli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano[6].
Nei tre casi esaminati, la giurisprudenza ha quindi individuato gli obblighi nascenti dalle convenzioni sottoscritte dallo Stato italiano, rilevanti nel caso specifico per la protezione del richiedente asilo, dando loro attuazione come fondamento della protezione speciale prevista dall’art. 19, comma 1.1, Tui. La clausola di salvaguardia prevista dall’art. 5, comma 6, Tui, attraverso l’espresso richiamo che vi fa l’art. 19 Tui quale motivo di non respingimento, viene così concretamente utilizzata per il riconoscimento della protezione speciale.
Una caratteristica di rilievo di questa ipotesi di protezione speciale, fondata sull’adempimento degli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, è che il suo diretto fondamento negli artt. 10 e 117 della Costituzione la rende “impermeabile” – o, almeno, relativamente impermeabile – alle modifiche della legislazione primaria. Ciò è esplicitato in Cass., sez. unite, 9 settembre 2021, n. 24413, dove al par. 30 si dice che con «la reintroduzione, nell’art. 5 T.U. Imm., della clausola di salvaguardia del rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato il decreto legge n. 130/2020 ha [solo] rinforzato l’attuazione del diritto costituzionale di asilo di cui all’art. 10, comma 3, Cost.; posto che gli obblighi costituzionali o internazionali gravanti sullo Stato sono ovviamente cogenti a prescindere dal loro richiamo nel decreto legge».
Tale rilievo era già stato espresso dal Presidente della Repubblica, illustre costituzionalista, quando firmò il dl n. 113/2018 – che abrogava la più ampia protezione umanitaria e il richiamo agli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato – accompagnandolo con una lettera al Presidente del Consiglio dei ministri, in cui si diceva: «in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano “fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia».
Ma, ancora più chiaramente, questo è esplicitato nella sentenza n. 194/2019 della Corte costituzionale. Tale sentenza dichiara inammissibile il conflitto di attribuzioni sollevato da sette Regioni, che lamentavano come l’abrogazione della più ampia categoria della protezione umanitaria contenuta nel dl n. 113/2018 ledesse a vario titolo le prerogative regionali relative all’erogazione dei servizi sanitari, alla formazione professionale, etc., poiché ciò avrebbe illegittimamente ridotto il numero dei cittadini regolari sul territorio. Specificamente, il ricorso della Regione Emilia Romagna rilevava che la sostituzione della protezione umanitaria – clausola aperta ed elastica – con ipotesi di permesso di soggiorno tipici per «casi speciali» non sarebbe stata in grado di ricomprendere tutte le ipotesi di protezione risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato. Risponde specificamente sul punto la Corte costituzionale, con osservazioni che vale la pena di riportare integralmente:
«Gli argomenti addotti dalle ricorrenti si basano sull’assunto indimostrato che il passaggio da un permesso di soggiorno generale e atipico, per “seri motivi di carattere umanitario”, a una serie di “casi speciali”, comporti di per sé una restrizione della protezione complementare contraria a Costituzione. Invero, l’effettiva portata dei nuovi permessi speciali potrà essere valutata solo in fase applicativa, nell’ambito della prassi amministrativa e giurisprudenziale che andrà formandosi, in relazione alle esigenze dei casi concreti e alle singole fattispecie che via via si presenteranno. In proposito, è appena il caso di osservare che l’interpretazione e l’applicazione dei nuovi istituti, in sede sia amministrativa che giudiziale, sono necessariamente tenute al rigoroso rispetto della Costituzione e dei vincoli internazionali, nonostante l’avvenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli “obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” precedentemente contenuto nell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione. (…) La doverosa applicazione del dato legislativo in conformità agli obblighi costituzionali e internazionali potrebbe rivelare che il paventato effetto restrittivo rispetto alla disciplina previgente sia contenuto entro margini costituzionalmente accettabili. Diversamente questa Corte potrà essere adita in via incidentale, restando ovviamente impregiudicata, all’esito della presente pronuncia, ogni ulteriore valutazione di legittimità costituzionale della disposizione in esame. Dato quindi il carattere ipotetico e meramente eventuale delle questioni, così come prospettate dalle ricorrenti, non può dirsi dimostrato l’illegittimo condizionamento indiretto delle competenze regionali denunciato nei ricorsi».
L’importanza dell’ambito della protezione speciale derivante dagli obblighi convenzionali dello Stato risiede, quindi, nel suo diretto fondamento costituzionale, autonomo rispetto alla disciplina interna che regola la protezione complementare.
L’attuale espresso inserimento nell’art. 19 Tui di tali obblighi come fondamento per il riconoscimento della protezione complementare deve sollecitare l’interprete a una più attenta considerazione degli obblighi convenzionali a cui si è impegnato lo Stato italiano, utilizzando questo strumento per una lettura espansiva della protezione complementare. Gli obblighi internazionali assunti dal nostro Stato in materia ambientale e di lotta alla povertà possono costituire ambiti di ulteriore approfondimento per l’interprete, in considerazione della frequenza con cui tali questioni vengono sottoposte alla giurisprudenza di merito.
Oltre l’ambito delle due protezioni maggiori, regolate dal sistema europeo comune d’asilo, ciò che la protezione complementare deve infatti assicurare è che nessun rimpatrio possa determinare per lo straniero la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, come ci ha insegnato la sentenza “madre” sulla protezione umanitaria, la ben nota Cass., n. 4455/2018[7]. Poiché la protezione speciale costituisce in Italia una delle forme in cui è regolata la protezione complementare, dallo studio delle convenzioni sottoscritte dal nostro Paese per la tutela dei diritti fondamentali potrà trarsi nuova linfa per il dibattito giurisprudenziale sulla protezione speciale, così attuando pienamente il diritto d’asilo regolato dall’art. 10 della Costituzione nella direzione tracciata dalle citate sentenze delle sezioni unite, nn. 29459 e 29460 del 2019.
1. European Migration Network, Comparative overview of national protection statuses in the UE and Norway (https://home-affairs.ec.europa.eu/system/files/2021-02/emn_synthesis_report_nat_prot_statuses_final_en.pdf). Il rapporto esamina un totale di 25 Paesi (non vi ha partecipato la Germania).
2. E. Colombo ed E. Masetti Zannini, L’esame della domanda di protezione umanitaria e speciale, in Aa. Vv., Casebook in materia di protezione internazionale, volume realizzato su iniziativa della Ssm e dell’Università di Trento nell’ambito del Progetto europeo di formazione giudiziaria FRICoRe (Fundamental Rights In Courts and Regulation), 2021, pp. 219-262 (www.scuolamagistratura.it/documents/20126/3491179/20220113_SSM_Casebook_Protezione_internazionale_2.pdf). Da questo articolo, emerge che anche la Germania – che non rientrava fra i 25 Stati esaminati nel rapporto EMN – prevede una forma di protezione complementare.
3. Vds. A. Algostino, L’eccedenza del diritto di asilo costituzionale: il diritto di migrare in nome del «pieno sviluppo della persona», in Questione giustizia online, 11 maggio 2023 (www.questionegiustizia.it/data/doc/3540/eccedenza-del-diritto-di-asilo-e-diritto-di-migrare-x-questione-giustizia.pdf). Più in generale, sul diritto d’asilo vds. P. Bonetti, Il diritto d’asilo, in B. Nascimbene (a cura di), Diritto degli stranieri, Cedam, Padova, 2004, p. 1140; M. Benvenuti, Il diritto di asilo nell’ordinamento costituzionale italiano. Un’introduzione, Cedam, Padova, 2007; F. Rescigno, Il diritto d’asilo e la sua multiforme (non) attuazione, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 3/2020, pp. 98-145 (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/saggi/fascicolo-n-3-2020-1/653-il-diritto-di-asilo-e-la-sua-multiforme-non-attuazione/file).
4. Trib. Bologna, ordinanza collegiale, 1° febbraio 2021, RG n. 11436/2020.
5. Trib. Bologna, ord. collegiale, 15 marzo 2021, RG n. 15840/2020.
6. Trib. Bologna, decreto collegiale, 22 marzo 2021, RG n. 15306/2018.
7. Vds., in proposito, C. Favilli, La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018, in Questione giustizia online, 14 marzo 2018 (www.questionegiustizia.it/articolo/la-protezione-umanitaria-per-motivi-di-integrazion_14-03-2018.php).