Le vulnerabilità tutelabili: la comparazione con il Paese d’origine
Il presente contributo non affronta le novità restrittive introdotte dal cd. “decreto Cutro”, ma offre un’ampia analisi della giurisprudenza sulle condizioni di vulnerabilità tutelabile nel quadro degli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano, di rilevante utilità anche nel nuovo quadro normativo.
1. La nozione di vulnerabilità / 2. La comparazione attenuata / 3. Le ipotesi di vulnerabilità tutelate dalla giurisprudenza di merito / 3.1. Le condizioni di salute / 3.1.1. Il rischio pandemico / 3.1.2. La ludopatia / 3.1.3. PTSD / 3.2. La minore età al momento della partenza o dell’arrivo in Italia / 3.3. L’ipotesi di smuggling e la riduzione in schiavitù / 3.4. Vulnerabilità per sfruttamento lavorativo (ove non ricorrano i presupposti per il riconoscimento delle protezioni maggiori) / 3.5. Vulnerabilità e cambiamenti climatici: i migranti ambientali / 4. Questioni aperte: l’art. 19.1.1 Tui e le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani / 5. Le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di merito
1. La nozione di vulnerabilità
La nozione di vulnerabilità è assimilabile a un caleidoscopio multicolore: si sostanzia in numerose forme e fattispecie da valutarsi caso per caso, ed è il cuore pulsante della protezione complementare. Una protezione che affonda le proprie radici nella legislazione europea (art. 6, par. 4, direttiva 2008/115/CE), che richiama la possibilità per gli Stati membri di introdurre, al fianco delle due forme di protezione internazionale, ulteriori tipologie di tutela che trovino legittimazione sulla base di «motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura».
La Corte di giustizia dell’Unione europea, dal canto suo, ha chiarito che gli Stati membri possono concedere forme di protezione umanitaria e caritatevole diverse e ulteriori rispetto a quelle riconosciute dalla normativa europea, purché non modifichino i presupposti e l’ambito di applicazione della disciplina derivata dell’Unione (sentenza B. e D. c. Germania, cause riunite C-57/09 e C-101/09, 9 novembre 2010), com’è stabilito dall’art. 3 della direttiva n. 95/2011, che consente l’introduzione o il mantenimento in vigore di disposizioni più favorevoli in ordine ai presupposti sostanziali della protezione internazionale, purché non incompatibili con la direttiva medesima.
Nel contesto del diritto europeo, la Cgue è stata più volte interpellata in merito al significato da attribuire al concetto di «humanitarian grounds». In particolare, nelle cause X e X (C-638/16 PPU, 7 marzo 2017) e Jafari (C-646/16, 26 luglio 2017), emerge l’idea che i motivi umanitari siano un concetto autonomo e ampio del diritto dell’Ue, che non può essere limitato, ad esempio, ai casi di assistenza medica o di assistenza sanitaria.
In altre parole, gli Stati membri e gli Stati firmatari della Cedu mantengono la facoltà di riconoscere discrezionalmente altre forme di protezione sulla base di motivi anche diversi rispetto a quelli considerati ai fini del riconoscimento delle forme di protezione internazionale maggiori[1].
Il concetto di vulnerabilità, dunque, non può coincidere esclusivamente né con i diritti umanitari previsti dal diritto internazionale né, tanto meno, con motivi che possano essere qualificati come “caritatevoli”, concetto che caratterizza un ambito giuridico che necessita di essere riempito di contenuto da parte dei singoli Stati. Infatti, le situazioni cd. “vulnerabili” possono avere l’eziologia più varia e non devono necessariamente discendere, come un minus, dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria.
Se una persona dichiara di essere vittima di tortura, di maltrattamenti passati, etc., è bene che sappia che può essere vulnerabile dal punto di vista psicologico, anche se non ci sono prove di un impatto psicologico, e, dunque, che può ottenere un adeguato supporto (ai sensi dell’art. 10 d.lgs n. 142/2015, se il richiedente è accolto nei centri governativi di prima accoglienza o nelle strutture temporanee di cui all’art. 11 del medesimo decreto; ai sensi dell’art. 35 d.lgs n. 286/1998 nel caso di richiedenti non iscritti al servizio sanitario nazionale ed esclusi dal circuito delle misure di accoglienza).
A seguito della novella legislativa introdotta con il dl n. 130/2020 (conv. in l. n. 173/2020), la disciplina dell’art. 19.1.1 Testo unico immigrazione (Tui) sulla protezione speciale ha subìto diverse modifiche; in relazione alla nozione di vulnerabilità e alle sue forme di tutela nel contesto della protezione speciale, le maglie interpretative – fortemente ridotte dal dl n. 113/2018, che aveva abrogato l’art. 5, comma 6, Tui (dunque il riconoscimento della protezione umanitaria nelle ipotesi di sussistenza di «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano») – sono state nuovamente ampliate grazie all’espresso richiamo (e al ripristino nell’impianto normativo) nell’art. 19, comma 1.1, Tui, agli obblighi costituzionali e internazionali, che affondano le proprie radici nell’art. 10 della Carta costituzionale e, dunque, negli impegni internazionali assunti dall’Italia. In questo modo assumono piena rilevanza situazioni di vulnerabilità diverse e ulteriori rispetto a quelle di cui alla seconda parte dello stesso comma, quali le condizioni soggettive vissute nei Paesi di transito e la violazione dei diritti fondamentali tutelati dalle Convenzioni internazionali a cui l’Italia ha aderito (per esempio, la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1984, o la Convenzione Onu sulla disabilità, ratificata con l. n. 18/2009, o la Convenzione di Istanbul sulle violenze di genere, ratificata con l. n. 77/2013), integrate dalla griglia dei diritti inviolabili stabiliti nella Costituzione[2].
Le differenze tra la disciplina della protezione umanitaria e quella della protezione speciale a seguito della novella legislativa sono, inoltre, delineate a chiare lettere in una recente pronuncia della Corte di cassazione[3]: i meccanismi di tutela di cui all’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998 e quelli di cui all’art. 19 d.lgs n. 286/1998 sono, invero, fondati sugli stessi principi fondamentali, ma sono strutturati in modo diverso. In particolare, la Suprema corte evidenzia che la riforma non ha inserito, nella compagine dei diritti fondamentali, diritti nuovi la cui tutela fosse in precedenza preclusa, ma ha indicato le modalità con cui – ai fini dell’attuazione del divieto di respingimento – il diritto alla vita privata e familiare deve essere valutato da chi è chiamato ad applicare la norma e con quali altri diritti e interessi può essere bilanciato. Resta ferma, evidentemente, la rilevanza degli altri diritti compresi nel catalogo aperto di cui all’art. 2 Costituzione, tra i quali, a titolo esemplificativo, i diritti alla salute, alla libertà personale, all’autodeterminazione, a non subire trattamenti inumani e degradanti.
Da ultimo, occorre segnalare che, tra le varie modifiche apportate dal dl 10 marzo 2023, n. 20, convertito in l. 5 maggio 2023, n. 50, recante «Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare», vi sono quelle relative alla disciplina della protezione speciale; pertanto l’art. 19.1.1 Tui è oggi così delineato: «Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all’art. 5 comma 6. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani».
Se dunque, da un lato, parrebbe eliminato il divieto di respingimento o di espulsione di una persona qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale comporti una violazione della sua vita privata e familiare, e parimenti eliminati gli indici della natura ed effettività dei legami familiari, dell’inserimento sociale e della durata del soggiorno sul territorio nazionale nonché l’esistenza di legami con il Paese d’origine (che dunque non costituiscono più elementi, normativamente previsti, utili ai fini della valutazione del rischio di violazione della vita privata e familiare dello straniero in Italia), dall’altro, tuttavia, nessuna modifica è stata apportata alla tutela delle situazioni di vulnerabilità che continuano a essere tutelate nell’alveo della prima parte dell’art. 19.1.1 Tui, che richiama gli «obblighi di cui all’art. 5 comma 6» del Tui, norma anch’essa immutata e che, a sua volta, impone il rispetto degli obblighi «costituzionali o internazionali dello Stato».
È in questo contesto normativo, dunque, che si innesta il concetto di vulnerabilità, che ricomprende e assorbe ipotesi tra loro molto eterogenee; sin dal 2008, la Suprema corte ha precisato che esse devono essere poste in comparazione con il grado di integrazione sociale in Italia.
Sul tema, centrali sono state le motivazioni della ben nota pronuncia della Corte di cassazione, sez. I, n. 4455/2018, che non solo ha aperto a una concezione allargata della vulnerabilità del cittadino straniero, ma ha altresì introdotto la necessità di «una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)».
La tenuta della soluzione adottata nel 2018, confermata da sez. unite, nn. 29459, 29460, 29461/2019, è stata ribadita dalla giurisprudenza successiva.
Un filo rosso nella giurisprudenza, di merito e di legittimità, inscrive dunque la nozione di vulnerabilità in un “catalogo aperto” e la lega a quelle “ragioni di tipo umanitario” che non rientrano nelle protezioni maggiori. Questo spiega il motivo per il quale la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che il ricorrente debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle domande di protezione maggiore (sez. I, n. 21123/2019).
In altre pronunce, invece, è dato leggere che gli stessi fatti posti a fondamento delle protezioni maggiori, e che tuttavia non consentano il riconoscimento delle stesse, ben possono valere per ragioni umanitarie (per esempio, il richiedente che sia un paziente psichiatrico e provenga da un Paese nel quale non rischi di subire atti persecutori per tale condizione).
2. La comparazione attenuata
La giurisprudenza di legittimità ha, quindi, precisato il contenuto della valutazione comparativa, introducendo il concetto di «comparazione attenuata», che si declina nei seguenti termini: quanto più è intensa la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis (Cass., n. 1104/2020): cioè a dire, quanto più sono accertate le condizioni di vulnerabilità – per ragioni (non tassative, perché appunto “aperte”) di genere, di età, di stato sociale, di condizioni personali e familiari, di situazioni di estrema indigenza, di salute, di (in)sicurezza diffusa[4] –, tanto più gli elementi che caratterizzano la condizione del richiedente sul territorio nazionale (integrazione lavorativa, sociale, culturale, familiare) avranno una minor forza decisiva.
Corollario di tale interpretazione è l’inquadramento della condizione di vulnerabilità determinata dalle (sempre drammatiche) esperienze nel contesto del Paese di transito; invero, non si può escludere il rilievo preminente della gravità della condizione accertata solo perché si è determinata durante la permanenza nel Paese di transito (ad esempio: violenze sessuali, violenze fisiche perpetrate in Libia)[5].
La più recente giurisprudenza della Suprema corte, a sezioni unite[6], traccia confini ancor più marcati intorno al giudizio di comparazione tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel Paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana.
Trova dunque consacrazione il criterio della cd. comparazione attenuata, tale per cui, al contrario, situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese originario possono fondare il diritto alla protezione umanitaria (oggi protezione speciale) anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione in Italia.
In termini di comparazione attenuata si esprime anche la sez. VI-1, n. 10130/2022 (Rv. 664563-01), precisando che, ove il ricorrente dimostri di aver raggiunto un’integrazione in Italia, anche se limitata alla sola attività lavorativa, il giudice di merito è tenuto a effettuare la comparazione attenuata al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio possa comportare uno scadimento delle condizioni di vita privata tale da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 Cedu[7].
Quali sono, dunque, i criteri di valutazione utilizzati dalla giurisprudenza della Suprema corte?
Con riferimento al livello di integrazione raggiunto in Italia, la Corte aveva ribadito che, qualora si accerti che tale livello è stato raggiunto e che il ritorno nel Paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tali da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 Cedu, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998, per riconoscere il permesso di soggiorno.
In altre pronunce[8], la Suprema corte utilizza il concetto di «forte radicamento sul territorio» per addivenire alle seguenti conclusioni: se vi è un forte radicamento sul territorio del richiedente asilo, nel giudizio di comparazione tra le condizioni di vita nel Paese d’accoglienza e quelle nel Paese d’origine, queste ultime assumono una rilevanza proporzionalmente minore: segnatamente, non rileva se le condizioni del Paese d’origine siano tali da determinare oggettivamente la lesione dei diritti fondamentali, ma se tale effetto si produca con il rimpatrio, in relazione al divario tra ciò che il migrante ha conseguito in Italia e ciò che, irrimediabilmente, perderebbe ritornando nel Paese natio.
A medesime conclusioni giunge anche sez. I, n. 465/2022 (Rv. 663485-01), facendo riferimento al concetto di «apprezzabile livello di integrazione lavorativa»: e stabilendo che, nel giudizio di comparazione, deve essere attribuito alla condizione del richiedente nel Paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che egli dimostri di aver raggiunto nella società italiana, sicché, ove si accerti che è stato raggiunto un apprezzabile livello di integrazione lavorativa del migrante, non è necessaria la verifica che il rimpatrio possa comportare una compromissione dei diritti fondamentali, essendo sufficiente la constatazione che il ritorno nel Paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare, tale da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 Cedu, così integrandosi quel serio motivo di carattere umanitario che, ai sensi dell’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998, esclude il rifiuto del permesso di soggiorno.
La necessità di compiere il giudizio di comparazione è ribadita anche da sez. III, ord. n. 19045/2022, che si preoccupa altresì di segnare un criterio distintivo tra quanto deve essere accertato ai fini del riconoscimento delle protezioni internazionali (l’esistenza di un rischio che riguardi direttamente e personalmente il richiedente) e quanto, invece, è da valutare per il riconoscimento della protezione nazionale (la violazione del nucleo incomprimibile dei diritti della persona nel Paese d’origine).
In particolare, nella decisione in esame, si afferma che:
«se, per il riconoscimento dello status di rifugiato, o della protezione sussidiaria di cui alle lettere a) e b) del d.lgs. 251/2007, deve essere dimostrato che il richiedente asilo abbia subito, o rischi concretamente di subire, atti persecutori così come definiti dall’art. 7 (atti sufficientemente gravi per natura o frequenza, tali da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, ovvero costituire la somma di diverse misure il cui impatto si deve risolvere in una grave violazione dei medesimi diritti), di tal che la eventuale decisione di accoglimento della relativa domanda consegue ad una valutazione prognostica dell’esistenza di un rischio – onde il requisito essenziale per il riconoscimento di tale forma di protezione consiste nel fondato timore di persecuzione, personale e diretta, nel paese di origine del richiedente asilo, alla luce di una violazione individualizzata, e cioè riferibile direttamente e personalmente al richiedente asilo, in relazione alla situazione del Paese di provenienza, da compiersi in base al racconto ed alla valutazione di credibilità operata dal giudice di merito – diversa, invece, è la prospettiva dell’organo giurisdizionale in tema di protezione umanitaria, per il riconoscimento della quale è necessaria e sufficiente (anche al di là ed a prescindere dal giudizio di credibilità del racconto) la valutazione comparativa tra il livello di integrazione raggiunto in Italia e la situazione del Paese di origine, qualora risulti ivi accertata la violazione del nucleo incomprimibile dei diritti della persona che ne vulnerino la dignità – accertamento che prende le mosse, senza poterne in alcun modo prescindere, dal dettato costituzionale di cui all’art. 10 comma 3, ove si discorre di impedimento allo straniero dell’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».
Le violenze subite (o i traumi passati), siano essi occorsi nel Paese d’origine o nel Paese di transito o, ancora, durante l’attraversamento in mare su mezzi di trasporto del tutto fortuiti, incidono su vari elementi costitutivi della fattispecie: 1) sulla condizione di vulnerabilità della persona; 2) sulla capacità della persona di reinserirsi socialmente in caso di rimpatrio, preservando le inalienabili condizioni di dignità umana[9]; sul grado di integrazione della persona sul territorio nazionale.
Va da ultimo segnalato un recente orientamento della Suprema corte che, solo con l’entrata in vigore del dl n. 130/2020, ha evidenziato il venir meno della valutazione comparativa della situazione personale del richiedente asilo rispetto alle condizioni del Paese di origine: «In tema di protezione internazionale “speciale”, la seconda parte dell’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. 286 del 1998, come modificato dal d.l. n. 130 del 2020, convertito con l. n. 173 del 2020 – applicabile “ratione temporis” nel giudizio di legittimità avverso una decisione resa successivamente all’entrata in vigore della legge, quindi dal 22 ottobre 2020 – attribuisce diretto rilievo all’integrazione sociale e familiare in Italia del richiedente asilo, da valutare tenendo conto della natura e dell’effettività dei suoi vincoli familiari, del suo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno e dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine, senza che occorra procedere ad un giudizio di comparazione con le condizioni esistenti in tale paese, neppure nelle forme della comparazione attenuata con proporzionalità inversa»[10].
Tale orientamento porta a ritenere che il dl n. 130/2020 abbia operato un ampliamento, e non già un restringimento, delle maglie dell’art. 19.1 Tui (dal cui contesto non sono, evidentemente, scomparse le ipotesi di vulnerabilità), al punto da non rendersi più necessaria la valutazione comparativa con le condizioni esistenti nel Paese di origine del ricorrente.
3. Le ipotesi di vulnerabilità tutelate dalla giurisprudenza di merito
Poiché non vi è una definizione di “vulnerabilità” nemmeno nel sistema comune europeo dell’asilo (CEAS), si tratta di un concetto dai confini flessibili, che va individualizzato e delineato caso per caso.
La legislazione dell’Ue in materia di asilo ha sempre incluso garanzie speciali per le persone vulnerabili – radicate nei principi di uguaglianza («Ogni individuo è uguale davanti alla legge», art. 20 della Carta) e di non discriminazione (art. 21, par. 1 della Carta). Tutti gli strumenti CEAS devono essere applicati e interpretati alla luce della Carta dell’Ue, in quanto parte del diritto primario dell’Unione.
La direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (rifusione), recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, si riferisce alla “vulnerabilità” utilizzando due nozioni distinte ma interconnesse: «esigenze particolari di accoglienza» e «garanzie procedurali speciali»[11].
In particolare, il considerando n. 29 della citata direttiva, nel richiamare i Paesi europei all’impegno a prevedere e osservare garanzie procedurali speciali, radica tale necessità sui richiedenti per i quali può sorgere, in considerazione dei seguenti elementi: l’età, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, la disabilità, gravi malattie, disordini mentali, o tenuto conto delle conseguenze derivanti da torture, stupri o altre gravi forme di violenza psicologica, fisica o sessuale che gli stessi abbiano subito.
Inoltre, l’art. 2, lett. h-bis, d.lgs n. 25/2008 offre una lista (meramente esemplificativa) di soggetti considerati ex lege vulnerabili: i minori, i minori non accompagnati, i disabili, gli anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta di esseri umani, persone affette da gravi malattie o disturbi mentali, persone per le quali è accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, vittime di mutilazioni genitali.
A completare il quadro dell’impatto della vulnerabilità nel contesto delle normative europee va menzionato l’art. 15.3 sui «Criteri applicabili al colloquio personale», il quale precisa che «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie affinché il colloquio personale si svolga in condizioni che consentano al richiedente di esporre in modo esauriente i motivi della sua domanda. A tal fine gli Stati membri: a) provvedono affinché la persona incaricata di condurre il colloquio abbia la competenza per tener conto del contesto personale e generale in cui nasce la domanda, compresa l’origine culturale, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità sessuale o la vulnerabilità del richiedente (…)».
L’impianto normativo dimostra la soglia di attenzione – elevata – che ci deve essere nei confronti dei soggetti vulnerabili durante l’intera procedura di riconoscimento del diritto di asilo, dovendosi tener conto degli eventi traumatici ai quali possa essere stato esposto il richiedente; un evento traumatico è definito nella «Classifica internazionale delle malattie» (ICD-10) come «[esposizione a un] evento o a una situazione stressante (di breve o lunga durata) di natura eccezionalmente minacciosa o catastrofica»[12].
Parimenti, il Protocollo di Istanbul descrive in dettaglio molte possibili risposte alla tortura, che possono essere applicate anche ad altre forme di persecuzione o di danno grave. Esso traccia anche una mappa delle risposte alle diagnosi psichiatriche più comuni – DPTS e depressione – e rileva altre possibili diagnosi dopo la tortura (ad esempio, disturbo di panico, ansia generalizzata), che possono essere applicate e valutate anche in correlazione (e in maniera concomitante) ad altre forme di persecuzione.
3.1. Le condizioni di salute
Nell’alveo della vulnerabilità, la giurisprudenza di legittimità ha in più occasioni dato rilievo alle condizioni di salute[13] del ricorrente nel contesto della protezione umanitaria, in considerazione della sua ratio, che è quella di non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona, come quello alla salute, e al contempo di essere posti nella condizione di integrarsi nel Paese ospitante anche attraverso un’attività lavorativa.
Pertanto, una seria esposizione al rischio di una lesione del diritto alla salute (adeguatamente allegata e dimostrata) rileva ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie e non a quello per cure mediche di cui all’art. 36 Tui, che si può ottenere esclusivamente mediante specifico visto d’ingresso e pagamento delle spese mediche da parte dell’interessato (Cass., n. 2558/2020).
Occorre quindi che il giudice valuti anche la possibilità per il richiedente, in caso di rimpatrio, di essere posto in condizione di usufruire del godimento dei diritti fondamentali in relazione sia alle condizioni di vita nel Paese di provenienza, sia alle limitazioni derivanti dalla malattia da cui è affetto.
Già con la nota pronuncia n. 4455/2018, la Suprema corte aveva affermato – esprimendo un orientamento generalmente accolto dalla giurisprudenza di legittimità – che «[l]a vulnerabilità può essere la conseguenza di un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute, non potendo tale primario diritto della persona trovare esclusivamente tutela nell’art. 36 del d.lgs n. 286 del 1998».
Si tratta di un concetto riferito tanto a una malattia quanto a una disabilità, sia di carattere fisico che di natura psichica, e cioè sia psichiatrica che psicologica, la quale non deve essere necessariamente patologica o irreversibile, ma può altresì avere una connotazione solo temporanea. E invero, l’esame della domanda che conduce all’attribuzione della tutela complementare nazionale si connota, infatti, per essere una valutazione “allo stato”, che tiene in considerazione la situazione del ricorrente al momento del ricorso; pertanto, un’eventuale modifica in senso migliorativo delle condizioni dello stesso potrà condurre, al momento della richiesta di rinnovo del permesso, a un esito negativo, non sussistendo più il bisogno di tutela della salute.
Sempre rispetto all’identificazione della nozione di cui si discute, è possibile qui riportare quanto espresso dalla Cassazione nella sentenza n. 7615 del 4 aprile 2011[14], nella quale la Corte circoscrive l’ipotesi di inespellibilità per motivi di salute a interventi sanitari necessari, non limitati all’assistenza di primo soccorso o d’urgenza, ma estesi agli «interventi essenziali quoad vitam diretti alla eliminazione della grave patologia che affligge lo straniero». Tra essi vengono ricompresi cicli terapeutici anche di lunga durata, i quali, per poter raggiungere l’obiettivo per cui vengono predisposti, devono necessariamente essere eseguiti in Italia, dal momento che un’eventuale interruzione dovuta al rimpatrio vanificherebbe i risultati raggiunti o, comunque, comprometterebbe le chance di guarigione. La Corte di cassazione, nella medesima pronuncia, ha altresì precisato che «si tratta di distinguere tra interventi indifferibili (anche se di consistenza temporale non irrilevante) che rendono inespellibile lo straniero irregolare che di essi necessiti ed interventi sanitari che qualunque straniero può fruire in Italia ove chieda ed ottenga, previa valutazione dell’Autorità Amministrativa, il previsto permesso di soggiorno per cure mediche (del D. Lgs. n. 286 del 1998, art. 36)».
Inoltre, con riferimento all’identificazione delle condizioni di salute rilevanti, occorre considerare che la costante giurisprudenza di legittimità, pronunciatasi in materia di inespellibilità di persona affetta da problemi di salute, ha affermato che «in tema di espulsione dello straniero, la garanzia del diritto fondamentale alla salute del cittadino straniero, che comunque si trovi nel territorio nazionale, impedisce l’espulsione nei confronti di colui che dall’immediata esecuzione del provvedimento potrebbe subire un irreparabile pregiudizio, dovendo tale garanzia comprendere non solo le prestazioni di pronto soccorso e di medicina d’urgenza, ma anche tutte le altre prestazioni essenziali per la vita» (Cass., sez. unite, 10 giugno 2013, n. 14500; conforme Cass., 27 giugno 2016, n. 13252).
Sulla stessa linea delle sezioni unite si era già posta la circolare del Ministero della salute 24 marzo 2000, n. 5, recante «indicazioni applicative del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 – Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Disposizioni in materia di assistenza sanitaria» (G.U., 24 marzo - 1° giugno 2000, n. 126), secondo la quale «per cure essenziali si intendono le prestazioni sanitarie, diagnostiche e terapeutiche, relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o rischi per la vita (complicanze, cronicizzazioni o aggravamenti)». Le sezioni unite hanno, altresì, evidenziato come l’art. 35 Tui avesse affermato il principio della continuità delle cure urgenti ed essenziali, nel senso di assicurare all’infermo il ciclo terapeutico e riabilitativo completo riguardo alla possibile risoluzione dell’evento morboso.
Da ultimo, la Suprema corte ha affermato che, «per il principio di continuità delle cure essenziali, il cittadino straniero ha diritto a prestazioni terapeutiche o diagnostiche relative ad una patologia che, anche se non pericolosa nell’immediato, potrebbe determinare nel tempo un maggior danno per la salute o rischi per la vita» (Cass., 6 marzo 2019, n. 6532).
Va precisato, inoltre, che vengono considerati elementi rilevanti, necessariamente tenuti in considerazione nel processo decisionale, anche l’assenza o la carenza di adeguate risorse nel sistema sanitario del Paese d’origine o la presenza di limitazioni all’accesso alle cure[15].
Occorre, dunque, domandarsi se nel quadro così delineato persista il giudizio di comparazione e, in caso di risposta affermativa, quali contenuti esso abbia. Dall’analisi della giurisprudenza di merito si ricava che il giudizio comparativo viene effettuato e si sostanzia nel delineare l’impossibilità ad accedere ai servizi essenziali come pregiudizio al diritto alla vita.
3.1.1. Il rischio pandemico
Riconosciuto dall’art. 32 Cost.[16], esso rientra certamente tra quegli «obblighi costituzionali» cui fa riferimento la norma e cui lo Stato italiano è tenuto a dare attuazione.
I tribunali di merito si sono interrogati sul fattore pandemico da Covid-19 e se esso possa fondare il divieto di respingimento, e quale interpretazione emerga dalla giurisprudenza della Corte di giustizia sul principio di non-refoulement.
Oggetto di accertamento del fatto in esame è il rischio epidemico, da valutare in modo prognostico, cui sarebbe esposto il ricorrente, in caso di rimpatrio, per la situazione di sicurezza del Paese d’origine (rischio epidemico che, alla luce di quanto detto poco sopra, potrebbe rappresentare un elemento rilevante ai fini del riconoscimento di una condizione di vulnerabilità).
Dirimente è stata la valutazione di fonti (COI) pertinenti e aggiornate che tengano conto dei rischi diretti e indiretti collegati alla pandemia (tra i rischi indiretti, ricordiamo: la contrazione economica, l’insicurezza alimentare, i disordini sociali, le tensioni politiche, etc. – tutti elementi da esaminare specificamente). Uno strumento particolarmente utile si è rivelato l’“INFORM Covid-19”[17].
Il Tribunale di Napoli, con decreto del 25 giugno 2020, ha riconosciuto la protezione umanitaria a un cittadino del Pakistan (nato a Gujar Khan, in Punjab) in ragione della situazione di emergenza sanitaria da Covid-19 nel Paese d’origine. Una decisione di contenuto analogo è stata emessa (con decreto del 30 giugno 2020) con riferimento a un cittadino del Bangladesh.
Il Tribunale di Milano ha analizzato il rischio pandemico nell’ambito di procedimenti volti al riconoscimento della protezione internazionale e complementare: il rischio epidemico, infatti, è stato inquadrato nell’alveo della protezione umanitaria, divenendone un elemento costitutivo in un contesto di valutazione della specifica situazione individuale del ricorrente.
In un caso, per esempio, il medesimo Tribunale[18] ha riconosciuto al ricorrente, proveniente dalla Guinea, la protezione umanitaria tenendo conto sia della situazione complessiva del Paese di origine (analizzata tramite gli strumenti/fonti di informazione ut supra richiamati – Inform Covid-19) e dell’incapacità a gestire il rischio pandemico nella specifica zona di provenienza del ricorrente, sia della situazione individuale vulnerabile del richiedente asilo (che, nel caso di specie, presentava diversi specifici fattori di vulnerabilità individuali che lo avrebbero esposto a un maggior rischio in caso di rimpatrio, quali l’età, la zona di provenienza, la vulnerabilità psichica e la presenza nel Paese di situazioni di conflitto a bassa intensità o di generale instabilità).
In un altro caso[19], a un richiedente asilo proveniente dal Senegal il Tribunale non ha riconosciuto né le forme di protezione maggiori, né quella complementare, motivando la decisione di rigetto alla luce del contesto pandemico nella specifica zona di provenienza, combinato con la specifica condizione soggettiva del ricorrente (un uomo adulto, mediamente scolarizzato, che non risulta essere affetto da patologie attuali o pregresse e che ha riferito di essere in costante contatto con la famiglia nel Paese di origine).
3.1.2. La ludopatia
Il Tribunale di Milano ha valutato la condizione di ludopatico del ricorrente, il suo livello di dipendenza, e ha effettuato la comparazione con il Paese di origine e le cure che egli avrebbe potuto (o non avrebbe potuto) ottenere, giungendo alla conclusione che la sua condizione fosse inquadrabile nell’alveo della vulnerabilità rilevante ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. Più specificamente, la documentazione medica in atti dava evidenza del fatto che il ricorrente fosse stato preso in carico, a partire dal febbraio 2021, dal Servizio di prevenzione e cura delle dipendenze («ASST Socio Sanitaria Territoriale dei Sette Laghi») e fosse in cura presso l’Ambulatorio specialistico per il trattamento del disturbo da gioco d’azzardo della zona di domicilio.
Una accurata analisi delle fonti[20] ha portato il Tribunale a concludere che, nel Paese di origine (Nigeria), erano impossibili cure adeguate per i soggetti affetti da ludopatia: non solo la Nigeria è un Paese che non disincentiva il gioco, ma nemmeno provvede a istituire centri di trattamento specializzati per i giocatori problematici o patologici. Poiché la consapevolezza dei problemi legati al gioco d’azzardo è limitata tra la popolazione e tra i professionisti della sanità e delle professioni affini, la maggior parte delle persone con problemi legati al gioco d’azzardo non viene riconosciuta e non viene trattata. Si è, dunque, valorizzato lo sforzo effettuato dal ricorrente per integrarsi nel tessuto sociale nazionale (il ricorrente aveva svolto attività lavorativa, ridotta a seguito della necessità di curare la ludopatia).
3.1.3. PTSD
Con specifico riguardo al «Disturbo post traumatico da stress» (PTSD), l’Oms[21] riporta che i disturbi mentali più comuni tra migranti internazionali sono la depressione e il disturbo post traumatico da stress. La PTSD è una condizione mentale sofferta da molti richiedenti asilo per la natura stessa dei viaggi da questi sostenuti per giungere nei Paesi di destinazione, potenzialmente scanditi da eventi traumatici.
In un caso esaminato dal Tribunale di Milano[22], parimenti, dalla documentazione medica era emersa la diagnosi del disturbo post traumatico da stress. Il Collegio ha valutato la vulnerabilità altresì nel contesto del vissuto personale del ricorrente, connotato da diversi traumi in giovane età e nelle difficoltà legate al tentativo di sopravvivere, anche vivendo per strada, per sfuggire dalla dolorosa vicenda personale di cui è stato protagonista insieme alla sorella.
Il Collegio ha, dunque, valutato che tale monitoraggio terapeutico in senso ampio, e l’equilibrio e assestamento della sua vita che, di conseguenza, il ricorrente stava costruendo con costanza e determinazione, sarebbero stati fortemente compromessi nell’eventualità di un rimpatrio in Costa d’Avorio. Un rimpatrio che avrebbe determinato quella effettiva e incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita «nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile per una vita dignitosa», quello in Italia e quello in Costa d’Avorio, tenuto conto dell’assenza nel Paese d’origine di alcun legame familiare e di alcuna attività lavorativa, e della presenza sul territorio nazionale di un ben preciso percorso di integrazione socio-lavorativa, da un lato, e di un percorso di sostegno psicologico, dall’altro.
Il Tribunale ha effettuato una sorta di comparazione attenuata tra l’integrazione lavorativa e la vulnerabilità, evidenziando che quanto maggiore è lo stato di vulnerabilità psicologica/psichica, tanto minore è la capacità di integrazione sul territorio nazionale quantomeno nel contesto socio-lavorativo.
3.2. La minore età al momento della partenza o dell’arrivo in Italia
La giurisprudenza di legittimità è ormai univoca nel ricordare che va dato puntuale rilievo alla minore età al momento dell’allontanamento dal Paese di origine, quale fattore specifico di vulnerabilità, imponendosi al tribunale il giudizio di comparazione attenuato, attesa la presumibile traumaticità della fuga e del viaggio (vds., ex multis, Cass., sez. I, ord. 6 febbraio 2023, n. 6185 – dep. 1° marzo 2023).
3.3. L’ipotesi di smuggling e la riduzione in schiavitù
La giurisprudenza di merito[23] ha analizzato il fenomeno del contrabbando di esseri umani e della differenza rispetto al fenomeno, altrettanto gravoso, della tratta di esseri umani, annoverandolo nel concetto di vulnerabilità (e dunque nel più ampio contesto del vissuto personale traumatico del richiedente asilo).
Le fonti[24] analizzate nel caso specifico, che riguardava un richiedente proveniente dalla Nigeria, hanno fatto emergere dati specifici in relazione al traffico di esseri umani e al contrabbando delle persone, evidenziando che la maggior parte degli uomini nigeriani siano vittime di smuggling piuttosto che di tratta verso l’Europa, il che significa che essi – e/o le loro famiglie – generalmente pagano in anticipo i contrabbandieri per facilitare il viaggio verso la Libia e l’attraversamento del Mediterraneo. Secondo i media internazionali, alcuni migranti nigeriani maschi hanno preso la decisione di viaggiare in Europa da soli, mentre altri sono stati costretti a partire dai membri della famiglia. Alcuni erano ben preparati e avevano risparmiato in anticipo per il viaggio, mentre altri hanno deciso di partire spontaneamente.
In un caso analizzato dal Tribunale meneghino[25] era emerso un solo elemento tipizzante la tratta degli esseri umani, ovvero l’abuso e l’inganno del ricorrente da parte dello zio del medesimo, ma non il trasporto in un Paese terzo al fine dello sfruttamento lavorativo con riferimento all’intero periodo di permanenza in Libia.
Esclusi i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, il fenomeno dello smuggling è stato analizzato nell’alveo della vulnerabilità del ricorrente: il tribunale ha ritenuto che il ricorrente, per il proprio vissuto personale (oltre a essere vittima di contrabbando di esseri umani era stato testimone oculare del decesso del fratello all’esito del naufragio occorso al largo delle coste italiane, ed era espatriato in giovanissima età, da neo-diciottenne), era vulnerabile.
Richiamati le sez. unite, n. 24413/2021, e il principio della comparazione attenuata (applicabile anche nel caso in cui la gravità della condizione accertata si sia determinata durante la permanenza nel Paese di transito), al ricorrente è stata riconosciuta la protezione speciale (tenuto conto della pur sussistente integrazione socio-lavorativa).
Una recente pronuncia della Suprema corte[26] ha confermato l’analisi ora delineata in un caso in cui il ricorrente era stato venduto dal trafficante a cui si era affidato per lasciare l’Algeria, venendo poi picchiato e trattenuto contro la sua volontà. La Corte ha precisato che tale circostanza, ritenuta veritiera dal tribunale di merito, assumeva valore decisivo ai fini del riconoscimento di una situazione di vulnerabilità, atteso che l’art. 2, lett. h-bis d.lgs n. 25/2008 ricomprende nell’ambito delle persone vulnerabili anche quelle per le quali è accertato che hanno subito forme gravi di violenza psicologica e fisica. Invero, nel contesto dello smuggling nel Paese di transito si inserisce anche la condizione di schiavitù a cui il soggetto trafficato è sottoposto, condizione che va valutata come elemento rilevante nel contesto dell’analisi della vulnerabilità da porre a fondamento della tutela del richiedente asilo.
In altra pronuncia[27], la Suprema corte ha valutato che la sottoposizione del richiedente a lavori forzati e a tortura in Libia (di cui egli aveva anche allegato documentazione medica attestante ferite derivanti da colpi di machete) fossero elementi rilevantissimi, poiché le violenze subite nel Paese di transito e di temporanea permanenza sono circostanze potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, a determinare una condizione di vulnerabilità della persona. Il giudice di merito, quindi, è tenuto a indagare sui fatti specificamente in tal senso dedotti, poiché non può eludere il rispetto del quadro normativo internazionale e in particolare del Protocollo di Istanbul in riferimento alla documentazione di tortura.
3.4. Vulnerabilità per sfruttamento lavorativo (ove non ricorrano i presupposti per il riconoscimento delle protezioni maggiori)
La protezione delle vittime di sfruttamento lavorativo, ove vengano ritenuti insussistenti i presupposti per il riconoscimento di forme di protezione maggiori, è affidata alla protezione complementare e, nella ricorrenza dei presupposti di legge, agli artt. 18 del Tui e 27 del dPR n. 394/1999, ai sensi dei quali il permesso di soggiorno può essere rilasciato dal questore anche su proposta dei servizi sociali degli enti locali, o dalle associazioni, enti e altri organismi iscritti nella seconda sezione del registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati[28]. Diversi sono, quindi, gli strumenti di tutela a livello normativo, che tuttavia scontano non pochi limiti[29].
La Corte di cassazione, nella pronuncia n. 17204/2021, ha evidenziato, in un caso nel quale era emersa la condizione di sfruttamento lavorativo, che il giudice ha l’obbligo di valutare adeguatamente la condizione soggettiva di vulnerabilità del richiedente sotto il profilo dell’assoggettamento a forme di sfruttamento lavorativo, e ha precisato che «anche laddove non siano riscontrabili i presupposti applicativi di cui al D.Lgs. n. 285 del 1998, art. 22, comma 12 quater, forme di sfruttamento lavorativo – in relazione alle condizioni in cui si sviluppano, normalmente caratterizzate da forte precarietà, da isolamento ambientale e sociale, da scarsa regolazione del lavoro e conseguente sovraccarico anche emotivo, da estrema dipendenza dal datore di lavoro, fino a forme di coazione servile – possano gravemente incidere sul quadro psicologico dello straniero che richiede protezione». In altri termini, la Corte a chiare lettere evidenzia che lo sfruttamento lavorativo incide sul quadro psicologico della persona, resa vulnerabile, e può anche sfociare (nella sua forma più grave) in disturbi mentali di cui occorre, anche, tener conto nella valutazione della situazione concreta che affligge il soggetto sfruttato e, per ciò stesso, reso vulnerabile.
Sulla medesima scia si colloca la giurisprudenza di merito. Il Tribunale di Milano, in due recenti pronunce[30], ha evidenziato che la protezione umanitaria (oggi, a seguito delle modifiche del dl n. 130/2020 convertito in l. n. 173/2020, protezione speciale) fonda le proprie radici nel diritto di asilo costituzionale (art. 10 Cost.) e la condizione di sfruttamento lavorativo integra evidentemente un elemento di vulnerabilità, alimentata dall’assenza di soluzioni alternative concrete, tenuto conto dell’impossibilità di reperire un lavoro regolare (dato il difficile contesto lavorativo) e dalla necessità, pur in un contesto oltremodo disumano e degradante, di mantenere quello irregolare, al fine di garantirsi un seppur minimo sostentamento. Il Tribunale ha evidenziato che la protezione complementare garantisce una tutela differente rispetto a quella prevista dall’art. 22, comma 12-quater, Tui[31], sia per i presupposti sia per la fonte normativa di tutela.
La protezione complementare, dunque, riesce a garantire in questo modo la più ampia tutela del lavoratore straniero sfruttato: si tratta di una tutela dalle maglie molto più estese rispetto a quella prevista dall’art. 22, comma 12-quater Tui, sia perché priva delle condizioni ivi previste per addivenire al rilascio di un permesso di soggiorno, sia perché azionabile da un maggior numero di soggetti (anche dai richiedenti asilo titolari, nelle more del procedimento, di un permesso di soggiorno temporaneo), sia, da ultimo, perché consente di ottenere un permesso di soggiorno della durata maggiore, ovvero di due anni (art. 32, comma 3, d.lgs n. 25/2008), che permette di svolgere attività lavorativa[32] ed è rinnovabile previo parere della commissione territoriale.
Del medesimo tenore una recente pronuncia del Tribunale di Firenze[33], che ha riconosciuto un permesso di soggiorno «per protezione speciale» di durata biennale e convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, comma 1.2, e 6, comma 1-bis Tui e dell’art. 32, comma 3, d.lgs n. 25/2008, come modificati rispettivamente dagli artt. 1, lett. e e b, e 2, lett. e, dl n. 130/2020 a un richiedente protezione speciale (ex art. 19.1.2 Tui). Il Tribunale, dopo una disamina delle fonti normative europee e nazionali, ha evidenziato l’emersione degli indici di sfruttamento lavorativo (quali quelli relativi al numero di ore di lavoro svolto, alla difficoltà di identificazione della provenienza delle risorse per il sostentamento del ricorrente negli anni di permanenza in Italia e al fatto che il luogo di lavoro era diverso da quello in cui il ricorrente aveva dichiarato di abitare), ha attivato la procedura di referral e, all’esito, ha riconosciuto la condizione di sfruttamento lavorativo che, secondo il Collegio, integra evidentemente un elemento di vulnerabilità rilevante anche nell’alveo della protezione speciale, in quanto le ipotesi legate ai motivi umanitari, ancorate al concetto di vulnerabilità, non sono state eliminate dal legislatore con la riformulazione (parziale) del principio di non-refoulement avvenuta con il dl n. 130/2020, conv. in l. n. 173/2020, ma sono immanenti all’intero impianto normativo della protezione internazionale, di cui la protezione speciale costituisce una protezione complementare, espressione del diritto di asilo costituzionalmente tutelato dall’art. 10 della Carta costituzionale.
3.5. Vulnerabilità e cambiamenti climatici: i migranti ambientali
Come è noto, le gravi condizioni climatiche che affliggono il pianeta spingono le popolazioni, da tempo immemore, a cercare riparo in zone più sicure. La Suprema corte[34], a chiare lettere, in una pronuncia risalente a qualche anno fa, ha chiarito che ove il richiedente il permesso di soggiorno per motivi umanitari affermi di essere emigrato a seguito di eventi calamitosi verificatosi nel Paese di origine, occorre tener conto che l’art. 20-bis d.lgs n. 286/1998, introdotto dal dl n. 113/2018, convertito con modifiche dalla l. n. 132/2018, ancorché non applicabile ratione temporis, ha espressamente previsto un particolare permesso di soggiorno, da concedersi quando nel Paese di origine dello straniero vi sia una situazione di contingente ed eccezionale calamità; in tal modo, la norma ha tipizzato una condizione di vulnerabilità già tutelabile. Ne deriva che, ai fini della valutazione della vulnerabilità del richiedente, deve ritenersi rilevante anche la sussistenza della situazione di calamità[35].
Va rilevato in questa sede che l’art. 20-bis Tui è stato oggetto di modifiche da parte del dl n. 130/2020 (convertito in l. n. 173/2020), che ne ha ampliato la portata applicativa sostituendo alla nozione di «situazione di contingente ed eccezionale calamità», quella di «grave calamità». Il dl n. 20/2023 ha riportato la nozione negli stretti confini introdotti dal dl n. 113/2018 e, dunque, ha ripristinato la nozione di «situazione di contingente ed eccezionale calamità».
La giurisprudenza ha inquadrato il drammatico fenomeno dei cambiamenti climatici e ambientali nell’alveo della nozione di vulnerabilità, valutando caso per caso la situazione individuale del richiedente asilo.
Diventa determinante, dunque, la verifica della specifica zona di provenienza e le sue condizioni all’attualità, la condizione personale del richiedente (il profilo di scolarizzazione, il tipo di scuola frequentato), la distanza dell’abitazione dall’area naturale a rischio (mare, fiume, discarica), l’analisi delle alluvioni subite e delle volte in cui si sono verificate, l’analisi dei conseguenti spostamenti, dei danni (fisici e materiali), la valutazione sulla contrazione di un debito per riparare tali danni, la valutazione dell’utilizzo del denaro.
Fondamentali, nel contesto di studio del singolo caso, le linee guida di Unhcr del 2020[36], «Considerazioni legali sulle richieste di protezione internazionale presentate nel contesto degli effetti negativi dei cambiamenti climatici e dei disastri», effetti negativi che hanno conseguenze diversificate per gli Stati e le società; tra queste vi sono malattie, insicurezza alimentare e carestia, una maggiore scarsità di terra e di acqua potabile; l’esposizione allo sfruttamento e alla tratta; perdite umane, materiali, economiche o ambientali, tra cui la perdita di redditi, case, mezzi di sostentamento e persino vite umane. Tutto ciò incide gravemente sul godimento dei diritti umani a causa della esposizione e della vulnerabilità delle persone agli effetti dei cambiamenti climatici, grave incidenza sul diritto alla vita, all’integrità fisica, a un adeguato tenore di vita, alla salute, all’acqua e ai servizi igienici, all’autodeterminazione e allo sviluppo socio-economico.
Il Tribunale di Milano[37] ha, pertanto, accolto il ricorso avverso il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, tenuto conto della specifica zona di provenienza del ricorrente, in Bangladesh, dei motivi dell’espatrio (i.e. le cicliche esondazioni del fiume che avevano spazzato via la casa familiare, costringendo il ricorrente e i suoi familiari al ricollocamento interno, alla contrazione di debiti per mantenere la famiglia, fino all’espatrio); in tale contesto di estrema povertà (tale da impedire al ricorrente la conduzione di un’esistenza dignitosa), il Tribunale ha ricondotto la condizione di soggetto vulnerabile, valutando le fonti aggiornate sulle condizioni climatiche della zona di provenienza che davano contezza della persistenza di alluvioni che ciclicamente devastano gli insediamenti lungo le rive del fiume, le colture agricole, le abitazioni, le infrastrutture. L’esposizione a tali devastanti fenomeni climatici estremi si è rivelata addirittura più grave considerando i cambiamenti del clima in chiave prospettica (dovendo il giudice dell’immigrazione sempre ragionare in termini di prognosi collegata al rimpatrio): invero, il rapporto dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) «The Regional Impacts of Climate Change: An Assessment of Vulnerability»[38] riportava drastici cambiamenti nello schema delle alluvioni a causa del riscaldamento globale, e il Bangladesh subirà il 5-6% di aumento di precipitazioni entro il 2030[39].
4. Questioni aperte: l’art. 19.1.1 Tui e le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani
Ai fini che rilevano per la disamina oggetto del presente articolo, giova evidenziare che l’art. 19 Tui è stato oggetto della novella legislativa introdotta con dl n. 130/2020, convertito in l. n. 173/2020: mentre il comma 1 dell’art. 19 Tui è rimasto immutato, il comma 1.1 è stato, invece, interamente riformulato con una sovrapposizione di ipotesi di divieto assoluto di respingimento e di divieto cd. “relativo”, in cui è possibile un bilanciamento. Pertanto:
– al divieto di respingimento, di espulsione e di estradizione verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere la sussistenza del rischio di tortura, è stata esplicitamente aggiunta l’ipotesi del rischio di sottoposizione a «trattamenti inumani o degradanti»[40];
– nello stesso periodo, con la congiunzione «o», è stata aggiunta l’ipotesi della ricorrenza degli «obblighi di cui all’articolo 5, comma 6» dello stesso Tui;
– è rimasto immutato che «nella valutazione di tali motivi» si tenga «conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani»;
– è stato, di seguito, aggiunto il divieto di respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare;
– è stato, quindi, previsto che il divieto di «allontanamento», nella indicata ipotesi di «violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare» non operi quando esso «sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea»; in altri termini, il divieto di respingimento e di espulsione per violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare deve essere «bilanciato» con determinate esigenze dello Stato (tutela della sicurezza nazionale, dell’ordine, etc., fermo il rispetto delle fonti internazionali testé citate).
Parrebbe, dunque, che le ipotesi di non respingimento previste dalla prima parte dell’art. 19.1.1 Tui abbiano carattere assoluto, e, dunque, non parrebbe operare il bilanciamento previsto dalla seconda parte della norma (il condizionale è d’obbligo, trattandosi di questione dibattuta in dottrina, che ritiene che una lettura sistematica e coerente con le ipotesi del secondo comma, assoggettate al predetto bilanciamento con le esigenze dello Stato, imporrebbe invero che il divieto di respingimento assoluto fosse riferito solamente alle ipotesi di persecuzione o di danno grave ex art. 3 Cedu, unico caso in cui sarebbe totalmente escluso il bilanciamento)[41].
Va, inoltre, rilevato che il dl n. 130/2020 all’art. 5, comma 6, ha parzialmente ripristinato la clausola di salvaguardia richiamando gli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato (ma non il precedente riferimento ai seri motivi di carattere umanitario).
Si evidenzia, da ultimo, che è solo nella seconda parte dell’art. 19.1.1 che occorre operare la valutazione comparativa, non dovendosi effettuare invece, nella prima parte, alcuna verifica sulla sussistenza di una vita privata e familiare (prevista, appunto, nella seconda parte), bastando dunque, ai fini della applicazione del divieto assoluto di respingimento, l’esistenza di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani nel Paese di origine del richiedente.
L’attenzione della giurisprudenza di merito si è recentemente concentrata sulle seguenti, duplici questioni connesse alla portata applicativa della tutela da accordare nel caso in cui, nel Paese di origine, si riscontrino ipotesi di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani:
a. si tratta di una ipotesi autonoma, ex se sufficiente per il riconoscimento della protezione speciale, o, invece, da esaminarsi congiuntamente con gli altri criteri normativi della medesima norma, i.e. previsti dalla seconda parte dell’art. 19.1.1 Tui?
b. è norma di chiusura? O va esaminata prima della valutazione disposta dalla seconda parte della norma (vita privata e familiare)?
5. Le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di merito
Allo stato attuale, la giurisprudenza di merito valuta, nella maggioranza dei casi, esclusivamente la sussistenza di una vita privata e/o familiare in Italia ai fini del riconoscimento della protezione speciale, trattandosi per lo più di richiedenti asilo presenti sul territorio nazionale da numerosissimi anni. Alcuni tribunali, tuttavia, hanno offerto interessanti soluzioni interpretative.
a) Quanto al primo dei quesiti, alcuni tribunali di merito hanno optato per una valutazione di tale fattispecie congiuntamente a quella di cui alla seconda parte dell’art. 19.1.1 Tui, ai fini del riconoscimento della protezione speciale.
Così, il Tribunale di Genova ha ritenuto sussistente tale violazione in ipotesi nelle quali sia integrata una “sospensione dello Stato di diritto”, fattispecie che si verifica tipicamente in casi di colpi di Stato, con situazioni di instabilità che si protraggono nel tempo, oppure nelle ipotesi di violenze post-elettorali con gravi limitazioni dei diritti ed elezioni giudicate “poco credibili” dagli osservatori internazionali (come in Costa d’Avorio).
O, ancora, nel caso di un richiedente proveniente dalla Guinea Conakry, il Collegio genovese ha tenuto conto della situazione politica post-elettorale, e del golpe occorso, nella valutazione dell’art. 19.1.1 Tui (primi due periodi) e, dunque, del rischio di trattamenti degradanti in caso di rimpatrio (e a prescindere dall’astratta configurabilità dei presupposti per la protezione sussidiaria), nel contesto di tale Paese in cui si verificano violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani. Sono state analizzate le tensioni pre-elettorali nel 2019, le elezioni del 18 ottobre 2020 e i disordini post-elettorali, il colpo di Stato e le conseguenze (il quadro conclusivo era costituito dall’incertezza sui tempi relativamente a un ritorno alla democrazia nel Paese, anche in considerazione dei conflitti e delle tensioni nei paesi confinanti, e da una parziale sospensione dello Stato di diritto e una grave situazione di violenza che pregiudica o mette comunque a rischio diritti di libertà e democrazia inviolabili a norma degli artt. 2, 3, 10, 13 Cost., derivandone per il ricorrente, in caso di rientro, la presenza di una minaccia grave e individuale di subire trattamenti inumani e degradanti per la violazione dei predetti[42]. Il Tribunale ha, poi, valutato la situazione del richiedente anche in relazione al profilo della integrazione socio-lavorativa, giungendo a riconoscere la protezione speciale. Lo stesso ragionamento è stato seguito per i richiedenti del Mali[43] e della Costa d’Avorio[44].
Il Tribunale di Bologna[45], nel caso di un richiedente asilo proveniente da Bignona, città della regione di Ziguinchor, a sua volta parte della Casamance, ha evidenziato, alla luce di fonti recentissime, che in tale zona sussisteva una delicata situazione in evoluzione, soprattutto negli ultimi mesi; le medesime fonti comprovavano l’esistenza di violazioni gravi e frequenti di diritti umani fondamentali. La presenza di scontri tra combattenti aveva spinto circa 6350 persone a fuggire in Gambia e, in seguito al riacuirsi degli scontri al confine, centinaia di sfollati sia senegalesi che gambiani erano stati aiutati dalla popolazione e dal Governo del Gambia. Delineata nel dettaglio la situazione di tensione tra i ribelli e l’esercito nazionale, le fonti evidenziavano inoltre gli ampi movimenti della popolazione su entrambi i lati del confine, e che tale clima di insicurezza aveva portato alla chiusura di molte scuole. Invero, lo sfollamento su larga scala della popolazione della Casamance dà atto del venir meno della tutela dei diritti fondamentali di base, quale l’alloggio, l’istruzione per i bambini, l’accesso alle cure mediche territoriali, la stessa unità familiare, spesso spezzata dai gravosi spostamenti. Il Tribunale ha dunque ritenuto che, al momento della decisione, nella zona della Casamance sussistessero gravi motivi, fondati sull’esistenza di sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani, per ritenere che, se il ricorrente vi fosse ritornato, avrebbe rischiato di subire trattamenti inumani e degradanti. Di conseguenza, ha ritenuto sussistenti i presupposti ex art. 19, comma 1.1, Tui per il riconoscimento al ricorrente del diritto a un permesso per protezione speciale[46].
Il Tribunale di Milano[47] invece, in una decisione del 21 dicembre 2022, ha optato per la sufficienza di una situazione in cui venga perpetrata una violazione grave e sistematica dei diritti umani fondamentali: dopo aver escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi della seconda parte dell’art. 19.1.1 Tui (in assenza di una vita privata e/o familiare), ha analizzato la situazione in Egitto sotto il profilo della prima parte della citata norma, giungendo a concludere che vi fossero fondati motivi per ritenere che, in caso di rientro, il ricorrente avrebbe rischiato di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti in considerazione dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani.
In forza di fonti di informazione aggiornate e approfondite, il Tribunale ha premesso che l’accertamento dell’esistenza di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani nel Paese di origine del richiedente soggiace a un dovere di cooperazione giudiziale: la valutazione delle condizioni sociopolitiche del Paese d’origine deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone, pertinenti al caso e aggiornate al momento dell’adozione della decisione. In altri termini, si è trattato di effettuare una rigorosa indagine in ordine alla gravità e sistematicità di tali violazioni – indagine che costituisce, per il giudice di merito, un obbligo procedurale al pari di quello volto all’accertamento delle situazioni di conflitto interno o internazionale idonee al riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c, d.lgs n. 251/2007.
Il Tribunale ha, inoltre, chiarito quali siano i diritti umani fondamentali da valutare per verificare che nei loro confronti lo Stato stia attuando violazioni sistematiche e gravi. A titolo esemplificativo, ha annoverato tra i diritti fondamentali da cui può ritenersi scaturire un obbligo di tutela, per lo Stato: il diritto alla vita (art. 27, ultimo comma, Cost.; art. 1 Cedu; art. 6 Patto internazionale sui diritti civili e politici; Corte cost., nn. 54/1979 e 35/1997); il diritto alla non discriminazione (art. 3 Cost.; art. 26 Patto internazionale sui diritti civili e politici); il diritto all’identità personale (Corte cost., n. 332/2000); il diritto al nome (Corte cost., n. 13/1994); il diritto alla salute (art. 32 Cost.; Corte cost., nn. 319/1999 e 252/2001); il diritto all’identità e alla libertà sessuale (Corte cost., nn. 161/1985 e 561/1987); il diritto all’identità di coscienza (Corte cost., nn. 467/1991 e 334/1996); il diritto alla libertà di contrarre matrimonio (Corte cost., nn. 27/1969, 345/2011, 245/2011; art. 23 Patto internazionale sui diritti civili e politici); il diritto all’abitazione (Corte cost., n. 404/1988); il diritto alla libertà e alla sicurezza personali (Corte cost., nn. 215/1973, 105/2001, 222/2004; art. 13 Cost.; art. 5 Cedu; art. 10 Patto internazionale sui diritti civili e politici), il diritto a non subire trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu; art. 7 Patto internazionale sui diritti civili e politici); il diritto a non essere ridotto in schiavitù (art. 4 Cedu; art. 8 Patto internazionale sui diritti civili e politici); il diritto a non subire torture (Convenzione di New York del 10 dicembre 1984 contro la tortura, ratificata con l. n. 498/1988); il diritto all’unità familiare e alla vita privata (artt. 29, 30, 31 Cost.; art. 8 Cedu; art. 17 Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966; art. 13 Convenzione Oil n. 143/1975, ratificata con l. n. 158/1981; Corte cost., nn. 28/1995, 203/1997, 376/2000, 202/2013); il diritto del minore alla protezione (art. 31 Cost.; Corte cost., n. 198/2003; Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989; art. 24 Patto internazionale sui diritti civili e politici); il diritto all’istruzione obbligatoria (art. 34 Cost.); il diritto di difesa, sia attiva che passiva (artt. 24, 25, 26 e 113 Cost.; Corte cost., nn. 120/1967, 109/1974, 492/1991, 198/2000, 227/2000, 257/2004, 254/2007, 276/2008; art. 14 Patto internazionale sui diritti civili e politici; art. 13 Cedu); il diritto alla libertà e segretezza di corrispondenza e comunicazione (art. 15 Cost.; Corte cost., n. 366/1991); il diritto alla libertà di pensiero (art. 21 Cost.; Corte cost., n. 168/1971; art. 18 Patto internazionale sui diritti civili e politici); i diritti previsti dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (adottato dall’Assemblea generale il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 3 gennaio 1976 e ratificato dall’Italia con l. n. 881/1977).
Tanto premesso, ha evidenziato che le fonti consultate dal Tribunale in merito all’attuale situazione dell’Egitto mettevano in luce molteplici criticità sul rispetto dei diritti fondamentali nel Paese.
Ha dunque concluso che, data l’esistenza di sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani in Egitto, vi fossero fondati motivi di ritenere che in caso di rimpatrio il ricorrente avrebbe rischiato di subire trattamenti inumani e degradanti, ai sensi dell’art. 19, comma 1.1, prima parte, Tui. Ha, quindi, riconosciuto al ricorrente il diritto al rilascio del permesso di soggiorno di durata biennale per «protezione speciale», previsto dall’art. 32, terzo comma, d.lgs n. 25/2018.
In dottrina non sono mancate voci contrarie all’autonomia: ciò in quanto la norma indica la locuzione «anche», dunque la presenza di violazioni gravi e sistematiche andrebbe valutata insieme alle altre condizioni poste, in via concorrente, per il riconoscimento della protezione speciale.
Tuttavia, a parere di chi scrive, l’opzione interpretativa adottata dal Tribunale di Milano pare maggiormente in linea con il dettato letterale della norma, che, dopo aver indicato – nella prima parte – il divieto di respingimento nei casi ivi previsti (tra i quali le violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani), vieta il respingimento e l’espulsione, che non sono «altresì» ammessi nei casi indicati dalla seconda parte della norma. Optare per il cumulo delle due parti della norma equivarrebbe a privare di contenuto la portata applicativa di quest’ultima; poiché la giurisprudenza di merito, nella maggioranza dei casi, riconosce la protezione speciale a fronte della sola sussistenza di una vita privata o familiare (dunque nei casi di cui alla seconda parte della norma), allo stesso modo deve riconoscere la protezione speciale nei casi di cui alla prima parte della norma, i.e. nelle ipotesi di violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani.
Non constano, al momento, pronunce di analogo tenore. Si ritiene, in ogni caso, che la crescente situazione di instabilità politica, spesso foriera di dilaganti forme di repressione della popolazione civile e dei suoi diritti per l’affermazione di forme di governo dittatoriali in un numero crescente di Paesi (si pensi agli scontri avvenuti in Senegal all’inizio di giugno 2023 a seguito della condanna del leader dell’opposizione Ousmane Sonko - risultando in tal modo a rischio la sua candidatura - da parte di un tribunale di Dakar)[48], deve portare a innalzare la soglia di attenzione e di tutela dei diritti umani che, in queste situazioni, sono fortemente a rischio di essere violati gravemente e sistematicamente, nell’indifferenza generale.
b) Quanto alla seconda questione, se si tratti di una norma di chiusura o se, invece, nella valutazione delle singole fattispecie il giudice debba seguire la struttura della norma, la giurisprudenza di merito non pare aver assunto una posizione univoca: le citate pronunce dimostrano che, talora, si opta per un’applicazione della norma valutando solo da ultimo e in chiusura l’esistenza di violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani nel Paese di origine (come ha fatto il Tribunale di Milano nella pronuncia poc’anzi citata); talaltra, si segue la struttura normativa, e l’ordine delle ipotesi ivi previsto.
* Testo dell’intervento svolto al seminario organizzato da Questione giustizia sulle novità introdotte dal dl n. 130/2020 nell’ambito della protezione complementare – Corte di Cassazione, Aula Giallombardo, 22 febbraio 2023, moderatore: Carlo De Chiara (www.youtube.com/watch?v=VbhkmZCN8P8&list=PLXfm-acsZZ9AadTqz5LT6gm5CFNZgtGZU).
1. Aa.Vv., Casebook in materia di protezione internazionale, volume realizzato su iniziativa della Ssm e dell’Università di Trento nell’ambito del Progetto europeo di formazione giudiziaria “FRICoRe” («Fundamental Rights In Courts and Regulation»), ottobre 2021, p. 224 (www.fricore.eu/sites/default/files/content/materials/casebook_protezione_internazionale_revisione_finale_ssm_def_r_0.pdf).
2. Per una disamina più approfondita, vds. M. Acierno, La nuova protezione complementare, in Aa.Vv., Il diritto dell’immigrazione, Quaderno n. 22, Scuola superiore della magistratura, Roma, 2022.
3. Cass., sez. I, ord. 23 febbraio 2023, n. 8400 (dep. 23 marzo 2023, non massimata).
4. Che non rientri nelle previsioni dell’art. 14, lett. b e c, d.lgs n. 251/2007.
5. Ex multis: sez. lav., ord. n. 40900/2021 (dep. 20 dicembre 2021), che richiama Cass., 15 maggio 2019, n. 13096; 2 luglio 2020, n. 13565; 22 settembre 2021, n. 25734; sez. III, ord. n. 40356/2021 (ud. 16 settembre 2021, dep. 16 dicembre 2021); sez. III, ord. n.41323/2021 (dep. 23 dicembre 2021).
6. Sez. unite, n. 24413/2021, Rv. 662246-01.
7. Di preminente rilievo il seguente ragionamento della Suprema corte:
«Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria in base alla normativa del testo unico sull’immigrazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. 113/2018, occorre operare una valutazione comparativa tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia, attribuendo alla condizione del richiedente nel paese di provenienza un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nella società italiana; qualora poi si accertino il raggiungimento di un apprezzabile livello di integrazione in Italia e il fatto che il ritorno nel paese d’origine renda probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare tale da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5, comma 6, d. lgs. 286/1998, per riconoscere il permesso di soggiorno (Cass., Sez. U., 24413/2021)».
8. Cass., sez. I, n. 677/2022, Rv. 663488-01.
9. Così Cass., sez. I, n. 676/2022; sez. unite, n. 24413/2021.
10. Cass., sez. VI-1, ord. 8 giugno 2022, n. 18455, Rv. 665332-01; cfr. Cass., sez. I, ord. 6 febbraio 2023, n. 9110 (dep. 31 marzo 2023); sez. I, ord. 7 marzo 2023, n. 9080 (dep. 31 marzo 2023).
11. Considerando 14, artt., 2 (k), 11, 17 (2), 18 (3) e (5), 19 (2), 21-25. Si vedano anche i considerando 29 e 30, l’art. 2 (d), 15.3 (a), 24, 25; regolamento Dublino III, considerando 13, artt. 6,8, 31 e 32; considerando 29 e 30, artt. 2 (d), 15 (3) (a), 24, 25 direttiva 2013/32/EU (rifusione); considerando 19 e 28 (sui minori) della direttiva 2011/95/UE del Parlamento e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 (direttiva qualifiche).
12. Secondo il DSM V si ha evento traumatico quando «L’individuo ha vissuto, ha assistito, o si è confrontato con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri (es: violenza sessuale). L’esperienza, quindi, può essere stata diretta (es: evento vissuto in prima persona) o indiretta (es: evento traumatico accaduto a un familiare)».
13. Ad esempio, Cass., ord. 4 febbraio 2020, n. 2558.
14. Cfr. Cass., 4 aprile 2011, n. 7615. Rimangono escluse dalla positiva valutazione circa la sussistenza di condizioni di inespellibilità «quei trattamenti di mantenimento o di controllo che, se pur indispensabili ad assicurare una spes vitae per il paziente, fuoriescono dalla correlazione strumentale con l’efficacia immediata, dell’intervento sanitario indifferibile ed urgente».
15. La Corte Edu ha incluso l’allontanamento dello straniero gravemente malato tra i casi che possono rientrare nel divieto di refoulment desunto dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In particolare, a partire dal caso D. c. Regno Unito, la Corte ha fissato il principio in forza del quale non può essere allontanato lo straniero che, per le condizioni di salute in cui versa, rischierebbe di essere esposto a un trattamento disumano e degradante in caso di trasferimento, e ciò in violazione dell’art. 3 Cedu.
Il presupposto principale del divieto è, in primo luogo, il livello di gravità della malattia.
La Corte, inoltre, ha chiaramente indicato i criteri in forza dei quali verificare se il trasferimento dello straniero lo esporrebbe a un rischio di grave danno: a) lo stadio di sviluppo della malattia; b) la disponibilità o accessibilità di cure mediche nello Stato di destinazione; c) la disponibilità, in tale Stato, di assistenza familiare e sociale.
L’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo ha chiarito la portata della gravità delle condizioni di salute, giungendo a definirne i confini: perché venga in considerazione il divieto di allontanamento di cui all’art. 3 Cedu sono necessarie due condizioni: 1) che il trattamento sanitario necessario e appropriato manchi nel Paese di origine o, pur essendo disponibile, non sia accessibile; 2) che, a causa di ciò, vi sia il rischio di un peggioramento grave, rapido e irreversibile delle condizioni di salute, causa di intensa sofferenza o di una significativa riduzione dell’aspettativa di vita.
La Corte europea aggiunge, inoltre, che, in caso di dubbio riguardo al reale rischio di trattamento disumano o degradante derivante dal trasferimento, lo Stato ospitante deve ottenere «individual and sufficient assurances from the receiving State, as a precondition for removal, that appropriate treatment will be available and accessible to the persons concerned so that they do not find themselves in a situation contrary to Article 3» (par. 193).
È dunque evidente che l’ambito della valutazione giudiziale debba passare attraverso la valutazione delle rassicurazioni «individuali» (cioè tarate sul caso concreto) e «sufficienti» circa la disponibilità e accessibilità del trattamento adeguato nel Paese di origine.
16. Si tratta di un diritto di carattere assoluto e rispondente altresì a un interesse di natura collettiva, tale da risultare spettante a qualunque individuo e, pertanto, anche allo straniero. In questo senso si è espressa la Corte costituzionale, nello specifico con la sentenza n. 252 del 2001.
17. https://drmkc.jrc.ec.europa.eu/inform-index/INFORM-Covid-19.
Lo studio e l’analisi di questo strumento sono stati affrontati, per la prima volta in Italia, nell’anno 2020 da Anna Arena Chartroux, Research Officer dell’EASO («European Asylum Support Office»), e gli esiti sono confluiti in numerose pronunce del Tribunale di Milano e di diversi tribunali nazionali.
18. Trib. Milano, decreto 28 ottobre 2020.
19. Trib. Milano, decreto 23 dicembre 2020.
20. C.M. Aguocha e S. George, An overview of gambling in Nigeria, anticipato sulla piattaforma Cambridge Core (Cambridge University Press), 18 giugno 2020, ora anche in BJPsych International, n. 2/2021, pp. 30-32 (www.cambridge.org/core/journals/bjpsych-international/article/an-overview-of-gambling-in-nigeria/2DB2FC9B97F70A1A1C86F69C716D3C87).
21. «Risk factors for mental health problems may be experienced during all phases of the migratory process and in settling in the host country» (www.euvetcare.eu/content/mental-disorders-young-refugees-and-asylum-seekers-european-countries). Vds., più ampiamente, C. Kien et al., Prevalence of mental disorders in young refugees and asylum seekers in European Countries: a systematic review, in European Child & Adolescent Psychiatry, vol. 28, n. 10/2019, pp. 1295-1310 (prima pubbl.: 27 agosto 2018; https://link.springer.com/article/10.1007/s00787-018-1215-z).
22. Trib. Milano, decreto 31 marzo 2021.
23. Trib. Milano, decreto 10 novembre 2021.
24. EASO, Nigeria Trafficking in Human Beings – Country of Origin Information Report, aprile 2021 (https://euaa.europa.eu/news-events/easo-publishes-coi-report-nigeria-trafficking-human-beings).
25. Trib. Milano, decreto 10 novembre 2021.
26. Cass., sez. I, ord. 25 gennaio 2023, n. 6658 (dep. 6 marzo 2023; rel. Pazzi, pres. Cristiano; non massimata).
27. Cass., sez. I, ord. 24 febbraio 2023 (dep. 24 marzo 2023).
28. Si tratta dell’istituto della “protezione sociale”, volto a consentire alle persone straniere vittime di situazioni di grave sfruttamento riconducibili a determinate fattispecie di reato (art.600 e 601 cp) di ottenere uno speciale permesso di soggiorno e di accedere a specifici programmi di protezione e assistenza. Il permesso di soggiorno previsto dall’art. 18 d.lgs n. 286/98 può essere rilasciato non soltanto in seguito alla denuncia della vittima, ma anche in quei casi in cui quest’ultima non possa o non voglia rivolgersi all’autorità giudiziaria. Si parla di “doppio binario” poiché, in forza di quanto previsto dall’art. 18 d.lgs n. 286/98, in combinato disposto con l’art. 27 regolamento di attuazione del Testo unico immigrazione, il permesso di soggiorno può essere rilasciato tanto nel caso in cui sia stato avviato un procedimento penale relativamente ai fatti di violenza o grave sfruttamento, in seguito alla denuncia della vittima (cd. “percorso giudiziario”), quanto nel caso in cui la persona non denunci ma aderisca a un programma di assistenza e integrazione sociale, affidandosi a un ente specificamente preposto all’assistenza delle vittime di grave sfruttamento, che può essere un ente locale o un’associazione od organismo privato, purché iscritto alla seconda sezione del registro delle associazioni, enti che svolgono attività a favore degli immigrati (cd. “percorso sociale”).
29. Per un’approfondita disamina del tema, vds. M. Flamini ed E. Masetti Zannini, La protezione dei cittadini stranieri vittime di sfruttamento lavorativo, in L’altro diritto, n. 6/2022, pp. 114-159 (www.pacinieditore.it/wp-content/uploads/2023/05/4.-Flamini-e-Masetti-Zannini_2.pdf).
30. Tribunale di Milano, decreto decisorio collegiale del 12 maggio 2021 (vds. anche il decreto decisorio, in altro caso, del 2 maggio 2022). In sede di audizione giudiziale, il ricorrente aveva puntualmente e specificamente raccontato della situazione di grave sfruttamento che era costretto a subire: di trovarsi a fronteggiare delle difficilissime e disumane condizioni di vita causate dal contesto abitativo, ovvero un ghetto nella provincia di Foggia; di lavorare “in nero”, in assenza dunque di un regolare contratto di lavoro, raccogliendo frutta e verdura di stagione; di lavorare circa 10 ore al giorno e di essere pagato 25 euro alla giornata di cui 5 euro a tratta vengono dati all’autista che porta i lavoratori nei campi a lavorare; di lavorare tutti i giorni tranne quando piove; che il ghetto è fuori dalla città, la sua “casa” è sostanzialmente una tenda fatta di plastica senza luce né gas e in una stanza dormono 5 persone; che in questa tenda non c’è il bagno e per fare la doccia deve recarsi a casa di cittadini nigeriani che mettono a disposizione il loro bagno a pagamento; che l’affitto è di 50 euro mensili a persona; che tolte le spese, lo stipendio è di circa 300 euro al mese; che se è vero che lavora, è altrettanto vero che non riesca a vivere bene.
31. Il Tribunale ha evidenziato che tale strumento è poco utilizzato perché restano scarse le denunce delle vittime di sfruttamento, raramente consapevoli delle condizioni in cui si trovano, dei loro diritti e, soprattutto, timorose delle conseguenze della denuncia, atteso che si ritroverebbero prive di lavoro e senza alcuna garanzia di reperirne un altro in breve tempo.
32. Tale permesso di soggiorno è convertibile. Il Tar Veneto, con sentenza del 23 novembre 2022, n. 1812, dando una lettura costituzionalmente orientata della norma, ha chiarito che la possibilità di conversione va garantita sia a coloro che hanno ottenuto il permesso a seguito di una domanda di protezione internazionale (o a seguito di una decisione del tribunale ordinario), sia a coloro che lo hanno ottenuto dopo aver presentato richiesta direttamente al questore. Tale permesso di soggiorno, pur potendo conseguire a due diversi procedimenti, è unico in quanto, in entrambi i casi, viene rilasciato in base ai presupposti contenuti nell’art. 19 Tui e deve, dunque, essere sottoposto alla medesima disciplina.
33. Trib. Firenze, ord. 24 maggio 2023.
34. Cass., ord. 24 febbraio 2021, n. 5022.
35. Nella specie, la Suprema corte ha cassato il decreto impugnato poiché, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, non aveva considerato la circostanza che il richiedente aveva lasciato il proprio Paese dopo la distruzione della sua abitazione a causa di un’alluvione.
36. Unhcr, Legal considerations regarding claims for international protection made in the context of the adverse effects of climate change and disasters, 1° ottobre 2020 (www.refworld.org/docid/5f75f2734.html).
37. Trib. Milano, ord. 17 marzo 2023 (RG 9175/2020).
38. A cura di R.T. Watson, M.C. Zinyowera, R.H. Moss, Cambridge University Press, Cambridge, 1998 (www.ipcc.ch/report/the-regional-impacts-of-climate-change-an-assessment-of-vulnerability/; www.ipcc.ch/site/assets/uploads/2020/11/The-Regional-Impact.pdf).
39. M. Najmul Islam, Flood Risks for the Char Community on the Ganges-Padma Floodplain in Bangladesh, gennaio 2012 (www.researchgate.net/publication/326422857_Flood_Risks_for_the_Char_Community_on_the_Ganges-Padma_Floodplain_in_Bangladesh).
40. La certezza interpretativa dell’art. 19 Tui, commi 1. e 1.1, in merito all’estensione del divieto assoluto di respingimento, oltre le ipotesi di sola persecuzione, a tutte le ipotesi di rischio di violazione dell’art. 3 Cedu prima della riformulazione della norma nel 2020, è stata già esposta (vds. supra, par. 3).
41. Per un maggior approfondimento, vds. Il principio di non respingimento, in Aa.Vv., Casebook (Progetto “FRICoRe”), op. cit., cap. 1.
42. Trib. Genova, decreto 11 novembre 2022.
43. Trib. Genova, decreto 26 settembre 2021.
44. Trib. Genova, decreto 7 settembre 2021.
45. Trib. Bologna, decreto 23 giugno 2022.
46. Nel caso in esame, il Tribunale di Bologna ha riconosciuto la protezione speciale anche in considerazione della seconda parte dell’art. 19.1.1 Tui e, dunque, della profonda integrazione socio-lavorativa del ricorrente, che era riuscito nel tempo a radicare sul territorio nazionale una vita privata.
47. Trib. Milano, decreto 21 dicembre 2022.
48. www.ecoi.net/en/document-search/?content=Sonko&country%5B%5D=sen; Amnesty International Italia, Senegal, necessaria un’inchiesta indipendente sulle uccisioni dei manifestanti, 9 giugno 2023 (www.amnesty.it/senegal-necessaria-uninchiesta-indipendente-sulle-uccisioni-dei-manifestanti/).