Magistratura democratica

«Non ho paura. Ma ormai vivo qui». La protezione speciale e il diritto alla vita privata e familiare nell’applicazione della giurisprudenza (con qualche spunto di riflessione sul dl n. 20/2023)

di Ottavio Colamartino

Dall’analisi di oltre due anni di giurisprudenza – soprattutto di merito – sulla protezione speciale, come integrata dal “decreto Lamorgese”, emerge una notevole (e inaspettata) uniformità di indirizzo, tendente ad ampliare il novero delle situazioni tutelate. Tale tendenza si pone in continuità con la parallela giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di protezione umanitaria, che va affermandosi nello stesso biennio.

L’abrogazione (dl n. 20/2023) della seconda parte del comma 1.1 dell’art. 19 Tui non sembra poter limitare la tutela del diritto alla vita privata e familiare, già affermatasi nella “vigenza” della protezione umanitaria.

1. La protezione complementare. Un breve excursus / 2. La normativa e la giurisprudenza europea: nozione di «vita privata» come garanzia di uno spazio per il pieno sviluppo della persona. Copertura costituzionale del diritto alla vita privata e familiare / 3. Il rispetto della vita privata e familiare nell’applicazione dell’art. 19 / 3.1. Un elenco non tassativo / 3.2. Un “paniere” di elementi / 3.3. Non necessità della comparazione con le condizioni del Paese di origine / 4. L’effettivo inserimento sociale / 4.1. L’attività lavorativa / 4.2. Gli elementi valorizzati in assenza (o quasi) di attività lavorativa “regolare” / 4.3. Un limite oggettivo all’integrazione lavorativa: l’istanza al questore di protezione speciale / 4.4. Un’abitazione autonoma? / 5. Elementi valorizzati in quasi (o totale) assenza di integrazione / 6. La (breve) durata della permanenza in Italia / 7. I legami familiari / 8. Il limite delle ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica e di protezione della salute / 9. Il dl n. 20/2023 e le modifiche al comma 1.1. Qualche prima riflessione

 

1. La protezione complementare. Un breve excursus

Il dl n. 130/2020 («Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, (…)»), convertito dalla l. n. 173/2020, è intervenuto in modo significativo sul contenuto della cd. protezione complementare degli stranieri, che va ad affiancare le due forme di protezione “maggiore” espressamente previste dal diritto internazionale e unionale: lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria[1].

Scopo dichiarato del decreto, sotto questo profilo, è «rispondere all’esigenza di dar seguito alle osservazioni formulate dalla Presidenza della Repubblica in sede di emanazione del decreto legge n. 113/2018 e di promulgazione della legge n. 77/2019», ovvero il «rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali» dello Stato italiano[2].

D’altronde, l’evoluzione della protezione complementare rispecchia il mutare delle scelte politiche del legislatore, ma anche il suo rapporto con principi costituzionali e di diritto europeo, che si pongono al di sopra di tali scelte[3].

Lo osserviamo chiaramente ripercorrendo qui, schematicamente, una storia nota: una sintesi che appare necessaria per comprendere sia i contenuti della protezione speciale dopo il dl n. 130/2020, sia quelli residui alla luce del recente dl n. 20/2023[4]

Dopo che le sezioni unite della Corte di cassazione nel 2009 avevano definito la protezione umanitaria prevista dall’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998 come «situazione giuridica» che «ha natura di diritto soggettivo, che va annoverato tra i diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo»[5], a partire dal 2012 la Corte annovera la protezione umanitaria tra le misure necessarie per la piena attuazione del diritto di asilo costituzionale, a complemento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria (sez. 6-1, ord. n. 10686/12). Nel 2013/2014 l’insieme delle situazioni tutelabili mediante questa forma di protezione è definito un «catalogo aperto» (sez. 6-1, sent. n. 26566/13), che ha il fine di tutelare situazioni di vulnerabilità, e se ne ribadisce il carattere di «misura atipica e residuale idonea ad integrare l’ampiezza del diritto di asilo costituzionale» (sez. 6-1, ord. n. 15466/14). Va ricordato a questo proposito che, a fronte della denominazione sintetica «protezione umanitaria», il permesso di soggiorno per motivi umanitari doveva essere rilasciato tutte le volte in cui vi fossero «seri motivi» in una delle tre ipotesi previste, ovvero: il «carattere umanitario»; la loro previsione derivante da «obblighi costituzionali»; quella derivante da «obblighi internazionali».

Nel 2018, con la fondamentale sentenza n. 4455/2018, si attribuisce per la prima volta rilevanza al percorso di integrazione in Italia del richiedente asilo, introducendo il principio della valutazione comparativa con la situazione oggettiva e soggettiva in cui egli si troverebbe nel Paese di origine.

Ma nello stesso anno, con il dl n. 113/2018 (conv. dalla l. n. 132/2018) sembra crearsi un vuoto nella tutela del diritto di asilo: con l’abolizione della seconda parte del comma 6 dell’art. 5, non vengono meno gli obblighi costituzionali e internazionali dell’Italia quale limite alla discrezionalità dello Stato all’espulsione dello straniero; tuttavia, l’ordinamento viene privato della veste giuridica positiva che ne consenta la permanenza nel territorio nazionale[6]. Né la previsione di alcune ipotesi specifiche di «protezione speciale» (nuova denominazione della protezione complementare introdotta dal dl n. 113/18), in realtà in gran parte già previste dalla normativa precedente[7], può supplire a tale vuoto: sia perché rimangono sprovviste di tutela innumerevoli fattispecie di vulnerabilità in precedenza protette attraverso il permesso di soggiorno per motivi umanitari; sia perché si tratta di permessi di poca utilità per chi aspiri a una tutela effettiva della propria fragilità (la durata è limitata e non sono convertibili in permesso per motivi di lavoro); sia, soprattutto, perché – come chiariranno le sezioni unite nel 2019[8] – «l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione»; e quindi gli interessi protetti dalla protezione complementare «non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali; sicché, ha puntualizzato questa Corte, l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni».

Nel frattempo la Corte di cassazione, sempre verificando i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria – in virtù della affermata non retroattività delle modifiche all’art. 5, comma 6 –, amplia il novero delle situazioni tutelate[9]

Il dl n. 130/2020, come detto, reintroduce nell’art. 5 del testo unico il richiamo al necessario rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali, contenuto nel primo periodo dell’art 19, comma 1.1; nella seconda parte (terzo e quarto periodo) dello stesso comma, si specifica il necessario rispetto del diritto alla vita privata e familiare quale ostacolo all’espulsione, con un evidente e testuale richiamo all’art. 8 della Cedu; si indicano quindi gli elementi su cui basare la valutazione del rischio di violazione di tale diritto: la natura ed effettività dei vincoli familiari dello straniero, della sua integrazione sociale e la durata del suo soggiorno in Italia, nonché l’indebolimento dei legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.

Con le brevi note che seguono, intendo riportare lo stato della giurisprudenza nell’applicazione del citato comma 1.1, seconda parte: giurisprudenza necessariamente e soprattutto di merito[10], vista l’esiguità delle pronunce di legittimità in materia di protezione speciale[11]. Partendo, come necessaria premessa, dalla definizione di «vita privata», meno intuitiva di quella di vita familiare.

 

2. La normativa e la giurisprudenza europea: nozione di «vita privata» come garanzia di uno spazio per il pieno sviluppo della persona. Copertura costituzionale del diritto alla vita privata e familiare

L’articolo 8 della Cedu – evocato dall’art. 19, comma 1.1, sopra citato – considera e tutela separatamente la vita privata e la vita familiare[12]

In particolare, la Corte Edu offre una ricca elaborazione della nozione[13] di vita privata, che include:

• l’integrità fisica e morale della persona[14]

• la garanzia d’una sfera all’interno della quale le persone possano perseguire liberamente lo sviluppo e la realizzazione della loro personalità[15]

• il diritto allo sviluppo personale e a stabilire e sviluppare rapporti con altri esseri umani e con il mondo esterno[16]

• il diritto a mantenere l’insediamento stabile che la persona abbia conseguito in un Paese straniero[17];

• la salute mentale, parimenti considerata una componente fondamentale della vita privata connessa all’aspetto dell’integrità morale[18]

Da questo insieme emerge una nozione di vita privata ampia e aperta che, oltre alle relazioni sociali, lavorative, di partecipazione ad attività pubbliche (educative, di formazione, di volontariato, sportive), riguarda molti aspetti inerenti all’identità della persona: come il benessere psico-fisico, o il diritto di sviluppare liberamente la propria personalità – nelle relazioni sociali e in solitudine – secondo le proprie esigenze e le proprie attitudini e nel pieno rispetto delle proprie origini etniche e linguistiche e delle proprie scelte religiose. 

La migliore sintesi di questo complesso di elementi l’ha offerta un giovane richiedente asilo: all’usuale domanda rivolta in sede di audizione, riguardo ai pericoli temuti in caso di rimpatrio, egli risponde: «Non ho paura. Ma ormai vivo qui!».

Risulta quindi evidente la stretta connessione del diritto al rispetto della vita privata con il diritto all’identità personale e al libero sviluppo della propria personalità, e pertanto la sua valenza costituzionale: è immediato il collegamento con gli artt. 2 (che impone di garantire «i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità») e 3 (diritto al «pieno sviluppo della persona umana») della Costituzione italiana. 

Sempre sotto il profilo della copertura costituzionale del diritto al rispetto della vita privata e familiare, le sezioni unite della Corte di cassazione, nella fondamentale decisione n. 14413/2021, che interviene in materia di protezione umanitaria, affermano:

«La protezione offerta dall’articolo 8 CEDU concerne, dunque, l’intera rete di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia; relazioni familiari, ma anche affettive e sociali (si pensi alle esperienze di carattere associativo che il richiedente abbia coltivato) e, naturalmente, relazioni lavorative e, più genericamente, economiche (si pensi ai rapporti di locazione immobiliare), le quali pure concorrono a comporre la “vita privata” di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (…). Ed è proprio la citazione dell’articolo 2 della Costituzione (…) ad introdurre la necessaria considerazione della dimensione costituzionale nazionale del diritto alla protezione umanitaria».

Si può affermare, pertanto, che la seconda parte del comma 1.1 non riguarda aspetti diversi, ma costituisce una mera specificazione del richiamo al rispetto degli obblighi internazionali e costituzionali contenuto nella prima (attraverso il rinvio all’art. 5, comma 6)[19]. Una specificazione non inutile, perché attraverso la previsione del terzo periodo si stabilisce un collegamento diretto tra vita privata e diritto alla protezione complementare, superando la necessità del giudizio di comparazione con la situazione soggettiva e oggettiva che incontrerebbe la persona in caso di rimpatrio, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla già citata sent. n. 4455/2018.

Da quanto sopra – e come si vedrà meglio oltre – emerge che la tutela del diritto alla vita privata e familiare garantita dal Testo unico sull’immigrazione, nell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata che ne ha dato la giurisprudenza, è in ultima analisi più ampia di quella derivante dall’art. 8 della Convenzione di Roma, implicando eccezioni di bilanciamento più limitate rispetto a quelle previste dalla norma europea nell’interpretazione della Corte di Strasburgo (che prevede tra le eccezioni anche il benessere economico del Paese, la protezione della morale, la protezione dei diritti e delle libertà altrui)[20].

 

3. Il rispetto della vita privata e familiare nell’applicazione dell’art. 19 

Dopo avere valorizzato il diritto al rispetto della vita privata e familiare come ostacolo all’allontanamento dal territorio nazionale, la seconda parte dell’art. 19, comma 1.1 (terzo e quarto periodo), elenca – come abbiamo visto – quattro elementi di cui tenere conto ai fini della valutazione del rischio di violazione di tale diritto.

 

3.1. Un elenco non tassativo

La norma dispone che occorre «tenere conto» di quei quattro elementi, ma non chiarisce se l’elencazione sia tassativa o abbia carattere esemplificativo;  la natura esemplificativa è peraltro evidente, vista l’ampiezza della nozione di «vita privata» appena ripercorsa e il fatto che questa derivi da precisi obblighi internazionali e costituzionali. 

In tal senso – benché non affronti mai direttamente la questione –, è conforme di fatto la giurisprudenza analizzata, che valorizza anche altri elementi: soprattutto, la salute (fisica o psichica) del richiedente e la vulnerabilità legata ai traumi subiti nel percorso migratorio.

 

3.2. Un “paniere” di elementi

Questa ricerca parte dall’analisi delle decisioni che hanno fatto applicazione della seconda parte dell’art. 19, comma 1.1, con particolare riferimento ai due elementi dell’«effettivo inserimento sociale» e della «natura ed effettività dei vincoli familiari»; ma è apparso subito chiaro che tale limitazione del campo di indagine – che ha inizialmente orientato la ricerca – non è possibile: ogni elemento o tratto di una persona va infatti considerato inestricabilmente unito a tutti gli altri. Di conseguenza, la vulnerabilità e l’inespellibilità emergono da un quadro stratificato, da una base multidimensionale; e ogni elemento entra a far parte di un “paniere”, la cui valutazione finale – ai fini dell’accertamento del diritto al rispetto della vita privata e familiare quale ostacolo all’allontanamento – è necessariamente una valutazione complessiva. 

Sul punto, nella giurisprudenza analizzata vi è pieno consenso. La valutazione, complessiva e unitaria, va effettuata tenendo conto:

- sia dei vari indici riconducibili alla voce «inserimento sociale» (attività lavorativa, conoscenza della lingua, relazioni sociali, frequenza di corsi di studio, formazione professionale, etc.), senza privilegiare necessariamente – come pure si è tentati di fare – l’elemento “lavoro”;

- sia degli altri elementi indicativi di una «vita privata e familiare» del richiedente, di cui è imposto il rispetto e la cui violazione impedisce l’espulsione: durata del soggiorno in Italia, legami familiari, assenza o indebolimento di legami familiari e culturali con il Paese di origine; ma anche – uscendo dall’elencazione della norma – una malattia cronica, una vulnerabilità psicologica;

- sia infine, allargando il campo, di elementi diversi che attengono più all’ambito della prima parte dell’art 19, comma 1.1 – il non-refoulement, il rispetto di altri obblighi internazionali e costituzionali –, dovendosi prendere in esame, ad esempio, la situazione soggettiva e oggettiva che il richiedente dovrebbe affrontare in caso di rimpatrio nel Paese di origine, quale elemento non necessario di comparazione

Trovo efficace per esprimere questa elencazione l’immagine del caleidoscopio[21], evocata da Elena Masetti Zannini: una struttura multiforme, variopinta, dai riflessi cangianti, con forme e colori che variano da situazione a situazione del singolo richiedente. 

La Corte di cassazione è intervenuta in merito di recente, con particolare riferimento all’integrazione sociale, precisando che:

«In tema di protezione speciale, la seconda parte dell’art. 19, comma 1.1. del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dal d.l. n. 130 del 2020, convertito con l. n. 173 del 2020, attribuisce diretto rilievo all’integrazione sociale e familiare in Italia del richiedente asilo, da valutare secondo i parametri indicati nella norma citata, senza che occorra procedere ad un giudizio di comparazione con le condizioni esistenti nel paese d’origine [sul punto si tornerà subito oltre – ndr]; al contempo, tale integrazione – in linea con la tutela della vita privata e familiare assicurata dall’art 8 della CEDU – va valutata in modo complessivo ed unitario, senza limitarsi a soppesare in modo atomistico i singoli elementi addotti dal ricorrente».

 

3.3. Non necessità della comparazione con le condizioni del Paese di origine

Emerge da quanto sopra che, per il riconoscimento della protezione speciale ai sensi della seconda parte dell’art. 19, comma 1.1, non è più necessaria la valutazione comparativa, nemmeno nella forma della «comparazione attenuata con proporzionalità inversa»[22] fra l’integrazione raggiunta e le condizione di limitata o assente tutela dei diritti fondamentali ai quali il richiedente andrebbe a esporsi nel caso di rimpatrio.

Il principio, peraltro pacifico, è stato ribadito dalla Corte di cassazione (sez. 6-1, n. 18455/22):

in presenza di integrazione sociale del richiedente, non rileva la «valutazione da parte del Tribunale lagunare dell’integrazione sociale del ricorrente in regime di comparazione attenuata con proporzionalità inversa, così come richiesta alla luce della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 24413/2021 (…). È infatti determinante il rilievo che il giudizio circa il riconoscimento della richiesta protezione complementare di diritto nazionale doveva essere condotto alla stregua del novellato art. 19, comma 1.1. del d.lgs. 286/1998, così come modificato ad opera del d.l. 130/2020. La seconda parte di tale disposizione attualmente attribuisce puntuale e pregnante rilievo all’integrazione sociale e familiare in Italia (…). Il Tribunale si è sottratto a tale valutazione, tanto più necessaria perché il ricorrente aveva allegato in giudizio un contratto di lavoro e buste paga, il CUD 2019, nonché attestati corsi di lingua italiana e di frequenza corsi professionali».

Ed è forse questo l’unico elemento di vera novità apportato dalla seconda parte del comma 1.1, oggi abrogata.

Tuttavia, tale comparazione resta un fondamentale elemento integrativo, non necessario ma consentito, che va a comporre il “paniere” di cui si è detto e che dovrà portare a riconoscere il diritto alla protezione speciale tutte le volte in cui, pur a fronte di una limitata integrazione e dell’assenza di legami familiari in Italia, il rimpatrio possa determinare «la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale» (Cass. civ., n. 4455/18)[23].

 

4. L’effettivo inserimento sociale

Parlando di «inserimento sociale», la norma utilizza una nozione assai larga, e forse impropria, del termine «sociale», essendo chiaro e pacifico il riferimento ad aspetti appartenenti a differenti sfere, ovvero:

- la sfera più propriamente sociale, di cui sono indicativi, ad esempio, lo svolgimento di attività di volontariato, la partecipazione ad associazioni, l’intervento in programmi radiofonici o incontri pubblici (scuole, manifestazioni, etc.), l’instaurazione di rapporti di amicizia profondi e di significative relazioni con la comunità locale;

- la sfera culturale e linguistica, nella quale l’integrazione si manifesta primariamente con la conoscenza della lingua italiana e la frequenza di corsi di studio;

- la sfera lavorativa ed economica: elementi indicatori sono la frequenza di corsi di formazione professionale, l’accesso a lavori protetti (borse lavoro), lo svolgimento di tirocini e, a maggior ragione, di attività lavorativa, la disponibilità di un’abitazione al di fuori del circuito dell’accoglienza.

 

4.1. L’attività lavorativa

Il lavoro è l’elemento principe preso in considerazione dalla giurisprudenza per affermare che vi è quel grado di integrazione «effettivo» che comporta il diritto alla protezione speciale. Non vi sono dubbi che debba riconoscersi tale diritto a un richiedente assunto con un contratto a tempo indeterminato, con un reddito attuale superiore ai limiti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, con una discreta conoscenza dell’italiano (ancor meglio se uscito dal sistema di accoglienza, con un contratto di locazione a proprio nome).

Più interessante è verificare cosa hanno deciso le sezioni specializzate a fronte di situazioni più problematiche sotto questo profilo; e come si è eventualmente ritenuto di integrare tali carenze pervenendo al riconoscimento della protezione. 

In presenza di lavori saltuari e non continuativi è stata riconosciuta la protezione, valorizzando ad esempio:

- l’attività lavorativa svolta nel corso degli anni, in alcuni periodi a tempo parziale, seppur con redditi modesti (sui quali vds. subito infra); la conoscenza dell’italiano; lo svolgimento di attività di volontariato; i sei anni trascorsi sul territorio italiano[24]

- l’uscita dal Paese in età minore; i sette anni di permanenza in Italia; lo svolgimento di lavori in agricoltura spesso in condizioni di sfruttamento, comparati alle condizioni di mancato rispetto dei diritti umani nel Gambia, Paese di origine[25]

- la malattia (diabete mellito aggravato da neuropatia periferica), pur se curata nel Pakistan, Paese di origine, ma in modo inadeguato[26]

- la giovanissima età al momento dell’espatrio; i motivi di salute che hanno portato il richiedente a lasciare il Gambia; la vulnerabilità a questo connessa; un faticoso inizio di integrazione lavorativa e le condizioni nel Paese di origine di «diffusa povertà e di limitato accesso per la maggior parte della popolazione ai più elementari diritti inviolabili della persona, tra cui il diritto alla salute ed alla alimentazione»[27];

- il quadro psicotico che connota la persona del richiedente, sul quale si innesta il consumo di cannabis; la causa della condizione personale rinvenuta nell’essere stato vittima di grave deprivazione dall’infanzia e di numerosi episodi di violenza sia nel Paese di origine che durante il percorso migratorio, come comprovato anche da numerose (tredici) cicatrici sul corpo; il percorso di integrazione iniziato, considerato essenziale dai sanitari per «rafforzare l’efficacia dei trattamenti psicofarmacologici (…) comunque da tenere opportunamente monitorati nel tempo». La protezione speciale viene riconosciuta sia in relazione alla tutela del diritto alla salute che per il diritto al rispetto della vita privata[28];

- l’assenza di riferimenti familiari nel Paese di origine e le torture subite durante il percorso migratorio, attestate da certificato medico, evidenziando il diritto a una piena riabilitazione garantito dall’art. 14 della Convenzione Onu contro la tortura[29], «anche alla luce del fatto che il ricorrente non risulta più avere alcun parente prossimo in patria che potrebbe supportarlo nel superamento dei traumi subiti»;

- le attività di volontariato e di impegno civico svolte durante il periodo di accoglienza pubblica, compreso lo svolgimento del servizio civile universale, e un mero inizio di percorso lavorativo, in quanto «Si tratta di esperienze che denotano l’intenzione del ricorrente di partecipare attivamente alla vita sociale del Paese di accoglienza e di inserirsi anche nell’azione ispirata ai principi di solidarietà sociale e di tutela dell’ambiente espressi dagli artt. 2 e 41 della Costituzione»[30].

- il periodo di sei anni trascorso in Italia; il lungo tempo trascorso fuori dal Paese di origine (12 anni) e soprattutto – quale elemento centrale – un quadro di fragilità psicologica caratterizzato da difficoltà relazionali, probabilmente dovuto a violenze fisiche subite, attestato da relazione psicologica[31]

L’integrazione non viene esclusa dalla modesta entità dei redditi (nei casi esaminati: tra i 4000 e i 7000 euro annui), che di per sé non è decisiva per affermare l’assenza di un sufficiente inserimento. In questi casi, oltre agli elementi appena menzionati[32], sono state valorizzate, nella valutazione globale di cui si è detto: le esigenze di tutela del benessere psicofisico del richiedente, affetto da disturbo post-traumatico da stress, con reazioni di adattamento con sintomi somatici, seguito con regolarità dal centro di salute mentale, in quanto «anche la salute mentale deve essere considerata una componente fondamentale della vita privata connessa all’aspetto dell’integrità morale»[33]; la lunga permanenza in Italia (11 anni)[34]; la presenza di altri elementi indicativi dell’integrazione (frequenza di corsi professionali, una discreta conoscenza dell’italiano)[35], o di vulnerabilità (abbandono del Paese in età minore e assenza di una rete familiare nel Paese di origine)[36]; o ancora l’analfabetismo di partenza, la frequenza di corso professionale e lo svolgimento di attività di volontariato[37].

Sull’entità dei redditi è intervenuta la stessa Corte di cassazione, affermando che:

«con riferimento agli elementi da considerare per ritenere sussistente una violazione del diritto al rispetto della vita privata del richiedente, l’esiguità delle retribuzioni non costituisce un elemento dirimente al fine di escludere la sussistenza del diritto, atteso che la consistenza delle retribuzioni lavorative va apprezzata tenendo conto del graduale incremento delle stesse nel tempo, elemento che fornisce indicazioni utili in merito al consolidarsi del processo di integrazione in Italia» (Cass., sez. 6-1, ord. n. 8373/22).

La pronuncia si segnala per la prospettiva dinamica, che apprezza, più che il “livello” di integrazione raggiunto attualmente, il “processo” in cui la persona si è inserita e, pertanto, il percorso svolto sino ad oggi e le prospettive del suo sviluppo.

Sempre in tema di lavori saltuari e di redditi esigui, questo orientamento è stato ribadito recentemente dalla Cassazione, in fattispecie relativa a un richiedente che aveva prodotto quattro contratti di tirocinio (con redditi modesti)[38] di durata variabile tra i due e i sei mesi, due certificati di frequenza a corsi di lingua italiana e tre attestazioni di ringraziamento per l’attività di volontariato svolta. La Corte, dopo aver riportato il contenuto della seconda parte del comma 1.1, richiama l’orientamento espresso in tema di protezione umanitaria, ai fini della valutazione complessiva dell’integrazione sociale e del radicamento sul territorio italiano[39], e afferma di conseguenza che, per il riconoscimento della protezione speciale, «non può (…) certamente escludere l’integrazione la circostanza che le assunzioni lavorative siano avvenute, per l’appunto, mediante instaurazione di rapporti di formazione professionale e a termine, soprattutto ove, come nella specie, siano state ripetute e costanti nel tempo. Il Tribunale ha, inoltre, omesso di valutare, ai fini dell’integrazione sociale, lo svolgimento di attività di volontariato».

 

4.2. Gli elementi valorizzati in assenza (o quasi) di attività lavorativa “regolare”

In caso di quasi totale assenza di attività lavorativa (quanto meno regolare), sono stati valorizzati:

- il serio impegno per integrarsi, dimostrato attraverso la frequenza scolastica (licenza di scuola media) e di corsi di formazione professionale, qualche contratto a tempo determinato, da parte di persona partita minorenne e arrivata a 18 anni appena compiuti[40]

- il lungo tempo di permanenza in Italia (15 anni), le «profonde relazioni personali di amicizia» (provate mediante la produzione di dichiarazioni scritte) e l’integrazione «nella comunità religiosa che frequenta assiduamente»[41];

- la frequenza di corsi di formazione, le attività di volontariato e l’altissimo inquinamento delle acque nella regione di provenienza (provincia di Beyla in Guinea), evidenziandosi il diritto a vivere in un ambiente salubre quale espressione del diritto alla vita privata[42];

- l’inizio di integrazione, manifestato dall’apprendimento della lingua italiana; la reclusione e le percosse subite nelle carceri libiche e il fatto che, in caso di rimpatrio, il richiedente verrebbe reinserito in un contesto, quello della Guinea Bissau, «che non gli garantisce la tutela dei propri diritti fondamentali e lo sviluppo della propria persona, di tal ché al richiedente non verrebbe assicurata un’esistenza dignitosa ed egli si troverebbe in una situazione di seria incertezza sulla sua vita futura»[43];

- lo svolgimento di attività lavorativa non regolare (dichiarata dal richiedente e desunta dalle plurime rimesse ai familiari) e la «forte vulnerabilità» per quanto vissuto nel Paese di origine, in conseguenza delle calamità naturali che hanno distrutto casa e terreni del ricorrente e della condizione di indigenza della famiglia[44]; ovvero, sempre oltre al lavoro svolto senza contratto, la vulnerabilità determinata dal percorso migratorio in Libia e la situazione del Paese di provenienza, la Nigeria, dove, «[s]econdo le stime della Banca Mondiale relative al 2019, più del 40% della popolazione vive sotto il livello di povertà e solo il 4% aveva accesso a qualche forma di ammortizzatore sociale» cosicché, «[c]omparando le due situazioni, e tenuto altresì conto della vulnerabilità del richiedente in ragione del vissuto nel Paese di transito, se S.O. tornasse nel proprio Paese troverebbe una situazione di vita deteriore che pregiudicherebbe le sue possibilità di avere una vita dignitosa e di esercitare i propri diritti fondamentali»[45].

- i 9 anni di permanenza in Italia e lo svolgimento di lavoro nero nelle campagne foggiane in condizioni di sfruttamento[46].

In merito, in particolare, al lavoro nero, si è osservato che:

«[l]o stato di disoccupazione o di lavoro in nero non esclude la violazione della vita privata o familiare, posto che le relazioni sociali e lo sviluppo della personalità non si esauriscono nel lavoro», tenuto conto che, nel caso in esame, l’irregolarità del lavoro non appariva direttamente imputabile al richiedente, derivando verosimilmente da condizioni di sfruttamento come bracciante agricolo «in ragione del difficile contesto socio-economico, vieppiù se in carenza di un regolare permesso di soggiorno». Pertanto, «non si può sostenere che dall’attuale mancato impiego lavorativo con un contratto regolare derivi l’insussistenza del rischio di violazione della sua vita privata, né l’irregolarità del lavoro appare direttamente imputabile al medesimo, posto che verosimilmente la stessa (…) deriva da condizioni di sostanziale sfruttamento come bracciante agricolo, da cui lo stesso non pare allo stato in grado di emanciparsi in ragione del difficile contesto socio-economico». E, in conclusione, «[l]’inserimento lavorativo, pur rappresentando un chiaro indice di valutazione per l’individuazione della vita privata, non ne costituisce dunque elemento esclusivo o dirimente, sicché ove sia comunque accertato, come nel caso di specie, il radicamento da lungo tempo della vita privata della persona sul territorio italiano, deve ravvisarsi in caso di espulsione la violazione del suddetto diritto, sebbene lo straniero sia momentaneamente disoccupato o non sia comunque in grado di provare lo svolgimento di lavoro con un regolare contratto. La concessione di un permesso di soggiorno conseguente all’accertamento dei presupposti del divieto di refoulement, lungi dal legittimare la irregolarità del lavoro, si limita dunque a dare atto che tale condizione non è imputabile alla persona, che, delle due, è probabile vittima di una condizione di sfruttamento»[47].

Sulla valorizzazione dello sfruttamento lavorativo come elemento di vulnerabilità, si è parallelamente, d’altra parte, espressa la giurisprudenza di merito in materia di protezione umanitaria[48]. Partendo dal contenuto dell’art. 22, comma 12-quater d.lgs n. 286/1998[49], si è infatti osservato che:

«la condizione di sfruttamento lavorativo non denunciata integra evidentemente un elemento della già ampia vulnerabilità presente nel caso di specie. Una vulnerabilità che affonda le proprie radici nella totale assenza di soluzioni alternative concrete, attesa l’impossibilità di reperire un lavoro regolare unita al timore di perdere quello reperito che – seppur irregolare e privo delle minime garanzie di tutela – consente di poter sopravvivere in un contesto oltremodo disumano e degradante». Pertanto, «la sussistenza di una condizione di sfruttamento lavorativo, in assenza di un regolare contratto di lavoro, [deve] semmai aprire la strada ad un invio degli atti alla Procura della Repubblica da parte dell’Autorità giudiziaria, non già risolversi a detrimento della posizione del richiedente protezione internazionale, negando il riconoscimento di un permesso per motivi umanitari; diversamente opinando, sarebbe riconosciuta tutela solamente a chi, munito di coraggio e consapevole delle conseguenze di tale azione (i.e. la perdita del posto di lavoro, che a certe condizioni rappresenta la sola fonte di sostentamento del richiedente asilo), denunci alle Autorità lo sfruttatore, in tal modo, tuttavia, introducendosi arbitrariamente un elemento costitutivo della protezione internazionale – nella forma della protezione complementare – non previsto da alcuna disposizione normativa. La denuncia dello sfruttatore trova, invece, adeguata tutela – costituendone il presupposto – nelle sole forme del riconoscimento di un permesso di soggiorno ex art. 22 comma 12-quater TUI, a titolo premiale. Ciò, a tacer del fatto che non è raro che il richiedente, sfruttato, non sporga denuncia alcuna in quanto non consapevole di essere vittima della violazione grave di diritti fondamentali, primo tra tutti il diritto a condizioni di lavoro umane e dignitose, fondate su un regolare rapporto di lavoro»[50]

 

4.3. Un limite oggettivo all’integrazione lavorativa: l’istanza al questore di protezione speciale

Accanto ai limiti a un’assunzione regolare determinati dal mercato del lavoro e dallo sfruttamento dei lavoratori stranieri, vi è spesso un altro limite oggettivo: in caso di rigetto della richiesta di permesso di soggiorno per protezione speciale rivolta al questore (prima istanza o rinnovo), si verifica frequentemente una vera e propria impasse nel percorso di integrazione del richiedente.

Immaginando che il tribunale sospenda l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, la situazione che può in seguito incontrare lo straniero è varia e soggetta a fattori casuali: alcune (rare) questure rilasciano un permesso di soggiorno per richiesta asilo, che consente quindi di lavorare; la maggior parte, invece, non rilascia alcun permesso, ritenendo la fattispecie estranea all’ambito di applicazione dell’art. 4 l. n. 142/2015[51]. A questo punto, alcuni datori di lavoro (e i loro consulenti) per assumere il richiedente si “accontentano” della ricevuta di richiesta del permesso di soggiorno; moltissimi, al contrario, non si assumono questo rischio e lo straniero non può lavorare in regola. 

Il richiedente, in questi ultimi – frequentissimi – casi si trova nella contraddittoria situazione di richiedere un permesso per il cui ottenimento deve dimostrare l’integrazione sociale (di cui quella lavorativa continua ad essere l’elemento-principe), dimostrazione che tuttavia gli è impedita dalla stessa autorità che gli chiede di dimostrarlo. 

In questa situazione, sovrapponibile – anche se per motivi diversi – a quelle affrontate al par. 4.2., sono stati valorizzati una seria e dettagliata promessa di lavoro unita ad altri elementi, quali la buona conoscenza dell’italiano, le relazioni sociali significative, il lungo tempo di permanenza in Italia[52].

 

4.4. Un’abitazione autonoma?

Dalla generalità dei provvedimenti analizzati emerge che, se da un lato la disponibilità di un’abitazione propria, con contratto di affitto a proprio nome, è un sicuro indice di indipendenza economica, non si tratta tuttavia di un fattore determinante: occorre infatti tenere conto del percorso che il richiedente sta svolgendo e che può rendere necessario il prolungarsi dell’accoglienza, soprattutto in presenza di altri profili di vulnerabilità. Anzi, quando l’integrazione sotto il profilo lavorativo o culturale sia ancora a uno stadio iniziale, l’accoglienza in un Cas o nell’ambito del SAI («Sistema Accoglienza Integrazione») può essere più idonea a sostenere la persona nella prosecuzione di tale percorso. 

 

5. Elementi valorizzati in quasi (o totale) assenza di integrazione

Anche in caso di quasi totale – o totale del tutto – assenza di integrazione (non solo quindi, sotto il profilo lavorativo), la protezione speciale viene frequentemente riconosciuta, valorizzando globalmente altri aspetti, quali: problematiche legate alla salute, o comunque profili di vulnerabilità; il lungo tempo di permanenza in Italia; la situazione di compressione dei diritti umani fondamentali nel Paese di origine.

In particolare, quali elementi complementari di vulnerabilità, sono stati evidenziati: 

- una grave condizione di salute che ne impedisce oggi la prosecuzione della – già precaria – attività lavorativa[53]

- l’analfabetismo di partenza[54], unito alla condizione di fragilità psicologica attestata da relazione di una psicologa[55]

- i gravi disturbi mentali e l’essere stata vittima altresì di violenze sessuali in Italia[56];

- una grave malattia cronica[57];

- il lunghissimo tempo di soggiorno in Italia (21 anni), unito alle condizioni oggettive del Paese di origine (la Liberia), ove sono a rischio concreto di compressione e di annullamento taluni diritti umani fondamentali[58];

- le violenze sessuali subite in Libia, quale esperienza traumatizzante e che connota la richiedente con una specifica ed eccezionale vulnerabilità[59]

- il lunghissimo tempo di permanenza in Italia (31 anni), dove il richiedente ha radicato la sua identità sociale, intrecciando relazioni, qui organizzando tutta la sua vita, con regolare permesso nei primi 22 anni, svolgendo attività lavorativa regolare, permanendo poi per il decennio successivo in condizioni di irregolarità; la situazione viene valutata anche alla luce del «disturbo post-traumatico da stress cronicizzato con umore depresso» di cui soffre il richiedente, già preso in carico con un miglioramento, subendo poi una ricaduta a seguito di un evento traumatico e attualmente in cura presso il centro di salute mentale[60].

Con particolare riferimento alle problematiche riguardanti la salute fisica o psichica del richiedente, vi è uniformità di opinioni nel ritenere che, in caso di malattia cronica, debba essere riconosciuta la protezione speciale, in quanto il rimpatrio integrerebbe una lesione del diritto alla salute e alla vita privata, ed essendo inadeguato il permesso di soggiorno per cure mediche di cui all’art. 36 d.lgs n. 286/1998. Si è, ad esempio, osservato che «Il titolo di soggiorno per cure mediche non pare pertinente, trattandosi di permesso di soggiorno concepito dal legislatore per far fronte, tramite apposite cure, ad una situazione estemporanea e provvisoria di grave malattia come si evince dalla brevità della durata (uguale od inferiore all’anno), dal poter essere rinnovato solo se persistono le gravi condizioni di salute debitamente certificate e dal non essere prevista espressamente la sua convertibilità in un altro permesso di soggiorno. Pertanto, cessate le esigenze di copertura costituzionale imposte dall’art. 32 Cost., il soggetto potrebbe vedersi negato il rinnovo del titolo (…). Tali circostanze, considerate unitamente alla inadeguatezza del sistema socio-sanitario del paese di origine con riferimento alle gravissime carenze dei meccanismi di assistenza in caso di inabilità fisica, consentono di ritenere che, in caso di rientro nel proprio paese, la ricorrente vedrebbe gravemente pregiudicato il diritto al rispetto della propria vita privata e, di riflesso, anche quella familiare che ne rimarrebbe coinvolta negativamente»[61].

 

6. La (breve) durata della permanenza in Italia

Si rileva un contrasto di opinioni nei casi in cui la durata della permanenza in Italia sia assai breve. Questo può verificarsi quando la commissione territoriale abbia dichiarato la domanda manifestamente infondata – soprattutto per provenienza del richiedente da un Paese definito di origine sicura, in quanto fattispecie di manifesta infondatezza immediatamente individuabile dal deposito della domanda – e abbia trattato l’istanza nelle forme e secondo le tempistiche della procedura accelerata di cui all’art. 28-bis d.lgs n. 25/2008: provvedendo quindi con un rigetto entro 9 giorni dalla ricezione degli atti dalla questura (trasmessi da questa «senza ritardo»).

La questione non viene generalmente affrontata direttamente dai tribunali, ma dalle decisioni emerge che, in presenza di un inizio di integrazione, l’esecutorietà del provvedimento viene sospesa, stante il possibile futuro accoglimento del ricorso[62], e l’udienza è fissata – seppur con priorità rispetto ai procedimenti ordinari – in tempi sensibilmente più lunghi (10 mesi - 1 anno dal ricorso). All’esito, se è proseguito il percorso di integrazione, è stata riconosciuta la protezione speciale, tenendo conto dell’impegno e del percorso svolto sino a quel momento (considerando ogni elemento, quali l’iscrizione ai corsi di italiano e l’attività di volontariato), più che del livello di integrazione raggiunto, valutato con minor rigore[63].

In un caso, è stato invece rigettato il ricorso proposto da una persona proveniente dal Kosovo la cui domanda di protezione internazionale era stata rigettata dalla commissione territoriale appena una settimana dopo l’ingresso in Italia; il Tribunale ha rigettato la domanda di protezione speciale, osservando che:

«nonostante il ricorrente abbia trovato un’attività lavorativa a tempo indeterminato sul territorio italiano, egli si trova sul territorio da appena 6 mesi (…), ha peraltro trovato una situazione abitativa precaria (in quanto ospitato da un amico) e si è appena iscritto ad un corso di italiano. Egli ha, per contro, trascorso tutta la sua vita nella stessa città di origine, ove vivono ancora non solo i genitori e i fratelli, ma anche la moglie e due figli». Pertanto, «tenuto conto dello scarso inserimento sociale in Italia del ricorrente, della durata del suo soggiorno in Italia e dei legami familiari, culturali e sociali con il suo Paese d’origine (…) l’eventuale ritorno di B.L. in Kosovo non costituirebbe una lesione del suo diritto al rispetto della propria vita privata»[64].

Benché la motivazione riguardante l’insussistenza della lesione al diritto alla vita privata abbia un suo fondamento, vi è da chiedersi se in questo modo non venga premiato chi, sempre provenendo da Paese sicuro, attenda uno o due anni prima di presentare domanda di asilo[65].

 

7. I legami familiari

Ai fini del riconoscimento della protezione speciale, vengono presi normalmente in considerazione i legami familiari significativi: i figli, il coniuge (o comunque una relazione affettiva stabile); un fratello o sorella convivente.

Tali legami, se forti, possono essere di per sé sufficienti ai fini della protezione speciale anche in assenza di una posizione lavorativa regolare, in forza del principio espresso dalla Suprema corte in materia di protezione umanitaria, che deve essere riconosciuta «al fine di garantire l’unità familiare, e ciò è a dirsi in un’ottica costituzionalmente orientata di assistenza dei figli minori – cui va riconosciuto il diritto ad essere educati ed accuditi all’interno del proprio nucleo familiare onde consentir loro il corretto sviluppo della propria personalità – nonché alla luce del principio sovranazionale di cui all’art. 8 Cedu, dovendo riconoscersi alla famiglia la più ampia protezione e assistenza, specie nel momento della sua formazione ed evoluzione a seguito della nascita di figli senza che tali principi soffrano eccezioni rappresentate dalla condizione di cittadini o di stranieri, trattandosi di diritti umani fondamentali cui può derogarsi soltanto in presenza di specifiche, motivate e gravi ragioni» (vds. Cass. civile, sez. III, n. 32237/21). Il principio è stato poi ribadito, sempre in materia di protezione umanitaria, osservandosi che:

«i vincoli familiari esistenti in Italia hanno autonoma rilevanza rispetto agli altri criteri di accertamento del livello di integrazione sociale raggiunto, poiché l’art. 8 CEDU tutela il diritto in sé a vivere in famiglia»; pertanto, «la situazione di radicamento familiare, ove sussistente (…), deve essere esaminata e valutata in modo autonomo come fattore di per sé espressivo e sintomatico del diritto al riconoscimento della vita familiare ex art. 8 CEDU al fine di verificare se l’eventuale rimpatrio del richiedente nel Paese d’origine renda probabile un significativo peggioramento delle sue condizioni di vita privata e/o familiare tale da pregiudicare il diritto riconosciuto dall’art. 8 CEDU»[66].

A un gradino immediatamente più basso si situa il rapporto con il partner, senza figli. Si segnala, in proposito, un interessante caso affrontato dal Tribunale di Bologna: l’uomo, marocchino, viveva in Italia da quasi trent’anni e aveva una relazione ventennale con una compagna italiana, con la quale aveva avuto due figli (ormai maggiorenni e con i quali i rapporti erano quasi insussistenti). Tuttavia, non era in condizioni di ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari: la coppia non aveva reddito e viveva in condizioni di marginalità sociale; inoltre non era sposata e non vi era contratto di convivenza o altro documenti che la attestasse. Il Tribunale ha osservato che:

«lo stato di disoccupazione non esclud[e] di per sé che il repentino allontanamento possa cagionare un grave pregiudizio al diritto al rispetto della vita privata o familiare, posto che le relazioni sociali e lo sviluppo della personalità non si esauriscono nel lavoro (…), sicché ove sia comunque accertato, come nel caso di specie, il radicamento della vita privata e familiare della persona sul territorio italiano, deve ravvisarsi in caso di espulsione la violazione del suddetto diritto, sebbene lo straniero sia disoccupato. Né può assumersi che una condizione di evidente marginalità sociale sia di per sé ragione giustificatrice della deroga al divieto di allontanamento». Infatti, «[l]a disposizione introdotta nel 2020 opera una chiara scelta, fra le tante possibili, disponendo che il divieto di refoulement possa essere derogato solo “per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica, di protezione della salute” (…). Dunque, si deve escludere che la norma consenta una deroga a tale divieto per ragioni diverse, fondate ad esempio su giudizi di riprovazione in ordine a particolari stili di vita, a condizioni di marginalità sociale, a considerazioni di natura etica o legate alla gestione del fenomeno migratorio o del mercato del lavoro»[67].

Sul punto del rapporto di coniugio, è intervenuta la stessa Suprema corte che, nel cassare la decisione del Tribunale – che aveva rigettato la domanda a fronte di un’integrazione ritenuta modesta (licenza media, non seguita da attività lavorativa) –, ha osservato come occorra valutare anche la consistenza dei legami familiari (con particolare riferimento alla moglie, conosciuta nel viaggio e che lo aveva seguito in Italia), concludendo che «ai fini dell’applicabilità dell’istituto della protezione speciale occorre accertare – eventualmente per escluderla – l’esistenza, la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato» (Cass., sez. I, ord. n. 36789/22).

Accanto ai legami più forti, sono stati valorizzati anche altri legami familiari (ad esempio uno zio convivente, stabilito in Italia da lungo tempo), valutati insieme ad altri elementi di vulnerabilità (un’insufficienza renale, qui curata efficacemente; un inizio di attività lavorativa; difficoltà economiche nel Paese di origine – Tunisia)[68].

 

8. Il limite delle ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica e di protezione della salute

I tribunali che hanno affrontato la questione sono concordi nel ritenere che non sia sufficiente la commissione di un singolo reato, o anche di più reati risalenti, per ritenere “necessaria” l’espulsione per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica ed escludere così il diritto alla protezione speciale. Occorre, invece, effettuare una valutazione ponderata ai fini di un giudizio di pericolosità attuale, tenendo conto di ogni circostanza, verificando inoltre – in relazione al profilo dell’integrazione sociale – se i reati commessi appartengano a un passato superato o se comunque, nel caso specifico, per l’entità o per essere un caso isolato, abbiano scarsa rilevanza in un apprezzamento globale del percorso svolto[69]

Non è invece stata riscontrata alcuna applicazione del limite costituito dalle ragioni di «protezione della salute»; limite, peraltro, dal significato piuttosto oscuro.

 

9. Il dl n. 20/2023 e le modifiche al comma 1.1. Qualche prima riflessione 

L’art. 7 del decreto legge n. 20/2023 («Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare»), convertito con modificazioni dalla legge n. 50/2023, ha tra l’altro modificato la disciplina della protezione speciale, espungendo il terzo e il quarto periodo dell’art. 19, comma 1.1, e quindi l’esplicito riferimento alla tutela del diritto alla vita privata e familiare. Ha inoltre espunto la seconda parte del comma 1.2, che prevedeva l’obbligo del questore, previo parere della commissione territoriale, di rilasciare un permesso di soggiorno per protezione speciale, ricorrendone i presupposti, a coloro che richiedevano altro tipo di permesso di soggiorno. Ha, infine, escluso (espungendo la lett. a dall’art. 6, comma 1-bis, d.lgs n. 286/98) la sua convertibilità in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. 

Ai commi 2 e 3, l’art. 7 ha inoltre previsto una particolare disciplina transitoria.

Vorrei, in questa sede, fare alcune prime riflessioni sul contenuto della protezione speciale alla luce della modifica normativa.

Un prima osservazione è che nulla è mutato in relazione all’obbligo di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale quando l’espulsione sia impedita da obblighi internazionali o costituzionali: i presupposti sono sostanzialmente i medesimi che imponevano il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (a cui si aggiungono i vari divieti di refoulement tutt’ora previsti nei commi 1 e 1.1). 

Non vi è più – è vero – il riferimento ai «seri motivi umanitari», ma si tratta di riferimento, a ben vedere, di scarsa pregnanza, in quanto è ben difficile ipotizzare «motivi umanitari» che non rientrino anche nella categoria degli obblighi costituzionali (il diritto di asilo di cui all’art. 103, i diritti inviolabili e i doveri di solidarietà di cui all’art. 2, l’uguaglianza e il diritto al pieno sviluppo della persona umana di cui all’art. 3, il diritto alla salute, a formarsi una famiglia, e così via) o internazionali (i diritti di cui agli artt. 3 e 8 Cedu e alla Convenzione Onu contro la tortura del 1984, solo per citarne alcuni)[70].

Lo si osserva esaminando non soltanto la giurisprudenza di merito che si è formata nel vigore del previgente art. 5, comma 6 del testo unico, ma anche quella della stessa Corte di cassazione, che, negli ultimi anni, sempre fondandosi su principi costituzionali o di diritto unionale o internazionale, ha ritenuto che ai fini della verifica di presupposti della protezione umanitaria deve tenersi conto, senza pretesa di completezza: delle violenze subite nel Paese di transito (nn. 13096/19, 13565/20, 3583/21, 89920/21, 12649/21, 25734/21, 3768/23); degli eventi calamitosi, causa dell’emigrazione, verificatisi nel Paese di origine (n. 2563/20); del rischio di una lesione del diritto alla salute (nn. 2558/20; 27544/22), ivi compreso un accertato disturbo post-traumatico da stress a causa delle sevizie subite (n. 8990/21); della situazione oggettiva del Paese di origine (ai fini del giudizio di “comparazione attenuata” (nn. 11912/20, 26671/22); del diritto alla vita privata e familiare (n. 9304/19; sez. unite, n. 24413/21; n. 41778/21) e, a tali fini, dell’esistenza e della consistenza dei legami familiari e affettivi del richiedente in Italia (nn. 23720/20, 32237/21, 34096/21); dello sfruttamento lavorativo quale elemento in grado di incidere gravemente sul quadro psicologico dello straniero che richiede protezione (n. 17204/21); della situazione esistente nel Paese di transito, allorché l’esperienza vissuta in quest’ultimo presenti un certo grado di significatività in relazione a indici specifici come la durata in concreto del soggiorno, in comparazione con il tempo trascorso nel Paese di origine (n. 13758/20); del considerevole periodo di ingiusta detenzione sofferta in Italia dal ricorrente, con sottoposizione a un regime carcerario che gli aveva procurato problemi di natura psicopatologica (n. 4369/23).

Le situazioni nelle quali la giurisprudenza di merito e di legittimità ha concretamente ravvisato i presupposti per la protezione umanitaria sono pertanto sovrapponibili a quelle in cui viene riconosciuta la protezione speciale e che si sono sopra ampiamente analizzate.

La nuova disciplina della protezione speciale (quanto ai presupposti), alla luce del dl n. 20/2023, sembrerebbe pertanto differire da quella precedente solo perché, nella particolare fattispecie della protezione per integrazione sociale, sarà nuovamente richiesto il giudizio di comparazione nella forma elaborata dalla Suprema corte della comparazione attenuata a “proporzionalità inversa”.

Ben più rilevante pare essere l’abolizione della convertibilità in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, sulla cui legittimità costituzionale appare legittimo avanzare forti dubbi: come si è visto, le situazioni che imponevano il permesso di soggiorno per motivi umanitari e che imporranno, nella nuova formulazione, quello per protezione speciale, sono generalmente tutt’altro che transitorie[71] e un permesso di soggiorno “eternamente provvisorio” come quello per protezione speciale potrebbe essere inidoneo a tutelare i diritti a tutela dei quali è previsto; con possibile conflitto con i principi di uguaglianza e ragionevolezza e con le norme poste a garanzia dei medesimi.

 

 

1. Benché le modifiche citate siano note, si riportano qui per comodità di consultazione. 
L’art. 1 dl n. 130/2020 (in corsivo le parti aggiunte dal dl o dalla legge di conversione): 
- alla lett. a, ha così modificato l’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/1998, reintroducendo i contenuti che il dl n. 113/2018 aveva eliminato:
«Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».
- alla lett. e, ha così modificato l’art. 19, comma 1.1, d.lgs n. 286/1998: 
«1.1. Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani. Non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, resa esecutiva dalla legge 24 luglio 1954, n. 722, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine».
- sempre alla lett. e, ha aggiunto il comma 1.2, che prevede che nell’ipotesi di rigetto della domanda di protezione internazionale, qualora sussistano i requisiti di cui ai due commi precedenti, «la Commissione territoriale trasmette gli atti al Questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale». Inoltre, al di fuori dell’ambito delle domande di protezione internazionale, lo stesso comma dispone che, «[n]el caso in cui sia presentata una domanda di rilascio di un permesso di soggiorno, ove ricorrano i requisiti di cui ai commi 1 e 1.1, il Questore, previo parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, rilascia un permesso di soggiorno per protezione speciale».
Il dl n. 130 ha, inoltre, ampliato i contenuti del permesso di soggiorno per protezione speciale, equiparandolo a quello del previgente (anteriormente al dl n. 113/18) permesso di soggiorno per motivi umanitari (in sintesi: durata biennale, rinnovabilità (art. 32, comma 3, d.lgs n. 286/98), convertibilità alla scadenza in permesso di soggiorno per lavoro (art. 6, comma 1-bis, lett. a, d.lgs n. 286/98).

2. Così la relazione illustrativa allo schema di decreto legge n. 130/2020.
Il Presidente della Repubblica, infatti, all’atto della firma del dl n. 113/2018, aveva avvertito: «l’obbligo di sottolineare che, in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, “restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato”, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia».

3. M. Betti, I fondamenti unionali e costituzionali della protezione complementare e la protezione speciale direttamente fondata sugli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato, in Questione giustizia online, 28 giugno 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/protezione-complementare), riferendosi alla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/98, osserva che «Una caratteristica di rilievo di questa ipotesi di protezione speciale fondata sull’adempimento degli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato è che il suo diretto fondamento negli artt. 10 e 117 della Costituzione la rende “impermeabile” – o almeno relativamente impermeabile – alle modifiche della legislazione primaria».
Cfr. anche Corte Edu e EUAFR («European Union Agency for Fundamental Rights»), Manuale di diritto europeo della non discriminazione (2018), Ufficio delle pubblicazioni dell’Ue, Lussemburgo, 2019 (www.echr.coe.int/documents/handbook_non_discri_law_ita.pdf), che, con particolare riferimento al «diritto della non discriminazione» (ma esprimendo principi validi per tutti i diritti della persona), osserva che «i giudici e i magistrati nazionali sono tenuti ad applicare le tutele previste dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalle direttive dell’Unione europea contro la discriminazione a prescindere dal fatto che le parti del procedimento vi facciano o meno richiamo. Ciò è conforme ai principi giuridici incardinati in ogni sistema, come ad esempio l’efficacia diretta del diritto dell’Unione europea negli Stati membri e l’effetto diretto riconosciuto alla CEDU, che deve essere rispettata da tutti gli Stati membri dell’UE e del Consiglio d’Europa (CDE)».

4. Per i quali si rinvia a quanto si dirà al par. 9.

5. In quella sede, peraltro, la Corte era chiamata a interpretare la normativa precedente al d.lgs n. 251/2007, e quindi all’introduzione nel nostro ordinamento della protezione sussidiaria mediante recepimento della prima direttiva qualifiche (direttiva 2004/83/CE del Consiglio); ed era evidente il riferimento a presupposti analoghi a quelli della protezione sussidiaria, ovvero all’esigenza di offrire tutela agli stranieri che, «se allontanati nei Paesi di origine, potrebbero essere sottoposti a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti». Il principio rimane tuttavia fermo anche successivamente, via via che si acquisisce la consapevolezza dell’ampiezza dei diritti costituzionali e internazionali che limitano il potere statuale di allontanare gli stranieri e che, conseguentemente, la protezione umanitaria assume contorni diversi e sempre più estesi. Vds., per tutte, Cass. civ., sez. unite, n. 29459/2019.

6. C. Favilli, Il Re è morto, lunga vita al Re! Brevi note sull’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in Rivista di diritto internazionale, n. 1/2019, p. 164, osserva che «l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari comporta l’eliminazione della veste giuridica prevista in caso di sussistenza di taluni dei presupposti legittimanti il diritto d’asilo costituzionale o di qualsiasi altro divieto di allontanamento derivante dagli obblighi internazionali. Spetta dunque all’interprete verificare quale residua possibilità vi sia di invocare i diritti da essi derivanti, rimasti “fermi” come indicato dal Capo dello Stato e se possa essere rinvenuta una veste giuridica alternativa a quella dell’abrogato permesso di soggiorno per motivi umanitari». L’Autrice, nell’acuto scritto cui si rinvia, prospettava «la possibilità dell’applicazione diretta dell’art. 10, 3° comma, Cost., rinnovando la prassi della richiesta di asilo giurisdizionale sussistente prima dell’introduzione nel nostro ordinamento di un sistema d’asilo». 

7. Vengono infatti mantenute figure che, nella previgente disciplina, costituivano ipotesi tipiche del permesso umanitario: il permesso di soggiorno «per motivi di protezione sociale» (riguardante le vittime di violenza e sfruttamento, art. 18 d.lgs n. 286/98), «per le vittime di violenza domestica» (art. 18-bis), per «ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo» (art. 22, comma 12-quater). Accanto a questi, sono inseriti nel testo unico altri casi speciali di permesso di soggiorno: il permesso «per cure mediche» (art. 19, comma 2, lett. d-bis), «per calamità» (art. 20-bis) e «per atti di particolare valore civile» (art. 42-bis).

8. Cass. civ., sez. unite, n. 29459/2019.

9. Per organicità di esposizione, si rinvia sul punto a quanto si dirà al par. 9.

10. Ho avuto a disposizione decisioni delle sezioni specializzate di Bologna, Brescia, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste. Vi sono, inoltre, alcune prime importanti pronunce di legittimità. Alcune delle decisioni del Tribunale di Firenze si riferiscono alla protezione umanitaria, tenuto conto dell’orientamento del Tribunale, che ritiene che, in ogni caso (pur dopo l’emanazione del dl n. 130/20), alle domande presentate prima dell’entrata in vigore del dl n. 113/18 continui ad applicarsi la disciplina a questo previgente. Le motivazioni sono comunque sovrapponibili, stante la ormai assodata continuità tra i presupposti delle due forme di protezione, e anzi apparendo la protezione speciale di portata sensibilmente maggiore (cfr. par. 3.3.).

11. La modifica dell’art. 19 apportata dal dl n. 130/20, infatti, ai sensi dell’art. 15, comma 1, del medesimo, è applicabile retroattivamente solo ai procedimenti che, alla data di entrata in vigore (22 ottobre 2020), pendevano «avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali»; non, quindi, ai procedimenti che alla stessa data pendevano davanti alla Corte di cassazione o in sede di rinvio. Di conseguenza, i procedimenti all’epoca pendenti davanti alle commissioni o ai tribunali le cui decisioni sono state sottoposte al vaglio della Corte sono numericamente assai limitati.

12. Come ha chiarito la Corte Edu nella sentenza Narijs c. Italia, del 14 febbraio 2019, dove si afferma che «si deve accettare che tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono facciano parte integrante della nozione di “vita privata” ai sensi dell’art. 8. Indipendentemente dall’esistenza o meno di una “vita familiare”, l’espulsione di uno straniero stabilmente insediato si traduce in una violazione del suo diritto al rispetto della sua vita privata».

13. Mi limito, in questa sede, all’aspetto relativo alla nozione di «vita privata» secondo la Corte Edu. Per una organica visione degli orientamenti della Corte, e su come questa ha interpretato la protezione conferita dall’art. 8 della Convenzione di Roma agli stranieri che si trovano sotto la giurisdizione degli Stati aderenti, rinvio a S. Tonolo, La rilevanza degli obblighi internazionali ai fini della tutela della vita privata e familiare dei richiedenti protezione internazionale nella legge 5 maggio 2023, n. 50, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 2/2023, pp. 353-374.

14. Vds., ex multis, X e Y c. Paesi Bassi, § 22, in cui la Corte ha indicato che la nozione di vita privata comprende l’integrità fisica e morale della persona: la causa concerneva l’aggressione sessuale subita da una sedicenne affetta da disabilità mentale e l’assenza di disposizioni penali che fornissero alla giovane una effettiva e concreta tutela.

15. A.-M.V. c. Finlandia, § 76; Brüggemann e Scheuten c. Germania, decisione della Commissione; Federazione nazionale delle associazioni e dei sindacati degli sportivi (Fnass) e altri c. Francia, § 153.

16. Niemietz c. Germania, § 29; Pretty c. Regno Unito, §§ 61 e 67; Oleksandr Volkov c. Ucraina, §§ 165-167; El Masri c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia; Nitecki c. Polonia; Sentges c. Paesi Bassi; Odièvre c. Francia [GC], § 42; Glass c. Regno Unito, §§ 74-83; Pentiacova e altri c. Moldavia.

17. Narijs c. Italia, cit.

18. Bensaid c. Regno Unito, § 47.

19. Vds., sul punto, M. Starita, Le protezioni complementari in Italia e i trattati in materia di diritti umani dopo la l. 5 maggio 2023, n. 50: una questione d’interpretazione, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 2/2023, pp. 337-352; S. Tonolo, La rilevanza, op. cit.; cfr., ancora, M. Betti, I fondamenti, op. cit.

20. Cfr. S. Tonolo, La rilevanza, op. cit.

21. E. Masetti Zannini, Le vulnerabilità tutelabili. La comparazione con il Paese d’origine, in questo fascicolo.

22. Sul principio della «comparazione attenuata con proporzionalità inversa» cfr., da ultimo, Cass., sez. unite, n. 24413/2021, cit.

23. Per un esempio di efficace e sapiente uso del giudizio di comparazione, vds. Trib. Bologna, 18 maggio 2022, n. 419/22 RG. Sulla comparazione, vds. E. Masetti Zannini, Le vulnerabilità, op. cit.

24. Trib. Bologna, 3 marzo 2022, n. 11241/21 RG. 

25. Trib. Bologna, 18 maggio 2022, n. 419/22 RG, già citata a proposito del giudizio di comparazione. 

26. Trib. Trieste, 3 febbraio 2022, n. 1583/18 RG. Il Tribunale ha osservato che il richiedente «risulta affetto da una forma piuttosto severa di diabete, per il quale è attualmente in terapia, circostanza che evidenzia come il legame con il territorio italiano permetta al medesimo anche il mantenimento di una buona condizione di salute, che verrebbe presumibilmente compromessa in caso di rimpatrio».

27. Trib. Firenze, 1° marzo 2023, n. 3520/20 RG, in materia di protezione umanitaria. In relazione alla malattia curata in Italia, il Tribunale ha osservato: «Il richiedente ha lasciato il Gambia nella speranza di trovare cure adeguate alla propria malattia, la TBC. L’impossibilità di potersi affidare a strutture sanitarie efficienti in ragione della incapacità economica della propria famiglia, e quindi dell’inaccessibilità del proprio diritto alla salute, lo rendono un soggetto particolarmente vulnerabile. Egli ha ottenuto, in Italia, cure adeguate e, grazie alla terapia prescritta, gode oggi di buona salute ed ha superato il timore del contagio, ha raggiunto un livello di vita dignitoso ed una condizione che, in caso di rimpatrio, egli perderebbe».

28. Trib. Brescia, 23 luglio 2021, 14628/18 RG (in Diritto, immigrazione e cittadinanza, marzo 2023 (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/allegati/fascicolo-n-1-2023/nazzarena/1058-8-trib-bs-23-7-2021).

29. Trib. Roma, 26 maggio 2022, n. 6097/21 RG. Il Tribunale osserva in proposito che «la riabilitazione è definita dal Comitato Onu contro la tortura come “the restoration of function or the acquisition of new skills required as a result of the changed circumstances of a victim in the aftermath of torture or ill-treatment” (CAT, Comitato contro la tortura General comment No. 3, 2012). La riabilitazione richiesta per un soggetto vittima di tortura deve essere specifica perché finalizzata ad assicurare un pieno recupero fisico, psicologico e socioeducativo della vittima; va intesa secondo un approccio olistico e interdisciplinare, tale da ricomprendere non solo un trattamento medico, fisico e psicologico, ma anche un programma di formazione professionale e reinserimento sociale e, in generale, tutti quegli interventi che risultino idonei a ripristinare, per quanto possibile, l’autonomia e l’indipendenza del soggetto, le sue funzionalità e capacità fisiche, mentali, sociali e professionali e per promuoverne una piena reintegrazione e partecipazione all’interno della società. L’art 14 della Convenzione contro la tortura, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre 1984 e resa esecutiva in Italia con legge n. 489 del 3 novembre 1988, prevede che gli Stati parte di tale convenzione hanno l’obbligo di garantire, nei loro ordinamenti, alla vittima di un atto di tortura il diritto al risarcimento che comprenda i mezzi necessari ad una riabilitazione la più completa possibile (cfr. Grande Sezione della Corte di Giustizia UE, sentenza del 24 aprile 2018 nella causa C-353/16)». 

30. Trib. Brescia, 23 marzo 2021, n. 2983/19 RG (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/allegati/fascicolo-n-1-2023/nazzarena/1053-3-trib-bs-23-3-2021).

31. Trib. Trieste, 14 dicembre 2022, n. 3503/18 RG. 

32. Vds., ancora, Trib. Bologna, 3 marzo 2022, n. 11241/21 RG, cit.

33. Trib. Bologna, 7 luglio 2022, n. 20885/19 RG.

34. Trib. Milano, 1° giugno 2022, n. 11595/22, che ha osservato che, nel caso deciso, «il ricorrente non sarebbe in grado di ricostruire entro la soglia della dignità nel Paese di origine la vita privata costruita in Italia, di talché l’allontanamento dal territorio nazionale determinerebbe una illegittima e non giustificabile lesione dei diritti di cui all’art. 8 CEDU, tenuto conto dell’inserimento e del radicamento raggiunto nel Paese ospitante a cui corrisponde uno sradicamento o, comunque, un significativo affievolimento dei suoi legami sociali, familiari e culturali con il paese di origine».

35. Trib. Milano, 14 novembre 2022, n. 56006 RG.

36. Trib. Milano, 8 giugno 2022, n. 37816 RG.

37. Trib. Genova, 27 giugno 2023, n. 13550/19 RG.

38. Secondo quanto riportato nell’ordinanza della Corte, il Tribunale aveva sottolineato che «gli scarsi importi percepiti dal ricorrente non gli consentirebbero di condurre una vita dignitosa e autonoma in Italia, garantita allo stato attuale solo dal permanere all’interno del sistema di accoglienza».

39. Quindi, la pronuncia si segnala, tra l’altro, perché chiarisce che vi è piena continuità, nella valutazione dell’integrazione sociale e del radicamento in Italia, tra gli orientamenti espressi in tema di protezione umanitaria da un lato e di protezione speciale dall’altro. In proposito, afferma che a tali fini «deve essere valutato in concreto l’intero percorso compiuto dal cittadino straniero, anche considerando, a titolo esemplificativo, le attività svolte all’interno del sistema di accoglienza, previsto dalla legge e realizzato dagli enti locali, e la continuità temporale delle stesse (Cass. 7938/2022), nonché le attività svolte in tirocinio formativo (Cass. 7396/2022)».

40. Trib. Torino, 11 gennaio 2023, n. 24546/19 RG.

41. Trib. Trieste, 25 febbraio 2022, n. 1480/18 RG.

42. Trib. Roma, 4 gennaio 2021, n. 57308/18 RG, ove si osserva: «La Corte Europea ha da ultimo affrontato il tema della tutela dell’ambiente quale diritto fondamentale individuale nella sentenza Cordella e altri c. Italia del 24 gennaio 2019 relativa all’Ilva di Taranto (…). Le conseguenze pregiudizievoli che scaturiscono da un ambiente inquinato dunque possono tradursi in una violazione del diritto alla vita privata. La violazione dell’art. 8 (…) è stata riconosciuta dai giudici di Strasburgo per la prima volta con la sentenza Lopez Ostra c. Spagna del 1994, in cui è stato stabilito che: “l’inquinamento può compromettere il benessere di una persona, privandola quindi del godimento del diritto alla riservatezza e della sua vita familiare anche se ciò non comporti pericoli per la salute”. Anche l’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea recita: “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”». 

43. Trib. Firenze, 22 marzo 2023, n. 1743/20 RG, in materia di protezione umanitaria. 

44. Trib. Roma, 30 settembre 2022, n. 23583/211 RG. 

45. Trib. Firenze, 20 luglio 2022, n. 11456/19 RG, in materia di protezione umanitaria. 

46. Trib. Bologna, 29 giugno 2022, n. 7680/21 RG.

47. Trib. Bologna, n. 7680/21 RG, cit.

48. Cfr. Trib. Milano, 12 maggio 2021 (www.adir.unifi.it/odv/adirmigranti/tribunale-milano-Masetti-Zannini.pdf); Trib. Genova, 13 agosto 2022, n. 9609/19 RG. 

49. Che, in caso di comprovata condizione di sfruttamento lavorativo in Italia dello straniero, riconosce al lavoratore che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro, un permesso di soggiorno, prima per protezione umanitaria ai sensi dell’art. 5, comma 6, e poi, per casi speciali, ai sensi del comma 12-sexies dello stesso art. 22.

50. Trib. Milano, 12 maggio 2021, cit.

51. Prassi di dubbia legittimità costituzionale, in quanto la posizione del richiedente è in questo caso analoga (e trattata irragionevolmente in modo differente) a quella del richiedente protezione internazionale il quale, impugnando la decisione di rigetto della commissione territoriale, rinunci alla protezione internazionale chiedendo esclusivamente la protezione complementare. L’irragionevolezza deriva – come illustrato sopra – anche dal contrasto tra il comportamento che si richiede al richiedente per ottenere il titolo di soggiorno e l’impossibilità di dimostrarlo. Tenuto conto che anche la protezione speciale è una forma di tutela del diritto di asilo costituzionale, una soluzione giuridicamente possibile sarebbe quella del rilascio del permesso di soggiorno per richiesta asilo di cui all’art. 11, lett. a, dPR n. 394/1999 («Regolamento di attuazione del Testo Unico Immigrazione»).

52. Trib. Genova, 18 ottobre 2022, n. 3934/21 RG, che osserva che «il ricorrente si è trovato nella materiale e giuridica impossibilità di svolgere attività lavorativa regolare e pertanto l’“effettivo inserimento sociale in Italia” richiesto dal citato art. 19 comma 1.1 non può che essere valutato, per le attività che richiedono tale permesso (quale appunto quella lavorativa), sulla base della volontà e degli sforzi concretamente messi in atto dallo straniero in tal senso e della idoneità degli stessi a consentire, potenzialmente, un inserimento effettivo, una volta ottenuto il permesso».

53. Trib. Milano, 20 luglio 2022, n. 970/20, in un caso di soggetto «affetto da tubercolosi», il quale «in Italia si è sottoposto a degli accertamenti medici, dai quali sono emersi “noduli polmonari del lobo superiore di destra in sospetta localizzazione di TBC (…) ed esiti di apicectomia in TBC” (…); si è sottoposto ad “asportazione chirurgica della doppia nodulazione apicale sinistra” oltre che ad una biopsia polmonare, nel corso della quale riportava altresì un pneumotorace di natura iatrogena (…) e, ad oggi, prosegue la terapia farmacologica prescrittagli».

54. L’analfabetismo di partenza, già di per sé, rende il richiedente vittima di violazione del fondamentale diritto allo studio e all’istruzione (come sancito all’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 e all’art. 28 della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989) e può rendere oggettivamente complesso non solo l’apprendimento della lingua, ma anche un inserimento in autonomia in una società così diversa da quella di partenza.

55. Trib. Trieste, n. 1035/19 RG. Nella decisione si parla di difficoltà psicologiche del richiedente, «che risultano dalle sue stesse dichiarazioni e come attestato nella relazione del 2 dicembre 2018 dalla psicologa e psicoterapeuta (…), da cui risulta una grave difficoltà di memoria e di narrazione, oltre che di concentrazione, del richiedente, derivatagli dai traumi subìti a causa delle percosse e delle vere e proprie torture a cui è stato sottoposto nel Paese di origine, che hanno determinato in lui limitate capacità emotive e il verificarsi di veri e propri episodi dissociativi».

56. Trib. Napoli, 6 ottobre 2022, n. 13670/21 RG, dove si osserva che «i profili soggettivi ed oggettivi (…) conducono a presagire, con elevata probabilità che, in caso di rimpatrio in Nigeria, oltre a subire gli effetti pregiudizievoli per la sua salute, discendenti dall’interruzione del percorso di cura intrapreso, l’attrice sarebbe esposta al rischio concreto, di tipo persecutorio, previsto dall’art. 19, comma 1, T.U.I., per via della patologia da cui è affetta, ed a quello di grave deprivazione del diritto alla salute, scongiurato dall’art. 19, comma 1.1 (…) per via della concreta difficoltà di conseguire in Nigeria cure mediche adeguate al suo stato».

57. Trib. Genova, 20 novembre 2020, n. 9249/19 RG, e Trib. Roma, 5 ottobre 2021, n. 17159/20 RG, entrambi relative a ricorrente affetto da diabete mellito di tipo II.

58. Trib. Napoli, 27 ottobre 2022, n. 15373/21 RG, che osserva che «il ritorno del richiedente nel suo paese di origine lo costringerebbe a reimmettersi in un contesto estremamente disagiato e a dovere fronteggiare, con difficoltà, peraltro, maggiore, a causa della necessità di doversi anche reinserire dopo anni di lontananza, rischi concreti di pregiudizio ai suoi diritti fondamentali alla vita privata, riconosciuto dall’art. 8 CEDU, ed alla salute».

59. Trib. Firenze, 8 giugno 2022, n. 8410/19 RG, in materia di protezione umanitaria, in piena continuità con la giurisprudenza precedente, anche della Corte di cassazione (n. 1104/20 e la citata sez. unite, n. 24413/21). Nel caso in esame, la richiedente, nigeriana, aveva anche una integrazione familiare in Italia (marito e due figli), ma il Tribunale ha chiarito che la eccezionale vulnerabilità conseguente alle violenze subite era «già idonea al riconoscimento del diritto invocato».

60. Trib. Bologna, 5 luglio 2021.

61. Trib. Genova, 20 novembre 2020, cit.

62. Vds. decreto di sospensione Trib. Milano, 28 luglio 2022, n. 22172/22 RG.

63. Trib. Milano, 16 gennaio 2023, n. 14854/22 RG.

64. Trib. Trieste, 22 dicembre 2022, n. 2281/22 RG. 

65. Il medesimo Ufficio ha riconosciuto la protezione speciale a un ricorrente kosovaro la cui domanda era stata rigettata dalla commissione territoriale per manifesta infondatezza, basandosi sulla presenza in Italia da oltre due anni, sulla frequenza di corsi di formazione e sul contratto di apprendistato professionalizzante; in questo caso, peraltro, la famiglia rimasta in Kosovo viveva in condizioni di indigenza e sopravviveva in forza di un modestissimo sussidio statale; cfr. Trib. Trieste, 23 novembre 2022, n. 86/21 RG.

66. Trib. Milano, 2 novembre 2022, n. 57439/19 RG, relativa a un richiedente che viveva in Italia con la compagna e la figlia, svolgendo occasionalmente lavori in nero. 
Trib. Genova, 27 settembre 2021, n. 9608/19 RG, riguardante una donna nigeriana, in Italia con marito e due figli: «attualmente residente presso il centro di accoglienza (…), ha dato alla luce due figli, oggi di uno e tre anni, che sta crescendo con il supporto del marito. La relazione del CAS ospitante testimonia l’impegno della richiedente e la sua volontà di trovare un impiego, sebbene allo stato l’accudimento dei figli, ancora molto piccoli, la assorba quasi integralmente. O.P. ha conseguito la certificazione HACCP di primo livello ed è iscritta al corso di alfabetizzazione pre A1, avendo manifestato il desiderio di imparare l’italiano. È una madre adeguata e attenta ed ha seguito in modo appropriato il figlio più grande nell’inserimento all’asilo. Ha partecipato di buon grado insieme al compagno a corsi organizzati dall’ente gestore sulla genitorialità e sull’alimentazione nell’infanzia».
Trib. Roma, 6 febbraio 2023, n. 28294/21 RG, relativa a richiedente keniota, in Italia da 20 anni, convivente con il compagno e con la figlia e priva di legami con il Paese di origine; ha osservato il Tribunale che «il rimpatrio della ricorrente comporterebbe una disgregazione del nucleo familiare compiutamente inserito sul territorio italiano in violazione dell’art. 8 Cedu, secondo cui la vita familiare va intesa come diritto di vivere insieme “affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente e i membri della famiglia possano godere della reciproca compagnia” (Cass., 02/09/2021, n. 23834/2021; vedi anche Cass., 08/07/2021, n. 19517/2021; Cass., 26/02/2021, n. 5506; Cass., 22/01/2021, n. 1347) nonché una ingiustificata interruzione del percorso di formazione scolastica della figlia minorenne, che risulta frequentare la scuola in Italia, con grave pregiudizio dell’interesse della minore».

67. Trib. Bologna, 5 maggio 2022, n. 15927/19 RG.

68. Trib. Trieste, 30 novembre 2022, n. 1567/21 RG. Con riferimento alla situazione sanitaria del richiedente, si è osservato che, «pur non costituendo una forma di vulnerabilità particolarmente grave, va comunque valorizzata nella parte in cui le terapie che ha seguito e che continua a seguire hanno comportato un netto miglioramento nella sua condizione psico-fisica, miglioramento che gli consente di poter andare a lavorare con sufficiente regolarità. Per quanto le stesse cure possano, probabilmente, essere offerte anche nel Paese di origine, non vi è chi non veda come il cambio dei medici curanti che hanno avviato il percorso terapeutico o, peggio, l’interruzione delle terapie possano produrre un’evidente rischio per un nuovo peggioramento delle condizioni psicofisiche del ricorrente».

69. Trib. Trieste, n. 621/19 RG, relativo a un richiedente in Italia da 6 anni assunto a tempo indeterminato con abitazione autonoma, condannato per il reato di cui all’art. 73, comma 1-bis, dPR n. 309/1990, con pena sospesa, rilevandosi che «l’esistenza di un singolo precedente penale non può essere ritenuto da solo [elemento] sufficiente per ritenere il richiedente protezione automaticamente pericoloso; infatti il giudizio di pericolosità sociale deve essere svolto sulla base di una valutazione individuale, caso per caso, tenendo conto della personalità e dei modi ed abitudini di vita dello straniero, rispetto alla quale l’esistenza del precedente penale si pone come elemento sintomatico, certo rilevante ma che di per sé non può esaurire il giudizio».
Trib. Torino, 14 ottobre 2022, n. 9582/19 RG (www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/allegati/fascicolo-n-1-2023/nazzarena/1057-7-trib-torino-14-10-2022). Il caso affrontato riguarda un richiedente marocchino entrato in Italia oltre 12 anni fa, posto agli arresti domiciliari l’anno successivo per il reato di violenza sessuale, rientrato in Marocco per assistere il padre, successivamente espatriato per alcuni anni in Francia, infine nel 2020 estradato in Italia, in esecuzione della sentenza di condanna alla pena di due anni e tre mesi di reclusone per il suddetto reato. Il richiedente, inoltre, aveva in Italia la gran parte della sua famiglia d’origine, ovvero la madre – titolare di un permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo – nonché il fratello e le sue tre figlie e la nipote, tutti cittadini italiani; aveva conseguito in Italia il diploma di terza media e, durante il periodo di detenzione in carcere, frequentato il liceo artistico fino al terzo anno. Era in atti la relazione del centro studi trattamento, che dava atto del buon percorso psicologico intrapreso in carcere, che egli si dichiarava disponibile a proseguire anche una volta scarcerato. Il richiedente aveva, infine, intrapreso da poco un progetto sociale di ascolto e traduzione per persone in difficoltà con un’associazione ecclesiastica. Il tribunale, nonostante la condanna per un reato grave, ma risalente a 12 anni prima, ha riconosciuto la protezione speciale, «onde consentire al ricorrente un congruo periodo di stabilità al fine di completare il proprio sviluppo individuale e sociale e di proseguire nel percorso psicologico e di reinserimento nel mondo del lavoro, già proficuamente intrapreso una volta scarcerato, tenuto conto anche della presenza in Italia di tutti i suoi parenti più stretti, che lo hanno supportato anche nel periodo di detenzione».
Trib. Genova, 18 ottobre 2022, n. 3934/21 RG, già citata al par. 4.3. a proposito del difficile inserimento lavorativo nelle ipotesi di domanda di rinnovo (o di prima domanda) di protezione speciale; il richiedente era stato segnalato in tempi recenti per possesso di hashish, in periodo nel quale era nell’impossibilità di ottenere un lavoro regolare.
Trib. Roma, 7 novembre 2022, n. 57802/21 RG, in relazione a un richiedente condannato per un’ipotesi “lieve” di rapina (con pena sospesa, per sottrazione di un cellulare e di un cappello, commessa quando lo stesso era minorenne), giunto in Italia a 14 anni, qui diplomato, convivente con la madre e senza legami con il Paese di origine.

70. Quanto agli obblighi internazionali, vds. ancora ampiamente M. Starita, Le protezioni complementari, op. cit. L’Autore osserva che «i permessi di soggiorno per protezione speciale, introdotti nell’ordinamento italiano mediante il decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130 – su cui hanno poi inciso in senso restrittivo le disposizioni che qui commentiamo – si riferivano (…) ad esigenze di protezione consolidatesi, o quantomeno già emerse, in ambito internazionale».

71. Sul punto vds. ancora, ampiamente, C. Favilli, Il Re è morto, op. cit.