Osservazioni cliniche sulla patologia post-traumatica dei richiedenti protezione: il ruolo della salute mentale nel percorso di integrazione. L’esperienza del centro SAMIFO
Le condizioni psico fisiche dei richiedenti asilo e le conseguenze delle esperienze vissute nel Paese di origine e nella fase di transito, narrate da un operatore medico che ha scelto di dedicarsi alla cura e al sostegno di chi chiede accoglienza.
1. Premessa / 2. Introduzione / 3. Alcune riflessioni / 4. Migrazione e patologie psichiatriche / 5. Osservazioni cliniche sulla patologia post-traumatica dei richiedenti protezione internazionale / 6. Conclusioni
1. Premessa
L’elevato numero di migranti forzati (persone che spesso condividono un «drammatico passato traumatico, minaccioso per la integrità e la continuità psichica, che include l’esposizione a violenza correlata con la guerra, aggressione sessuale, tortura, incarcerazione, genocidi e altre forme di minacce e annichilazione personale. Le esperienze premigratorie, migratorie e postmigratorie contribuiscono allo sviluppo del rischio...»)[1] regolarmente presenti nella nostra regione ha stimolato una riflessione sulle modalità di intervento su questa popolazione estremamente fragile, spesso in condizione di vulnerabilità psico-socio-sanitaria, e sulla conseguente necessità di mettere in atto azioni e percorsi di tutela della salute, sia in termini di prevenzione che di assistenza, cura e riabilitazione. In questa direzione, la Asl Roma 1 ha contribuito al processo di rafforzamento delle competenze istituzionali e delle collaborazioni fra gli enti di tutela, per offrire nuovi strumenti di azione. Attraverso il «Centro di Salute per Migranti Forzati» (SAMIFO), nato nel 2006 dalla collaborazione con il Centro “Astalli” («Italian Jesuit Refugees Service»), l’azienda promuove la tutela dei diritti e della salute dei migranti forzati.
Nel luglio del 2015, il Centro SAMIFO ha ottenuto l’importante riconoscimento della Regione Lazio come «Struttura Sanitaria a valenza regionale della ASL Roma 1 per l’assistenza ai migranti forzati nonché punto di riferimento per gli enti che operano per la loro tutela in quanto si avvale di un modello organizzativo che, attraverso percorsi assistenziali integrati, riesce a soddisfare bisogni di salute complessi che richiedono contestualmente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale» e nell’atto aziendale vigente viene valorizzato come «Unità operativa autonoma».
Negli ultimi anni, molte delle persone che giungono alla nostra osservazione presentano esiti fisici e psicologici a seguito di gravi violenze vissute, come vittime o testimoni, durante il percorso migratorio, quindi soprattutto nei Paesi di transito, piuttosto che nel Paese di origine. Queste persone hanno un elevato rischio di sviluppare sintomi o franchi disturbi psichiatrici, malattie fisiche e disagio sociale che possono ostacolare o ritardare percorsi di integrazione nel Paese di accoglienza. Per tale ragione, l’assistenza sanitaria offerta ai richiedenti protezione deve favorire percorsi di individuazione precoce e adeguata cura, con un metodo che sia multidisciplinare e multidimensionale.
L’approccio del Centro SAMIFO combina il lavoro fornito dall’assistenza sanitaria pubblica della Asl Roma 1 con quello del privato sociale del Centro “Astalli”. Il SAMIFO si propone di facilitare e promuovere la fruibilità dei servizi sanitari, informare gli utenti dei loro diritti, garantire livelli essenziali di assistenza, promuovere un approccio sistematico per affrontare il trauma psicologico delle vittime e prevenire il trauma vicario degli operatori, assicurare la mediazione linguistico-culturale per superare le barriere e permettere la comunicazione e la comprensione reciproca tra paziente e operatore, oltreché formare gli operatori socio-sanitari sui temi riguardanti la medicina delle migrazioni.
L’evento che ha segnato maggiormente l’attività del SAMIFO nel 2022 è stata la guerra in Ucraina.
Infatti, allo scoppiare dell’emergenza, è stato necessario programmare nuove attività e stabilire nuovi contatti di rete, come lo hub di Termini per l’accoglienza e la vaccinazione dei profughi appena arrivati. L’afflusso di profughi di guerra ucraini ha influenzato l’attività del Centro anche in termini di variazioni statistiche rispetto agli anni precedenti. Ovviamente, la popolazione ucraina è al primo posto per quanto riguarda le prestazioni effettuate nel 2022. Inoltre, poiché la maggior parte degli ucraini che fuggono dalla guerra sono di sesso femminile, essendo gli uomini adulti costretti a rimanere nel Paese, è cambiata anche la proporzione tra i generi degli utenti del nostro centro. Infatti, dopo che per anni è stata registrata una percentuale del 30% di donne e del 70% di uomini, nel 2022 siamo vicini a una parità numerica tra pazienti di diverso genere. In particolare, nel secondo semestre (quello in cui c’è stato il maggior numero di arrivi dall’Ucraina), le donne superano numericamente gli uomini.
In totale, durante il 2022, il SAMIFO ha accolto e assistito 2275 richiedenti e titolari di protezione internazionale e complementare, di cui 1265 uomini e 1010 donne, provenienti da 94 Paesi.
Dall’inizio delle attività, al SAMIFO sono state assistiti più di 25.000 migranti forzati; sono state effettuate oltre 100.000 visite di medicina generale e circa 60.000 visite specialistiche (psichiatria, psicologia, ginecologia, medicina legale, ortopedia).
Sono diverse centinaia le vittime di trattamenti disumani e degradanti, compresa la tortura, assistite ogni anno dai professionisti del Centro.
2. Introduzione
Il Centro SAMIFO, per diverse ragioni, ha da sempre prestato una grande attenzione a registrare e descrivere il proprio lavoro anche in termini numerici. Prima di tutto, esiste una necessità di efficienza: è fondamentale essere certi che la quantità di risorse investita, in termini di tempo, risorse umane e finanziarie, siano coerenti con i risultati ottenuti: in termini di numero di prestazioni, interventi, azioni intraprese. A tal fine, sono necessarie una descrizione e una raccolta accurata del volume delle attività svolte.
Altrettanto importante è rispondere in termini di efficacia, oltre a soddisfare i criteri di efficienza. Per questo è necessario tenere presenti obiettivi e risultati attesi, e descriverli sotto forma di indicatori capaci di documentare l’effetto positivo che si attendeva dalle azioni intraprese. I numeri sono una misura sintetica della realtà, che permette più rapidamente e facilmente di comprendere in quale direzione si sta andando ed eventualmente correggere o riorientare le azioni per rispondere a nuove emergenze (vedasi l’assistenza agli afghani evacuati nell’agosto del 2021 o ai profughi ucraini) o quelle che si stanno dimostrando poco capaci di dare i risultati che avremmo voluto ottenere.
Inoltre, documentare quanto si fa, rappresentarlo in termini accurati, renderlo pubblico e disponibile significa offrire ai decisori politici e amministrativi uno strumento per un’equa distribuzione delle risorse e una programmazione più attenta al superamento delle diseguaglianze nell’accesso alle prestazioni sanitarie, soprattutto per i soggetti con vari tipi di svantaggi: sociali, linguistici, culturali, ovvero legati a disabilità.
Possiamo aggiungere che descrivere il proprio lavoro significa essere aperti al confronto per crescere e migliorare, anche grazie al contributo, alle critiche e all’esperienza altrui. Inoltre, non bisogna trascurare l’importanza di essere trasparenti e leggibili anche agli occhi dei non addetti ai lavori.
Infine, dobbiamo dire che descriversi è anche un motivo di orgoglio per tutti gli operatori, che possono così rileggere la propria attività al di fuori dall’impegno quotidiano e della fatica che lo accompagna, che a volte non permette di vedere chiaramente il quadro generale del servizio che si rende agli utenti e alla collettività.
Le persone che afferiscono al SAMIFO presentano spesso bisogni di salute complessi, patologie fisiche e psichiche legate alle esperienze traumatiche pre-migratorie, al viaggio e alla precarietà del presente, acuiti sovente da difficoltà di tipo alloggiativo, burocratico-amministrativo, legale, economico e quasi sempre dall’assenza di una rete sociale di supporto. Per accogliere una casistica così eterogenea, l’équipe del servizio è costituita secondo criteri di multidisciplinarietà e collaborazione trasversale e intersettoriale. Tale modalità organizzativa risulta essere essenziale nell’assistenza a pazienti come i rifugiati e i richiedenti asilo, che necessitano di un approccio globale alla salute, alle condizioni sociali e di vita e, contemporaneamente, di un servizio che sia specializzato nella cura delle patologie post-traumatiche.
L’area di medicina generale permette ai rifugiati, oltre che di ricevere l’assistenza primaria, anche di essere orientati alle diverse linee di attività specialistiche interne ed esterne all’ambulatorio.
L’area dedicata alla salute mentale, formata da professionisti – psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica – specializzati in particolare nella cura dalle patologie post-traumatiche, dissociative e da disadattamento, riveste un ruolo fondamentale all’interno del servizio, visto il livello di fragilità psicologica della popolazione target[2], come esplicitato più avanti.
Nel consultorio lavora un’équipe tutta femminile, composta da professioniste specializzate in ginecologia e ostetricia, personale infermieristico, operatrici sociali e mediatrici culturali. L’équipe tutela la salute delle donne migranti, spesso vittime di violenze intenzionali, abuso sessuale, matrimoni forzati e mutilazioni dei genitali, e ne assicura l’accompagnamento alla gravidanza e al post partum.
Lo specialista ortopedico assiste le numerose vittime di traumi con esiti osteo-muscolo-articolari che richiedono, in alcuni casi, anche interventi chirurgici.
La medicina legale è un servizio essenziale per la certificazione degli esiti di tortura e violenza intenzionale da sottoporre alle commissioni territoriali e ai tribunali, a sostegno della domanda di protezione internazionale in tutte le fasi procedurali.
Il servizio sociale consente di far fronte alle variegate problematiche che i richiedenti asilo e rifugiati devono affrontare nel periodo post-migratorio e che, se trascurate, possono minare anche l’assistenza sanitaria di questa popolazione in vari modi: ad esempio, la disoccupazione o la precarietà lavorativa spesso non consentono di pagare un alloggio dignitoso alla fine del percorso di accoglienza, oppure la difficoltà di avere una residenza crea barriere burocratico-amministrative all’ottenimento dell’iscrizione al sistema sanitario, con ovvie ricadute sull’accesso ai servizi di cura.
La necessità di riabilitazione delle vittime di tortura è ben descritta dalla dichiarazione firmata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre 1984, con la risoluzione 39/46 che adotta la «Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti». Nell’art. 14 si dichiara: «Ogni Stato Parte, nel proprio ordinamento giuridico, garantisce alla vittima di un atto di tortura il diritto a una riparazione e a un risarcimento equo ed adeguato, che comprenda i mezzi necessari a una riabilitazione la più completa possibile (…)». Il servizio di riabilitazione del SAMIFO comprende «tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire anche nel lungo periodo la continuità tra azioni di cura e quelle di riabilitazione»[3].
Il funzionamento del SAMIFO si basa sulla presenza di mediatori linguistico-culturali e operatori specializzati, che hanno una funzione di accoglienza e di orientamento verso le attività legate all’assistenza sanitaria. Il personale di mediazione linguistico-culturale garantisce a persone spesso confinate in una condizione di silenzio, solitudine e discriminazione la possibilità di parlare ed essere ascoltati. Quest’area, che fa da collegamento e collante tra le diverse specialità, garantisce una continuità relazionale che sostiene il paziente nel suo percorso terapeutico all’interno del servizio, riducendo il rischio di dropout e misdiagnosis[4].
Gli invii al SAMIFO provengono prevalentemente dai centri di accoglienza straordinaria e dal Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) di tutto il territorio regionale, dalle commissioni territoriali, da altri servizi sanitari, da enti del terzo settore e, sempre in maggior numero, dal passaparola.
3. Alcune riflessioni
Come già accennato, i richiedenti e titolari di protezione internazionale e complementare sono persone che spesso, durante il percorso migratorio, nei Paesi di origine e più frequentemente in quelli di transito, subiscono violenze intenzionali, umiliazioni, minacce, persecuzioni, torture, abusi sessuali.
L’esperienza traumatica mette a rischio l’integrità e la continuità psichica delle vittime, anche se non tutti coloro che la vivono sviluppano una sintomatologia franca. La sintomatologia psichica che si può sviluppare nelle persone vittime di tortura è inserita, secondo la nosologia classica, nella reazione acuta da stress, nel disturbo da stress post-traumatico (PTSD), nei disturbi dissociativi, nella modificazione duratura della personalità dopo esperienza catastrofica e in altre categorie diagnostiche.
Vi sono inoltre altri fattori, per esempio la diffusione di malattie quali quelle parassitarie, infettive o nutrizionali (spesso non curate), che possono minare le condizioni di salute dei migranti causando l’effetto cd. “migrante esausto”[5]. Lo stress cronico derivante dalla lotta continua per la sopravvivenza può provocare anche una serie di reazioni psico-neuro-immuno-endocrinologiche, determinando un aumento della suscettibilità alle infezioni, a patologie cardiache e tumorali[6].
Inoltre, le situazioni di incontro-confronto-scontro tra diversi riferimenti culturali sottopongono il migrante forzato a un ripetuto e continuo sforzo per ridefinire gli schemi cognitivi, valutativi, comportamentali e culturali precedentemente acquisiti. Infine, la precarietà alloggiativa e lavorativa favoriscono ulteriori percorsi di male/malessere/malattia su quelli di bene/benessere/salute.
Particolare attenzione è rivolta dal centro SAMIFO all’assistenza e cura delle vittime di trattamenti disumani e degradanti, quali la tortura e altre forme di violenza intenzionale. Il metodo di lavoro scelto è quello del governo della rete come insieme di relazioni tra diversi soggetti, che convergono su obiettivi, strategie e metodologie di lavoro, creando culture condivise per raggiungere determinati risultati.
La strategia assistenziale è fondata sulla realizzazione di percorsi interdisciplinari, multidimensionali e interculturali di assistenza e cura, sull’integrazione tra l’assistenza medica di base e l’assistenza specialistica e sull’integrazione tra le prestazioni sanitarie e le azioni di protezione sociale: un modello organizzativo che ha anticipato di circa dieci anni quanto ricordato da Panos Vostanis[7], che sostiene che non è sufficiente un servizio con specialisti preparati che incentrano il proprio lavoro sul trauma e sul sintomo, bensì serve l’integrazione con interventi psico-sociali che permettano la comprensione dell’esperienza del migrante, il miglioramento della sua capacità di resilienza, l’assistenza al resettlement. Perciò, sostiene Vostanis, serve un lavoro strettamente integrato del personale sanitario con enti e associazioni che tengano in considerazione i bisogni essenziali, le condizioni di vita e gli stressor quotidiani della persona[8].
Inoltre, in accordo con Jablensky et al.[9], abbiamo osservato che, nonostante la diversità degli eventi traumatici vissuti, le conseguenze a livello psichico sono marcatamente simili, indipendenti da cultura, classe sociale, genere, appartenenza etnica o religiosa. Le violenze subite dai migranti forzati nel Paese d’origine o durante il percorso migratorio producono una complessa reazione psicopatologica, paura, insicurezza e diffidenza.
Sulla base dell’esperienza maturata in questi anni, abbiamo osservato che qualsiasi comportamento o azione mirati a calmare il dolore e lo stress, a ricostruire la fiducia nell’essere umano e a ridare dignità e speranza ai sopravvissuti alla tortura possono essere considerati “atti terapeutici”, e che gli interventi in ambito sociale, economico, giuridico e relazionale sono altrettanto indispensabili che quelli specifici sulla salute mentale e fisica.
La nostra terapia con le vittime di tortura non segue schemi rigidi. Le sue fasi, definibili ma non definite, sono modulate in base ai bisogni individuali della vittima e, talvolta, anche del terapeuta.
Particolare attenzione viene posta ai tempi e ritmi dei colloqui. È essenziale garantire piena libertà di espressione nei modi, forme e contenuti.
Durante i colloqui o le visite specialistiche si possono verificare reazioni emotive intense e dolorose (pianto, disperazione, disturbi dissociativi, etc.), che possono contagiare le persone del setting terapeutico. Al fine di evitare che il terapeuta-testimone diventi “vittima del paziente”, vengono messi in atto opportuni meccanismi di prevenzione delle malattie correlate con lo stress lavorativo, in particolare per prevenire la traumatizzazione vicaria.
La presenza del mediatore linguistico culturale è il fondamentale anello di congiunzione tra il terapeuta e il paziente: un operatore qualificato che, oltre a padroneggiare la lingua della vittima, conosce la realtà del Paese di accoglienza ma spesso anche quelli di provenienza o transito. Il centro SAMIFO non è, però, solo un centro che fornisce assistenza sanitaria competente a una popolazione particolarmente fragile, ma anche un luogo generatore di una nuova conoscenza, sia perché adegua pratiche medico-sanitarie alle esigenze di persone provenienti da differenti culture, sia perché stimola risposte a problematiche nuove, coinvolgendo campi e saperi altri, come la sociologia e l’antropologia. A seguito di questa riflessione nascono, nel 2016, i Quaderni del SAMIFO per riflettere su temi di particolare attualità nel nostro Paese, con l’arricchimento che viene dall’esperienza interna del Centro e con il contributo di autorevoli professionisti di organismi nazionali e internazionali che da tempo lavorano sul campo.
4. Migrazione e patologie psichiatriche
Le più importanti pubblicazioni sulla salute mentale dei richiedenti asilo e rifugiati riguardano il disturbo da stress postraumatico (PTSD), la depressione e i disturbi d’ansia[10]. Alcuni autori hanno osservato che la presenza di disturbi mentali comuni è doppia nei migranti forzati rispetto ai migranti economici[11]. Una review pubblicata da The Lancet[12] indica che i migranti forzati, sopravvissuti a torture e violenze, hanno una prevalenza di PTSD 10 volte maggiore rispetto alla popolazione generale dei Paesi di accoglienza, e la percentuale di sviluppo di PTSD in questa popolazione varia nelle pubblicazioni dal 31 al 51%[13]. Il PTSD è, dunque, la patologia psichiatrica più frequente nei richiedenti protezione internazionale, ed è sempre crescente la convinzione che possa essere legato non solo a situazioni che mettono a rischio la vita dell’individuo, ma anche a condizioni permanenti di instabilità e insicurezza[14], che tendono altresì a peggiorare la prognosi psichiatrica[15]. Questa affermazione è valida non solo per i disturbi post-traumatici, ma anche per patologie gravi come le psicosi. Infatti, alcuni fattori socio-ambientali presenti nel Paese di accoglienza, per esempio la discriminazione, lo sfruttamento, il razzismo, potrebbero slatentizzare idee paranoiche, portando a manifestare sintomi psicotici inquadrabili nei disturbi psichiatrici maggiori[16]. I migranti vivono per lo più in condizioni sociali svantaggiate rispetto a quelle dei cittadini dei Paesi di accoglienza; in questa situazione, l’esposizione prolungata a stressor ripetuti potrebbe contribuire ad aggravare la sintomatologia di una malattia mentale già presente o addirittura causare, in individui predisposti, una rottura psicotica con possibili reazioni comportamentali incontrollate. A tal proposito è interessante rileggere la perizia psichiatrica, condivisa dal giudice, relativa a Adam Kabobo, il ghanese che a Milano nel 2013 uccise a picconate tre passanti. Il perito psichiatra «dà conto della presenza della malattia mentale», una forma di schizofrenia paranoide, «e di quanto la stessa abbia inciso nella sua comprensione degli eventi e nella determinazione della sua volontà offensiva». La perizia sottolinea che la «condizione di stress derivante dalla lotta per la sopravvivenza» ha aggravato «la sintomatologia delirante e allucinatoria e la comprensione cognitiva». Allora mi chiedo se questa tragedia potesse essere evitata. Certamente si poteva e si doveva provare a evitarla perché, da quanto si sa, a mio avviso sembra ci sia stata indifferenza o sottovalutazione a più livelli di responsabilità. Certamente il Kabobo aveva dato in precedenza evidenti segni di disagio che non sono stati colti; la situazione di vita in cui si è ritrovato non gli ha garantito un livello sufficiente di assistenza sociosanitaria. E allora dobbiamo fare in modo che eventi come questo non si ripetano più in futuro, garantendo adeguati livelli di accoglienza e assistenza.
Così come una patologia grave può essere sottovalutata e trascurata, al contrario può accadere che il PTSD o un disturbo dissociativo – patologie che possono mimare sintomi psicotici (intrusioni simili ad allucinazioni visive, uditive, olfattive, gustative), che in realtà sono di ripetizione dell’evento traumatico – possano essere erroneamente interpretate come sintomi positivi di psicosi (allucinazioni uditive, visive, olfattive, gustative o deliri), sia a causa della scarsa formazione specialistica che per aspetti organizzativi. In alcuni studi è stato dimostrato che il rischio di misdiagnosis è tanto più elevato quanto minore è il tempo trascorso dal paziente nel nuovo Paese[17]. Inoltre, quando la comunicazione tra medico e paziente non è adeguata, per motivi linguistici, la probabilità di incorrere in un errore di diagnosi e trattamento risulta maggiore[18]. La diagnosi errata può essere, dunque, il risultato di:
• sottovalutazione o sopravvalutazione della gravità psicopatologica;
• fallimento nel riconoscimento della psicopatologia;
• diagnosi di una psicopatologia non presente (ad esempio, se una credenza culturale viene interpretata come delirio).
L’errore diagnostico può indurre i professionisti a formulare interventi terapeutici e riabilitativi inadeguati o inappropriati, che possono causare il prolungamento o l’induzione della condizione di sofferenza, la perdita di qualità della vita o persino l’inizio della disabilità[19], fattori che limitano i percorsi di integrazione e autonomia.
In generale, il vantaggio di una diagnosi precoce e corretta, sostenuta da un attento studio della psicopatologia delle persone con storia traumatica, potrebbe condurre anche a un considerevole risparmio sui costi della sanità, spesso ingenti a causa di diagnosi errate e quindi successive terapie poco o per nulla funzionali alla gestione della patologia psichiatrica.
5. Osservazioni cliniche sulla patologia post-traumatica dei richiedenti protezione internazionale
Le patologie post-traumatiche costituiscono la principale patologia psichiatrica tra le persone prese in carico al SAMIFO, per numerosità e per impegno del servizio, il che ha comportato uno sviluppo della competenza specialistica sulla clinica e sulla terapia del trauma. Basandoci sulla nostra esperienza diretta e sulla letteratura, possiamo brevemente delineare alcune riflessioni in merito.
La prima riguarda il fatto (già largamente descritto in letteratura) che l’occorrenza di eventi traumatici nella vita delle persone non equivale a patologia post-traumatica, né per frequenza di insorgenza, né per gravità: evento traumatico e trauma clinico sono cose molto diverse. Infatti le persone che hanno subito traumi sviluppano una patologia post-traumatica in una percentuale che non supera il 50%[20]; inoltre, si è lungamente constatato come anche la severità dell’evento o la sua crudeltà non coincidano con il potenziale patogeno: un’esperienza di tortura o un incidente stradale possono dare origine alla stessa forma clinica di PTSD. È vero, invece, che il ripetersi di eventi traumatici, o la loro durata nel tempo, aumentano fortemente il rischio.
La seconda osservazione riguarda l’influenza, largamente riconosciuta, di fattori genericamente descritti come “socio-culturali” nella patologia post-traumatica. Giocano, per esempio, un ruolo (al di là delle varianti individuali e del processo di attaccamento) gli eventi traumatici per la loro natura, durata e ripetizione, coinvolgimento familiare e gruppale, il grado di attesa e la preparazione al trauma, pieni di interpretazioni culturalmente mediate, e i fattori di coping culturali e comunitari. Rimangono, però, fuori da un’influenza culturale – secondo quanto si osserva e viene descritto nel settore della psico-traumatologia – le manifestazioni cliniche, la struttura sintomatologica dei disturbi post-traumatici e dissociativi, determinati come sono più dal bios dei sistemi di allarme e difesa iper-stimolati in cronico che da meccanismi di diversificazione su base culturale.
Nel campo della psico-traumatologia sono due le categorie diagnostiche che raggruppano i quadri clinici: quella dei i disturbi da stress post-traumatico e quella dei disturbi dissociativi. Entrambi riconoscono come fattore eziologico un evento traumatico (per “evento traumatico”, come già detto, intendiamo non solo un fatto puntiforme e unico, ma anche una serie di eventi minori, o una condizione traumatizzante cronica), ma il quadro sincronico di dispiegamento sintomatologico, così come la temporalità degli eventi, il decorso storico, nonché ovviamente le tecniche terapeutiche sono distinti.
I fenomeni dissociativi (ove per “dissociativo” si intende un’alterazione parziale o totale dello stato di coscienza) possono essere presenti su tutta la scala delle patologie neuropsichiatriche, ma solo nel caso dei disturbi dissociativi si strutturano all’interno della persona entità distinte più o meno autonome, come parti separate della stessa persona. È questo il caso frequente delle “voci” dissociative, allucinazioni o più spesso pseudo-allucinazioni con caratteristiche fenomenologiche ben differenti dalle voci degli schizofrenici. Vale la pena sottolineare che, in termini di riscontro clinico, i disturbi della senso-percezione a tipo allucinatorio sono più frequenti nei quadri di disturbi dissociativi di quanto si trovino nei disturbi psicotici (intendendo in senso proprio le malattie schizofrenica, bipolare e paranoica)[21]. Le voci dissociative sono riconoscibili, in genere, da parte del soggetto; hanno caratteristiche di età, stile di pensiero, finalità, linguaggio, mezzi e finalità distinte all’interno della stessa persona. Nei nostri pazienti sono le voci degli autori delle violenze subite che in prevalenza parlano al paziente.
Le alterazioni emotive, sensoriali, i cambiamenti ingiustificati e improvvisi nel comportamento, le amnesie, le fughe sono tutti conseguenza dei disturbi dissociativi che hanno tempi di sviluppo differenti dal PTSD, poiché si basano su una non-integrazione della persona causata da traumi relazionali o di abuso in anni precoci, piuttosto che su una frattura causata nella persona da eventi traumatici recenti. Le persone con questa disorganizzazione di base possono manifestare il loro scompenso anche a distanza di anni dalle condizioni o dai fatti che hanno causato questa fragilità del sistema-persona. Nei richiedenti asilo che giungono al SAMIFO, spesso, i traumi recenti che hanno portato alla fuga dal Paese, o quelli intercorsi nel viaggio di migrazione, hanno il valore di un terremoto che scuote un edificio già danneggiato, portando alla sintomatologia dissociativa che si mostra nel presente[22].
Differente è il caso dei PTSD propriamente detti. In questo caso, la struttura della persona con una sua solidità di base va incontro a fratture determinate da eventi che sopravanzano le capacità di ricomposizione del paziente in maniere e per motivi che vanno esplorati caso per caso nella storia personale, ben al di là della storia migratoria. Questa, inizialmente, ha una minima importanza ai fini dell’azione terapeutica. Molto più rilevante è ricondurre il paziente al di fuori del hyperarousal (“iperattivazione”) in cui si trova costantemente: una reazione fisiologica di allarme continuo, che ripresenta alla persona, momento per momento, una condizione di pericolo per la sua sopravvivenza, anche in un presente di sicurezza per la vita. In questo caso, tutto il paziente (non una parte) è rimasto intrappolato nell’epoca del trauma e del pericolo, e il tempo del trauma ciclicamente si ripropone alla sua coscienza o integralmente (come nel caso dei flashback, vere reviviscenze - e non ricordi - delle violenze vissute), o come “memorie somatiche” in cui il corpo rivive il trauma una volta e un’altra, ripetutamente. Instabilità emozionale, difficoltà di concentrazione e di attenzione, disturbi del sonno, condotte di evitamento verso quello che ricorda il trauma (persone in uniforme, assembramenti o gruppi, persone di sesso maschile, etc.) sono la conseguenza di questa disregolazione[23]. Tale sintomatologia, se non individuata precocemente e adeguatamente trattata, interferisce fortemente sulla possibilità di costruzione di una vita sociale, relazionale e lavorativa da parte del richiedente o titolare di protezione.
Per quanto grossolanamente si è delineato sopra, è facile comprendere che i percorsi e le tecniche terapeutiche sono differenti nei due gruppi di patologie, sia da un punto di vista psicoterapeutico che farmacologico. In entrambi i casi, è assolutamente importante sottolineare che una fase di stabilizzazione (risoluzione sintomatologica, aumento della possibilità per il paziente di stare nel presente e delle capacità di autoregolarsi e, soprattutto, di poter lavorare con i terapeuti) è necessaria.
Solo quando la persona ha stabilito una relazione di fiducia con il terapeuta, è diventata capace di autoregolazione ed ha ampliato le sue capacità di gestire i ricordi traumatici, solo allora si può direttamente intervenire sulle memorie senza ri-traumatizzazione o peggioramento della sintomatologia. Sappiamo che, per esigenze legali, il percorso di richiesta di protezione internazionale comporta una narrazione degli eventi (per di più coerente e non lacunare, cosa difficile per chi soffre di una patologia post-traumatica), e diverse volte siamo dovuti intervenire su aggravamenti provocati dal racconto del trauma fatto durante la preparazione all’audizione da parte dei consulenti legali, durante l’audizione stessa o in visite e colloqui svolti da professionisti psico-socio-sanitari impreparati.
Ovviamente i casi sono differenti l’uno dall’altro, come le storie personali, e quindi non per tutti coincidono i tempi: né quelli di recupero, né quelli per raggiungere la capacità di narrare la propria storia senza patirne le conseguenze. Come detto en passant sopra, non sono gli eventi del passato, ma la sua ombra sul presente (il nostro oggetto di interesse e di lavoro per la salute del paziente) a distinguere la specificità del lavoro del medico. È utile ricordare in questo contesto che i ricordi degli eventi traumatici, scatenando complesse reazioni emotive e comportamentali, possono favorire anche la narrazione di racconti incoerenti.
6. Conclusioni
La condizione dei richiedenti protezione vittime di traumi estremi nel nostro Paese è, tra le diverse vulnerabilità, la più critica perché non può essere considerata una mera possibilità che riguardi singoli casi, bensì trattasi di una condizione diffusa. Sappiamo infatti, come già chiarito in precedenza, che le violenze intenzionali possono determinare gravi conseguenze fisiche, mentali, sociali ed economiche, sia a breve che a medio e lungo termine. Il decreto “Lamorgese” introduce all’art. 32, comma 3 del d.lgs n. 25/2008, una nuova tipologia di permesso di soggiorno. L’articolo stabilisce che, nei casi in cui la commissione territoriale «non accolga la domanda di protezione internazionale e ricorrano i presupposti di cui all’articolo 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno (biennale) che reca la dicitura “protezione speciale”» (c.vo aggiunto). Come riportato dall’art. 32, comma 3, la commissione territoriale rilascia il permesso di soggiorno per protezione speciale se non sussistono i presupposti della protezione internazionale, ma ricorrono i requisiti previsti dall’art. 19, commi 1 e 1.1, del Testo unico immigrazione, e cioè:
• qualora, in caso di rientro, lo straniero possa essere perseguitato per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali;
• qualora lo straniero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione;
• qualora esistano fondati motivi di ritenere di essere sottoposti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti;
• qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblica.
Risulta evidente, da quanto sinteticamente esposto in questa riflessione, che le conseguenze sulla salute delle violenze subite sia nei Paesi di origine che nei Paesi di transito possono interferire con il percorso di integrazione (ad esempio, ritardando l’apprendimento della lingua o di un corso professionalizzante) e di effettivo inserimento sociale e lavorativo in Italia, oltreché sulla possibilità di creare o mantenere una vita privata o familiare. Pertanto, nel processo di valutazione del diritto alla protezione speciale, si sollecitano le autorità competenti ad analizzare caso per caso le condizioni di salute che possono aver ostacolato la possibilità di inserimento e integrazione dei richiedenti protezione, e/o interferito con la capacità di costruirsi una vita sociale e familiare, così da garantire a pieno il diritto di protezione.
Lascio a Italo Calvino le conclusioni:
«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»[24].
1. M. Friedman e J. Jaranson, The applicability of the posttraumatic stress disorder concept to refugees, in A.J. Marsella - T. Bornemann - S. Ekblad - J. Orley (a cura di), Amidst peril and pain. The mental health and well-being of the world’s refugees, American Psychological Association, Washington DC, 1994, pp. 207-227.
2. Vds. Z. Steel - T. Chey - D. Silove - C. Marnane - R.A. Bryant - M. van Ommeren, Association of torture and other potentially traumatic events with mental health outcomes among populations exposed to mass conflict and displacement: a systematic review and meta-analysis, in JAMA, vol. 302, n. 5/2009, pp. 537-549; J. Lindert - O.S. von Ehrenstein - S. Priebe - A. Mielck - E. Brähler, Depression and anxiety in labor migrants and refugees – A systematic review and meta-analysis, in Social Science and Medicine, vol. 69, n. 2/2009, pp. 246-257; W.E. Copeland - G. Keeler - A. Angold - E. Jane Costello, Traumatic Events and Posttraumatic Stress in Childhood, in Archives of General Psychiatry, vol. 64, n. 5/2007, pp. 577-584; D. Bhugra, Migration and mental health, in Acta Psychiatrica Scandinavica, vol. 109, n. 4/2004, pp. 243-258; S. Priebe - D. Giacco - R. El-Nagib, Public Health Aspects of Mental Health Among Migrants and Refugees: A Review of the Evidence on Mental Health Care for Refugees, Asylum Seekers and Irregular Migrants in the WHO European Region, Health Evidence Network Synthesis Report n. 47, OMS – Ufficio regionale per l’Europa, Copenhagen, 2016 (www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK391045/); J. Dapunt - U. Kluge - A. Heinz, Risk of psychosis in refugees: a literature review, in Translational Psychiatry, vol. 7, n. 6/2017, p. 1149.
3. Det. reg. 22 luglio 2015, n. G09086.
4. Vds. H. Minas - M. Stankovska - S. Ziguras, Working with interpreters: guidelines for mental health professionals, Victorian Transcultural Psychiatry Unit, Victoria (Australia), 2001 (www.vtpu.org.au).
5. Vds. P. Bollini e H. Siem, No real progress towards equity: Health of migrants and ethnic minorities on the eve of the year 2000, in Social Science and Medicine, vol. 41, n. 6/1995, pp. 819–828.
6. British Medical Association, Asylum seekers: meeting their health care needs, BMA Publications Unit, Londra, 2002.
7. P. Vostanis, Meeting of the mental health needs of refugees and asylum seekers, in British Journal of Psychiatry, vol. 204, n. 3/2014, pp. 176-177.
8. Ivi.
9. A. Jablensky - A.J. Marsella - S. Ekblad - B. Jansson - L. Levi - T. Bornemann, Refugee mental health and well-being, in A.J. Marsella - T. Bornemann - S. Ekblad - J. Orley (a cura di), Amidst peril and pain, op. cit., pp. 327-339.
10. Vds. D. Silove - Z. Steel - P. McGorry - P. Mohan, Trauma exposure, postmigration stressors, and symptoms of anxiety, depression and post-traumatic stress in Tamil asylum-seekers: comparison with refugees and immigrants, in Acta Psychiatrica Scandinavica, vol. 97, n. 3/1998, pp. 175-181; K.C. Koenen - R. Harley - M.J. Lyons - J. Wolfe - J.C. Simpson - J. Goldberg - S.A. Eisen - M. Tsuang, A twin registry study of familial and individual risk factors for trauma exposure and posttraumatic stress disorder, in Journal of Nervous and Mental Disease, vol. 190, n. 4/2002, pp. 209-218.
11. Vds. J. Lindert - O.S. von Ehrenstein - S. Priebe - A. Mielck - E. Brähler, Depression and anxiety, op. cit.
12. M. Fazel - J. Wheeler - J. Danesh, Prevalence of serious mental disorder in 7000 refugees resettled in western countries: a sistematic review, in Lancet, vol. 365, n. 9467, 9 aprile 2005, pp. 1309-1314.
13. Cfr. Z. Steel et al., Association of torture, op. cit.; H. Johnson e A. Thompson, The development and maintenance of post-traumatic stress disorder (PTSD) in civilian adult survivors of war trauma and torture: A review, in Clinical Psychology Review, vol. 28, n. 1/2008, pp. 36-47; W.E. Copeland - G. Keeler - A. Angold - E. Jane Costello, Traumatic Events, op. cit.
14. Vds. Z. Steel et al., Association of torture, op. cit.; Z. Steel - D. Silove - R. Brooks - S. Momartin - B. Alzuhairi - I. Susljik, Impact of immigration detention and temporary protection on the mental health of refugees, in British Journal of Psychiatry, vol. 188, n. 1/2006, pp. 58-64; S. Momartin - Z. Steel - M. Coello - J. Aroche - D.M. Silove, A comparison of the mental health of refugees with temporary versus permanent protection visas, in Medical Journal of Australia, vol. 185, n. 7/2006, pp. 357-361.
15. D. Bhugra - S. Gupta - K. Bhui - T. Craig - N. Dogra - J.D. Ingleby - J. Kirkbride - D. Moussaoui - J. Nazroo - A. Qureshi - T. Stompe - R. Tribe, WPA guidance on mental health and mental health care in migrants, in World Psychiatry, vol 10, n. 1/2011, pp. 2-10; C.J. Laban - H.B. Gernaat - I.H. Komproe - B.A. Schreuders - J.T. De Jong, Impact of a long asylum procedure on the prevalence of psychiatric disorders in Iraqi asylum seekers in the Netherlands, in Journal of Nervous and Mental Disease, vol. 192, n. 2004 pp. 843-851; M. Porter e N. Haslam, Predisplacement and postdisplacement factors associated with mental health of refugees and internally displaced persons, in JAMA, vol. 294, n. 5/2005, pp.602-612.
16. E. Cantor-Graae e J.-P. Selten, Schizophrenia and migration: a meta-analysis and review, in American Journal of Psychiatry, vol. 162, n. 1/2005, pp. 12-24.
17. Vds. A.B. Adeponle - B.D. Thombs - D. Groleau - E. Jarvis - L.J. Kirmayer, Using the cultural formulation to resolve uncertainty in diagnoses of psychosis among ethnoculturally diverse patients, in Psychiatric Services, vol. 63, n. 2/2012, pp. 147-153.
18. Vds. H. Minas - M. Stankovska - S. Ziguras, Working with interpreters, op. cit.
19. Ivi.
20. Vds. Z. Steel et al., Association of torture, op. cit.; H. Johnson e A. Thompson, The development and maintenance of post-traumatic stress disorder (PTSD) in civilian adult survivors of war trauma and torture: A review, in Clinical Psychology Review, vol. 28, n. 1/2008, pp. 36-47; W.E. Copeland - G. Keeler - A. Angold - E. Jane Costello, Traumatic Events, op. cit.
21. Vds. M.J. Dorahy - C. Shannon - L. Seagar - M. Corr - K. Stewart - D. Hanna - C. Mullholland - W. Middleton, Auditory hallucinations in dissociative identity disorder and schizophrenia with and without a childhood trauma history: similarities and differences, in Journal of Nervous and Mental Disease, vol. 197, n. 12/2009, pp. 892-898.
22. Vds. A. Gonzalez, Disturbi dissociativi. Diagnosi e trattamento, Fioriti, Roma, 2016; O. van der Hart. - E.R.S. Nijenhuis - K. Steele, The Haunted Self: Structural Dissociation and the Treatment of Chronic Traumatization, Norton, New York, 2006.
23. Vds. P. Frewen e R. Lanius, Healing the Traumatized Self: Consciousness, Neuroscience, Treatment, Norton, New York, 2015.
24. I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972, p. 82.