Conoscere il terrorismo Jihadista. Strumenti e tecniche di indagine
Mundane analysis. May God have mercy on you [1]
Ayman al-Zawahiri
La minaccia del terrorismo jihadista si è trasformata sensibilmente negli ultimi anni e pone quindi sfide in parte nuove. Conoscere l’oggetto delle indagini è necessario per diverse ragioni. Innanzitutto solo questa approfondita conoscenza consente di adeguare gli strumenti e le tecniche investigative alle esigenze specifiche. Questo vale per ogni indagine ma è ancora più importante quando il singolo fatto-reato è inserito in una catena di eventi, in un contesto storico-politico che ne fornisce la chiave interpretativa. Quando poi, come nel caso del terrorismo, la risposta giudiziaria è solo una parte del complesso delle misure di contrasto, tra le quali anche politiche mirate ad eradicarne le ragioni profonde, conoscere e comprendere diviene addirittura vitale.
Si pensi a quanto abbia inciso, nel contrasto del terrorismo che abbiamo vissuto negli anni ’60 e ’70, la difficoltà iniziale di riconoscere i reali contesti di operatività delle diverse modalità di manifestazione di un fenomeno complesso, tanto a sinistra quanto a destra. Lo strumento concettuale (“l’arcipelago”) che consentì di penetrare l’unicità, costruita intorno ai Nar e ad altre struttura similari, delle sigle sparse che rivendicavano gli attentati di estrema destra, nacque dalla comprensione del mutamento intervenuto tra i giovani fascisti, che tendevano a rifiutare l’esperienza dei «vecchi arnesi del neofascismo» perché compromessa con apparati dello Stato. Nella giovane destra, il passaggio dal fiancheggiamento delle politiche di conservazione alla lotta contro lo Stato richiedeva un approccio investigativo e di politiche di contrasto certamente diverso[2]. Non dissimile fu l’esperienza nell’area della sinistra eversiva, quando gli strumenti concettuali elaborati nell’investigazione sulle prime formazioni storiche, strutturate rigidamente, resero non facile adattare quegli stessi strumenti e le logiche di indagine ai fenomeni nuovi della seconda metà degli anni ’70.
Ancora più significativa fu la svolta politica, derivante dalla conoscenza, che consentì di abbandonare la teorizzazione del terrorismo di sinistra come provocazione, comprendendosene le profonde radici in un’area non marginale della sinistra italiana. Si poté così finalmente parlare di eversione e di terrorismo di sinistra e non semplicemente di “cosiddetta sinistra”. Non furono più le sedicenti Brigate Rosse, ma le Brigate Rosse, senz’altra specificazione. La depurazione dalle incrostazioni derivanti dalle esperienze del passato (utilizzo dei provocatori, sigle anarchiche ecc.) consentì di affrontare di petto l’humus culturale nel quale le formazioni eversive avevano potuto nascere e prosperare. Guido Rossa fu l’emblema di questo mutamento decisivo.
Perdonerete la schematicità di questa sintesi. Essa però è indispensabile per cercare di evitare equivoci in un terreno minato. Il terrorismo Jihadista è estremamente difficile da conoscere. Certo, conosciamo bene le rivendicazioni, il materiale di propaganda, le dichiarazioni processuali, le letture che ne danno studiosi attenti e preparati di molti Paesi; tutto ciò è molto utile e costituisce la base sulla quale si sono affinati gli strumenti di indagine e l’apparato punitivo di cui oggi disponiamo, con gli ottimi risultati di indagine sin qui raggiunti. Dico subito che le norme incriminatrici e quelle che fondano l’utilizzo degli strumenti processuali mi sembrano oggi già molto efficaci; non è dunque nella direzione di un’anticipazione della sanzione penale che intendo dirigermi né – tantomeno – della rinuncia alle garanzie del processo.
Una digressione importante, a questo punto, si impone. La magistratura italiana e le strutture investigative che da essa dipendono hanno maturato negli anni di un lungo contrasto del terrorismo interno e di quello internazionale, operante nel Paese, la consapevolezza della necessità di rispetto delle garanzie fondamentali della persona come precondizione anche dell’efficacia dell’intervento repressivo. Se vi sono state pressioni dell’opinione pubblica, a volte recepite dal legislatore, perché si abbandonasse la strada diritta delle garanzie, è stata l’interpretazione attenta dei pubblici ministeri prima e dei giudici poi a costituire un baluardo, che ha svuotato di reale offensività anche quei conati di legislazione d’emergenza.
Abbiamo tutti, magistrati impegnati su questo terreno e forze di polizia, ben chiari i limiti che la Costituzione ci pone e siamo ben attrezzati a respingere, già nelle nostre coscienze, qualunque approccio di diritto penale del nemico o di coinvolgimento del giudice nella “lotta” ai fenomeni. Quando la deriva portò verso l’uso della tortura per scoprire la «bomba ticchettante» (il sequestro Dozier, ad esempio), non vi fu incertezza nel perseguire quelle condotte. È sempre bene ricordarcelo – repetita juvant - ma a volte, perdonatemi la franchezza, è difficile non percepire una qualche supponenza in chi ripete un mantra senza cercare di capire le difficoltà che pongono sfide sempre nuove. Per questa ragione apprezzo, invece, lo sforzo di chi, come Massimo Donini, cerca di sostituire alla lezione, la comprensione e il contributo costruttivo.
Dunque, non si tratta di anticipare ancora la soglia delle condotte punibili. Lo strumentario è già adeguato ed anzi va interpretato con cura alla luce di quei principi appena ricordati. Del resto la Corte di cassazione si dimostra assai attenta e costituisce per tutti noi una guida insostituibile. Neppure si tratta di immaginare nuovi strumenti investigativi. Anche questi sono adeguati. Saranno necessarie probabilmente alcune integrazioni cui accennerò tra breve e bisognerà meglio tarare i rapporti tra repressione e raccolta di dati provenienti dalla intelligence. Ma nulla che stravolga l’approccio che abbiamo seguito sin qui, con risultati così positivi.
Conoscere i fondamenti ideali delle organizzazioni terroristiche è indispensabile innanzitutto per una corretta applicazione delle norme. Si eviterà così da un lato di estendere oltre il dovuto e il necessario l’area della investigazione, spingendo settori di mero antagonismo verso scelte più radicali; dall’altro lato si cercherà di colpire condotte particolarmente offensive, per il contesto in cui esse effettivamente si inseriscono, e che invece possono apparire meno significative se quel contesto non si comprende.
Un esempio può aiutare a spiegarmi; mi limito qui ad accennarlo ma ci tornerò tra breve, dopo aver posto i riferimenti essenziali per la sua piena comprensione: la valenza penale dell’accusa di apostasia proveniente da soggetto qualificato ad emetterla, ripresa da altri soggetti in forme tali da rafforzarne il carattere imperativo per il credente, che segua una ormai diffusa corrente di adesione all’Islam e che riconosca l’autorità di colui che ha emesso la dichiarazione d’accusa.
La comprensione profonda delle radici del fenomeno è ancora più importante se si considera che l’uso del metodo terrorismo è in sé in grado di condizionare fortemente le scelte individuali e collettive; da questo il terrorismo trae il suo nome e la sua forza. Si pensi a come la mera prospettazione, sin qui priva di supporto nei fatti e dunque falsa, di un legame tra migranti e terrorismo abbia contribuito a legittimare scelte politiche gravissime per l’idea stessa di Europa, fino a mettere in discussione il pilastro della libera circolazione delle persone nei suoi confini, per comprendere quanto la possibile successione di gravi attentati possa incidere sulle libertà di noi tutti.
Quando poi esso è collegato a opzioni religiose, come tali non negoziabili, la potenzialità distruttiva di un modo di concepire la società e di vivere è moltiplicata. Questo pericolo è tanto più grande ove si consideri la “alterità” del terrorista Jihadista rispetto alla comunità in cui colpisce. Paesi come la Francia, dove da generazioni vivono milioni di musulmani, molti dei quali ben integrati, hanno ciò nonostante patito gravemente questa percezione di alterità, tanto da richiedere continue dichiarazioni politiche di rassicurazione identitaria. L’Italia è molto più indietro, per ragioni storiche e culturali. Non conosciamo nulla del nostro vicino, se non qualche luogo comune sul velo, il ramadan, il muezzin e così via; e quello che conosciamo non sempre è apprezzato e compreso da chi vive a stretto contatto con una comunità non ancora integrata e per la cui integrazione ben poco facciamo.
Pensiamo allora a quanto grave potrebbe essere l’identificazione del terrorista con un gruppo etnico o religioso. Questo sì potrebbe far saltare qualunque argine verso il “diritto penale” (e non solo penale) “del nemico”. È questo il grave pericolo che dobbiamo affrontare. Se si dovessero verificare nel nostro Paese attentati ripetuti e gravi, saremmo attrezzati a rispondere con il coraggio e la saldezza che la sfida richiederebbe oppure le nostre dighe sarebbero sommerse?
Per rispondere a questa domanda non basta la facile via del rifiuto di affrontare il problema, ricorrendo al discorso politicamente corretto: l’Islam ripudia il terrorismo; non sono veramente musulmani; il terrorismo cd. islamico e via dicendo. Certo, questa narrazione politica è oggi indispensabile per evitare una possibile, deleteria identificazione ma non certo sufficiente e anzi essa comporta seri rischi. Non diversamente da come la vera svolta si è avuta quando le Brigate sono divenute Rosse e non cd. Rosse e si è parlato di eversione “di sinistra” e non di provocatori al soldo delle forze della reazione.
Conoscere non è però facile. Nella nostra passata esperienza il terrorista era l’amico della porta accanto, il compagno di scuola, a volte un parente. Il suo linguaggio non era diverso dal mio. La sua radice ideale affondava nel medesimo humus nel quale io ero cresciuto, potevo comprenderne e criticarne ogni riferimento ideale. Non è così per il terrorista Jihadista. Questi parla una lingua diversa e per me incomprensibile e soprattutto ha riferimenti, anche se tradotti in italiano, che non riesco neppure ad avvicinare, non dico a comprendere! È l’altro. Questa, ci piaccia o no, è una realtà. L’alterità del terrorista che fa riferimento all’Islam è la sfida più grande alla nostra democrazia, la vera e profonda differenza rispetto al passato. Questa differenza è ciò che ci può rendere facile dimenticare che le sue garanzie sono in realtà le nostre e che con il riconoscergliele non gli si fa un regalo ma in realtà si tutela l’essenza della nostra civiltà, come è venuta a maturate dal ‘700 in poi.
Massimo Donini ha espresso questa preoccupazione già nel 2006 con parole di assoluta chiarezza: «Il concetto di diritto penale del nemico sembra ritagliato sul terrorista islamico: un tipo d’autore incoercibile al dialogo, insuscettibile di accettare lo Stato di diritto e i diritti fondamentali quale base di riconoscimento reciproco dell’ordinamento e della società civile»[3].
Donini non ha voluto dire che questa caratterizzazione legittimi che il terrorista “altro” sia trattato diversamente, in una logica amico/nemico. Al contrario, ci vuole avvertire del pericolo insito nel dato di fatto costituito dall’alterità, per la facilità che su di essa possa essere costruita una deviazione dai principi costituzionali. Non va dunque messo tra i cattivi, tra i seguaci di Carl Schmitt, ma tra coloro che vogliono comprendere.
Pericolo tanto più grande se si considera la trasformazione che si è andata verificando nel fronte del terrorismo internazionale. Di questi aspetti parlavo già in scritti del 2006[4] e del 2007[5], che devo qui ricordare visto che vi sono espresse (spero con chiarezza) le opzioni di ripudio della war on terror e dell’approccio preventivo che rifiuta la giurisdizione, con una rivendicazione orgogliosa del nostro lavoro che ha saputo unire garanzie ed efficacia di azione.
Non è facile sintetizzare le caratteristiche, in parte del tutto nuove e in parte già esistenti, delle recenti manifestazioni del terrorismo islamico; esse vanno riconsiderate nel contesto della più generale trasformazione. Darò quindi per scontate alcune premesse, che forse non lo sono. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare.
La principale novità è costituita dalla fondazione territoriale di alcune organizzazioni, che rivendicano l’inizio della costruzione di un nuovo Califfato. Ritorneremo sul punto. Ciò che qui importa è che questa fondazione non ha nulla a che vedere con rivendicazioni etniche o nazionali. Nulla a che vedere con la volontà di avere una propria terra, dove far crescere le radici di un popolo, identificato per tradizioni, costumi, lingua, religione. Tutto ciò è dietro le spalle, almeno nella percezione di sé che hanno alcune organizzazioni terroristiche e i loro militanti. Anzi, il rifiuto dell’Islam basato sulla consuetudine, sull’adattamento dei precetti alle situazioni locali, etniche, storiche, è parte integrante e fondamentale dell’ideologia jihadista[6]. Questa impostazione ha una chiara radice anticolonialista, nel rifiuto della costruzione di confini tracciati con la squadra sulle carte geografiche (si veda il gesto simbolico dell’abbattimento del confine Siria-Iraq da parte di ISIS). Essa ha però una molto più profonda radice nel carattere tendenzialmente universale della comunità musulmana, che – almeno nella sua visione millenaristica – non ha confini se non quelli definiti dalla effettiva presenza della comunità stessa. Il Califfato è espressione politica di questa concezione. Non è un’arma propagandistica e non è una ridicola sceneggiata. È un richiamo a un messaggio politico-religioso ben presente alla comunità musulmana, i cui saggi non hanno mai smesso di studiare e di farne oggetto di polemiche interne, spesso feroci, con gravi conseguenze per chi ha ne ha messo in dubbio la riferibilità al messaggio del Profeta[7].
Il fatto che non vi sia più una diretta connessione con una singola zona di conflitto (ad esempio, in passato, l’Afghanistan, la Cecenia, la Serbia ecc.) ha enfatizzato e reso del tutto diversa sul piano qualitativo la caratteristica già esistente della internazionalizzazione del reclutamento.
Ciò determina l’ulteriore effetto della autonomia della motivazione politico-religiosa, rispetto ad altri aspetti, che pure restano fondamentali nelle motivazioni collettive e individuali.
Nella Jihad universale si intrecciano anticolonialismo, disillusione politica, radicalizzazione religiosa, in una miscela nella quale le predicazioni salafite radicali ridefiniscono le frontiere del bene e del male e rendono lecito e moralmente doveroso l’assassinio del miscredente.
Ha scritto Gilles Kepel che le rivolte parigine nelle banlieue cristallizzarono una nuova consapevolezza nella terza generazione politica di giovani musulmani francesi, che hanno iniziato a divenire sensibili al richiamo del fondamentalismo in un modo in cui le precedenti generazioni non erano mai state. Benché in linguaggio, educazione e cultura pop fossero altamente integrati, essi erano avulsi dalle politiche domestiche e si identificarono sempre più con le condizioni, reali e immaginarie, del mondo musulmano[8].
In altre parole, non è che gli aspetti relativi alle radici sociali e politiche in senso stretto dell’adesione alla scelta estrema siano irrilevanti. Al contrario, esse rimangono di grande importanza. Quelle radici però si vestono di una più generale ideologia, in grado di reclutare soggetti con le più diverse motivazioni personali, fornendo una solida cornice «narrativa». È questa caratteristica che costituisce l’elemento differenziale che occorre comprendere. Non è che i giovani della banlieue parigina abbiano semplicemente cambiato veste: non indossano più l’eskimo o le Timberland ma la lunga tunica di cotone[9]. Il messaggio del ritorno alla purezza dell’Islam delle origini, come antidoto alla mancanza di valori del mondo moderno, ha una forte attrattiva sia su coloro che si sentono – e sono – emarginati, sia su chi emarginato non è affatto.
Le motivazioni di ordine sociale e politico sono quindi molto importanti e devono essere sempre tenute presenti. Ad esempio, finché il vicino oriente resterà una polveriera a causa della irrisolta questione palestinese vi sarà sempre spazio per la violenza e per il ricorso all’arma tipica del conflitto asimmetrico. Ma anche a proposito della Palestina non può non vedersi il minor peso che essa gioca, a causa del carattere non meramente religioso di quel conflitto, che non a caso vide i primi attentati suicidi in un contesto “laico”, molto diverso dall’attuale. Lo stesso vale per Siria, Iraq, Libia ecc.
Non vi è dubbio che affrontare le radici sociali e politiche dei conflitti resta la priorità. Occorre però cogliere al contempo ciò che fa la diversità e che richiede un approccio specifico e meditato.
Questo elemento differenziale è il ruolo molto più marcato e autonomo del messaggio religioso, inteso come richiamo all’attuazione della società islamica ideale, nella lettura ormai consolidatasi in larghe parti della comunità musulmana e che non consente distinzione tra religione e politica, tra scelte morali e obblighi di condotta di vita, sanzionati dalla forza o dello Stato o dei correligionari. Se coloro che passano all’azione sono un’infima minoranza, essi sono il frutto di un più vasto movimento salafita, la cui reale diffusione ci è forse ignota.
La centralità del messaggio religioso è ben nota da tempo. Armando Spataro ha scritto pagine di grande interesse, già nel 2008, leggendo gli atti processuali, dalle rivendicazioni alle intercettazioni ai contributi collaborativi[10].
È imperativo conoscere a fondo questi aspetti del richiamo delle organizzazioni terroristiche oggi più attive. Non è facile. Nessuno può mettere in dubbio la straordinaria ricchezza nei secoli della cultura e della storia dell’Islam, così come la sua tolleranza delle minoranze, almeno fino a che è stato possibile che il rapporto religioso fosse mediato esclusivamente dalla comunità e non fosse ancora divenuto un aspetto della libertà individuale. Basta leggere lo splendido romanzo Viaggio alla fine del Millennio di Abraham Yehoshua per immergersi nella grande civiltà musulmana del Maghreb dell’anno mille, mentre l’Europa era ancora nell’oscurità. Questo però non ci dice molto sull’evoluzione degli ultimi duecento anni. Le assai poco sostenibili affermazioni sul carattere di religione pacifica dell’Islam possono essere utili per evitare la criminalizzazione di un’intera comunità e per consentire di mantenere aperto il dialogo con l’area (molto larga tra i fedeli e più ristretta nelle fasce dirigenti) dell’Islam politicamente moderato ma ci dicono ben poco sulla lettura attualmente dominante delle Scritture. Non aiutano nemmeno i confronti tra religioni, con accuse reciproche di efferatezze passate. Occorre conoscere invece approfonditamente quanto è avvenuto in questi anni nel mondo islamico, con le sue straordinarie diversità interne. Tutti noi usiamo con leggerezza termini di cui conosciamo poco il significato reale, limitandoci a qualche superficiale distinzione. Chi non ha letto o detto che la Jihad è innanzitutto lotta morale? Può bastare questo approccio per risolvere il problema della prevalente diffusione di una interpretazione del tutto opposta?
Il fondamento millenaristico della ideologia terroristica si lega profondamente a correnti di pensiero fortemente presenti nella élite islamica, cui è demandata la lettura e la “interpretazione” del messaggio coranico. È questo legame che occorre comprendere e cercare di contrastare, per evitare che continui la marginalizzazione dell’Islam politico moderato.
Ho imbarazzo ad affrontare questi argomenti. Mi rendo conto della mia ignoranza e della inadeguatezza di un tentativo individuale. Attualmente questo confronto è relegato, per lo più, nelle sedi del confronto interreligioso. Occorre un intellettuale collettivo, come si diceva una volta, composto da specialisti di diverse discipline. Occorre che essi non siano legati dalla necessità del discorso politicamente corretto, ma che vi siano sedi dove ci si possa confrontare con franchezza per capire i veri limiti attuali, anche dell’Islam politicamente moderato, e come questi limiti operino negativamente nel rapporto con un Islam tutt’altro che moderato, che a me sembra oggi maggioritario. Lo è certamente fuori dei Paesi occidentali ma non so quanto esso pesi davvero all’interno delle nostre stesse realtà, dove per decenni si è diffusa – incontrastata – la predicazione revivalista, con il sostegno finanziario dei Paesi arabi che su quella impostazione hanno costruito il loro potere interno e la loro rivendicazione di supremazia nell’Islam sunnita. Occorre studiare a fondo le esperienze dei Paesi europei, come la Francia e la Gran Bretagna, che hanno dovuto affrontare questi problemi da decenni.
Quando parliamo di Islam politico moderato dobbiamo sapere di cosa parliamo, perché solo questa consapevolezza ci può spingere a batterci con ogni mezzo per la tutela della libertà di espressione, nelle manifestazioni del pensiero e in quelle – non meno importanti – di vestirsi e di agire. In questo momento l’Islam moderato non è libero di esprimersi. Esso è sottoposto a una costante, gravissima minaccia. In ogni momento l’accusa di apostasia può venire rivolta a un esponente della comunità musulmana da uno qualunque dei molti soggetti legittimati ad emettere un’accusa così grave, che comporta la condanna a morte, eseguibile da ogni fedele che riconosca quell’autorità. Non si tratta di una minaccia campata in aria, desueta. Essa può essere resa esecutiva dallo Stato, se non agiscono rimedi di vario genere che alcuni Paesi hanno posto in essere per aggirare il dovere di attuazione di un comandamento, o – molto più spesso – da seguaci di chi ha emesso il verdetto, che raramente saranno per questo perseguiti.
Muhammad Shakil Auj uno dei massimi esperti di Studi islamici (cioè della millenaria tradizione di studi sui testi sacri e sui loro commenti), decano dell’Università di Karachi, traduttore e commentatore dei testi, esperto giurisperito, neppure tanto moderato, fu assassinato il 18 settembre 2014, pochi giorni dopo l’omicidio di una sua collaboratrice. Auj era stato accusato da altri studiosi della stessa università di apostasia per avere preso parte a un convegno negli Stati Uniti, nel corso del quale aveva espresso opinioni ritenute eretiche; un gruppo di religiosi lo aveva quindi dichiarato takfir, per avere messo in pericolo la purezza della fede.
Ma ciò che rende davvero impressionate e utile ai nostri fini questa terribile vicenda è quanto era successo pochi mesi prima. Una giornalista della The Express Tribune, Faiza Rahman, intervistò il dr. Auj sui temi della armonia interreligiosa e tra le sette.
«Pace inter-religiosa?» egli rise. «Beta, la fai troppo semplice!» disse, in maniera tuttavia gentile. «Sai cosa succede quando si prova a cambiare le cose qui? Questa non è una ‘rivalità accademica’ tra qualche professore dello stesso dipartimento. Queste sono questioni di fede. Queste sono questioni di vita o di morte»[11].
Le questioni di fede sono questioni di vita o di morte.
Sono moltissimi coloro che sono stati uccisi in questi anni per avere sostenuto interpretazioni delle Scritture ritenute eretiche. Recentemente la Tunisia è stata scioccata dall’assassinio di un avvocato liberale, eminente uomo politico, patrono dei diritti di espressione, considerato colpevole di aver difeso i responsabili di una rete televisiva che aveva trasmesso Persepolis.
È per questo che la Costituzione tunisina, una delle poche del mondo islamico che non pone la Sharia come grundnorm non emendabile nemmeno dalla Costituzione stessa, all’art. 6 vieta e punisce la dichiarazione di eresia, blasfemia, apostasia (Takfir) e l’incitamento alla violenza e all’odio.
Perseguire con determinazione questo crimine è dunque imperativo per consentire all’Islam moderato di esprimersi liberamente. Già alcune decisioni di pubblici ministeri e giudici italiani hanno utilizzato la previsione dell’art. 414 cp, così dimostrando una buona percezione della rispondenza della norma alle previsioni costituzionali e ai limiti indicati dalla Corte di cassazione nell’interpretazione delle condotte di apologia e istigazione. Solo comprendendo davvero cosa significhi l’accusa di eresia e la conseguente condanna a morte potrà un domani perseguirsi colui che avrà emesso questa «decisione giuridico-religiosa, vincolante per il credente» (uso con fastidio il termine Fatwa, per le ragioni che ho esposto) e colui che l’avrà diffusa con modalità tali da poter rafforzare il proposito di un esecutore.
Liberare l’Islam politico moderato dai lacci della paura consentirà forse anche di affrontare i temi di fondo della separazione tra religione e sfera politica, della possibilità stessa di un rapporto religioso che non sia mediato dalla comunità e che sia pertanto libero. A leggere molta della letteratura dell’Islam moderato colpisce la necessità (certamente indotta da fattori non eliminabili perché radicati nella inscindibile unità attuale di religione e comandamenti di vita pratica, ma anche dalla preoccupazione di affrontare accuse di apostasia) di riferirsi, ancora oggi, al dibattito del VII secolo come se esso fosse attuale e come se la sola vera legittimazione dei diritti dell’uomo e della donna dovesse trovarsi in qualche verso del Corano o qualche detto della Sunna.
Credo che debba interessarci poco se l’obbligo del velo sia imposto da fonti originarie, e come tali non rinunciabili dal fedele, o siano costruzione interpretativa superabile. A me interessa che sia chiaro che non è tollerabile il disprezzo per il corpo della donna e che non è tollerabile l’imposizione di un modo di vestire. È una sopraffazione che solo una scarsa conoscenza dell’Islam, ad essere teneri, può far sottovalutare. Si può essere d’accordo o meno sulle scelte di politica, anche di proibizione, ma solo per una valutazione di opportunità e di costi/benefici. Non può invece, a mio parere, essere messa in discussione la necessità di azioni positive volte ad affermare la parità dei diritti e l’effettiva libertà di vestirsi come si vuole. Se qualcuno pensa che la scelta del velo sia libera per la donna islamica o se qualcuno pensa di poterla paragonare all’imposizione sociale delle comunità meridionali di qualche anno fa, dovrebbe fare un giro nei Paesi – ormai troppi – nei quali non portare il velo espone alle stimmate sociali, alla violenza domestica, alla bastonatura per strada ad opera della “polizia morale”. Ho lavorato in Iran per conto delle Nazioni unite e ne ho esperienza diretta. Manifestare per la libertà del velo è senza senso. Se davvero si vuole manifestare per questa libertà non si deve organizzare una manifestazione, come invece si è fatto, in cui tutte le donne indossano il velo: sarebbe davvero significativo se la manifestazione vedesse le donne musulmane senza velo e quelle di altre religioni con il velo. Occorrerebbe poi, però, garantire la sicurezza, anche domestica, di coloro che hanno scelto di non portare il velo.
Se poi invece vogliamo tornare alla Pace di Augusta, cuius regio, eius religio, in una forma però rovesciata, comunitaria, ebbene dobbiamo essere ben consapevoli di quello che perdiamo, tutti e non solo quelli a cui per quieto vivere neghiamo i diritti fondamentali.
Anche su questo punto occorre essere chiari. 45 Paesi islamici non solo non hanno sottoscritto la Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni unite (1948!) ma nel 1990(!) ne hanno sottoscritta un’altra. La Dichiarazione sui Diritti umani in Islam, adottata al Cairo, prevede discriminazioni di genere e di religione, adotta la Sharia come unica sorgente, prevede quindi pene corporali e punisce l’apostasia. Purtroppo trovo tra i recenti firmatari della risoluzione anche Paesi a maggioranza della popolazione islamica ma che in passato, a causa di regimi autoritari laici, avevano mantenuto la separazione tra religione e Stato, garantendo almeno alcuni diritti essenziali dell’individuo, seppure in un contesto illiberale.
Il problema è però ancora più profondo.
Nel 2006 mi trovavo in Afghanistan per contribuire alla valutazione dei problemi connessi con l’applicazione della nuova Costituzione democratica. Si trattava di una missione di pochi giorni ma ebbi la ventura di trovarmi nel pieno della crisi causata dalla richiesta di condanna a morte di un cittadino afghano, Abdul Rahman, accusato di essersi convertito al Cristianesimo e di aver posseduto una Bibbia. La condanna a morte appariva inevitabile, in quanto l’art. 3 della nuova, democratica Costituzione prevede che «In Afghanistan nessuna legge può essere contraria ai principi e alle disposizioni della sacra religione dell’Islam», mentre l’art. 130 a proposito dei giudizi, anche penali, dispone che «durante i processi, i giudici applicano le disposizioni della presente Costituzione e delle altre leggi. In assenza di una disposizione di legge applicabile al caso specifico, le Corti giudicano sulla base dei principi costituzionali e in conformità con la giurisprudenza hanafita, e comunque nell’intento di servire la giustizia nel miglior modo possibile».
Accompagnai il Capo missione, Ambasciatrice Iolanda Brunetti, ad un incontro con i membri della Corte Suprema nel quale, naturalmente, il discorso scivolò subito sulla delicata questione. Ci fu spiegato che essa non era risolvibile, a meno che l’imputato, detenuto, non avesse ritrattato la conversione. La possibilità della conversione costituisce infatti uno dei mezzi abitualmente utilizzati per non eseguire la condanna, dilazionandola all’infinito: vi è infatti la possibilità del pentimento e della ritrattazione dell’apostasia fino all’ultimo minuto. Rahman non volle ritrattare. Le pressioni internazionali costrinsero però la Corte a trovare l’escamotage di dichiarare l’imputato incapace di intendere e di volere. Rahman fu quindi espulso e ricevette asilo politico in Italia.
Altri cittadini afghani sono stati in seguito detenuti e processati per apostasia.
Occorre considerare che nell’interpretazione più rigorosa (oggi dominante) è apostata non solo chi si converte esplicitamente ma anche chi tiene comportamenti o esprime opinioni che siano in contrasto con la consolidata lettura delle Scritture. Anche solo affermare che il Corano può essere storicamente interpretato può essere considerato apostasia.
Questi aspetti della lettura dell’Islam non sono vicende lontane da noi, che riguardano altre realtà. Essi si traducono invece in quell’intreccio inscindibile che rende così pericolosa la minaccia terroristica.
Pericolosa innanzitutto perché il carattere apocalittico del messaggio e la non negoziabilità della rivendicazione rendono molto concreta la possibilità di attentati di assoluta gravità, anche indipendentemente da specifiche situazioni locali.
L’atomizzazione della rete di contatti, resa possibile anche dal collante ideologico, il reclutamento attraverso forme diverse di avvicinamento alla comunità e di costruzione di identità condivise, la relazione continua tra reclutamento e teatri di conflitti all’estero sono tutti elementi che comportano la necessità di utilizzare strumenti di conoscenza adeguati alla nuova realtà. Rispetto ad altri Paesi europei, la necessità di rapportarsi ad organizzazioni terroristiche e mafiose ha consentito all’Italia di costruire nel tempo una struttura di contrasto (di prevenzione e di repressione) molto ampia e che vede in primo piano la giurisdizione. Ciò rende a volte difficile dialogare con Stati europei che hanno invece scelto una strada diversa, che punta molto sulla raccolta di informazioni al di fuori del diretto controllo giudiziario. È dunque necessario armonizzare queste impostazioni, senza perdere le caratteristiche della nostra, che unisce efficienza e garanzie.
La grande importanza delle informazioni raccolte anche in zone di conflitto rende poi necessario riflettere su come assicurare agli interlocutori la segretezza delle fonti e delle metodologie utilizzate, realizzando un bilanciamento tra questa esigenza e quella repressiva. Anche la prevenzione deve essere condotta nell’assoluta legalità. Essa non è terra di nessuno e incognita: hic sunt leones.
Il settore carcerario va monitorato con attenzione (ed è meritoria l’iniziativa di controllo-integrazione adottata dal Dap), visto che le storie individuali dei terroristi francesi e belgi indicano le prigioni come luogo primario di radicalizzazione religiosa.
Infine, vanno affrontati con determinazione i temi della accessibilità da parte dell’autorità giudiziaria alle forme di comunicazione che attualmente presentano invece gravi problemi, anche di sovranità nazionale.
Ciò che più conta è che è necessario attrezzarsi per meglio comprendere la profondità della sfida e per avviare la battaglia per la conquista delle coscienze, accompagnando il rifiuto della war on terror e l’adozione di strategie di prevenzione e repressione, all’impegno per un’effettiva integrazione tra culture, che parta dalla individuazione di ciò che oggi la rende difficile, anche a livello ideale. Solo questo impegno complessivo può attrezzarci sin d’ora a respingere politiche di esclusione.
Dovremmo studiare con molta attenzione e con il massimo rispetto quanto è avvenuto in Francia nell’ultima decade. Saremo forse più avanti quanto a capacità investigativa ma certamente non abbiamo ancora affrontato i complessi problemi derivanti da una effettiva integrazione e dunque quanto essi possano essere attaccati dal radicalismo islamico, nella sua attuale versione. Seguiamo G. Kepel, nella sua descrizione degli effetti del cambiamento di strategia (a partire dal 2005, stesso anno dei moti della banlieue, causati dalla morte di due giovani ma soprattutto dalle immagini della Moschea invasa dai fumi dei lacrimogeni) del settore attualmente dominante della Jihad, che privilegia l’offensiva all’interno dei Paesi europei con l’obiettivo di farli implodere, suscitando una guerra civile al loro interno, con uno schema reticolare[12] che attrae i giovani musulmani europei: «È questa integrazione, chiave dell’armonizzazione di una società francese pluralista intorno a una base di valori condivisi, che è minacciata nelle sue fondamenta dall’emergere della Jihad nel suo seno»[13].
L’attuale terrorismo non può essere definito «così detto islamico», non più di quanto le Brigate Rosse potessero esser dette «sedicenti». Capisco molto bene le ottime ragioni che ci portano ad usare una terminologia impropria. Ma dobbiamo essere consapevoli che di questo si tratta. Di una terminologia che cela, per necessità, una complessa rete di relazioni culturali che va invece compresa e disvelata.
[1] Dichiarazione di Ayman al-Zawahiri al sociologo statunitense Saad Eddin Ibrahim, citato in Diego Gambetta e Steffen Hertog, Engineers of Jihad. The Curious Connection between Violent Extremism and Education,Princeton Press 2016. La citazione è tratta dalla recensione di Malise Ruthven su New York Review of Books, 26 febbraio 2016. Il testo della ricerca originaria è accessibile presso il Department of Sociology - University of Oxford, Sociology Working Papers, 10/2007.
[2] Salvo poi scoprirsi, nell’approfondimento delle indagini, un filo rosso che univa soggetti carismatici e organizzazioni del neofascismo storico alle nuove generazioni. L’approfondimento della conoscenza dell’oggetto dell’investigazione portò dunque a disegnare uno scenario molto più complesso di quello che l’apparente contrasto tra nuove e vecchie organizzazioni poteva far immaginare. Su queste vicende si veda V. Borraccetti (a cura di), Eversione di destra, terrorismo, stragi, Quaderni di Questione Giustizia, Franco Angeli, 1986, e l’ancora non superato, per questi aspetti interpretativi, Franco Ferraresi, Minacce alla democrazia. La destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, 1995.
[3] M.Donini, Diritto penale di lotta. Ciò che il dibattito sul diritto penale del nemico non deve limitarsi ad esorcizzare, in Studi Questione Criminale, 2007, 66.
[4] Ciò che non dobbiamo imparare dall’America, Limes, febbraio 2007.
[5] Une alternative à la «guerre contre le terrorisme». L’experience italienne, in Esprit, 2007.
[6] Si veda, sul punto del revivalismo islamico (Islamismo, fondamentalismo, Wahabbismo) e sulla sua opposizione al Customary Islam la ricca introduzione di C. Kurzman a Liberal Islam, citato nella nota 7.
[7] Tra i tantissimi esempi, anche recenti, mi sembra utile citare un eminente studioso di scienza islamica, Abd al Raziq, autore nel 1925 di uno scritto fondamentale sul Califfato, ora tradotto in spagnolo (El Islam y los fundamentos del poder, Universidad de Granada, 2007) e leggibile in estratto in un importante volume, che raccoglie scritti dei più rilevanti esponenti dell’Islam moderato, secondo una selezione interna e dunque non con occhi “occidentali”, a cura e con ampia introduzione di Charles Kurzman, Liberl Islam. A sourcebook, Oxford University Press, 1998. Per avere sostenuto un’interpretazione del Califfato che portava alla separazione tra Stato e religione (Islam, una religione, non uno Stato) fu allontanato dall’Università Al Azhar dove insegnava e accusato di eresia. Cito questo esempio perché mi sembra indicativo della profondità e della vicinanza temporale del dibattito, interno all’Islam, sul Califfato, anche dopo la sua soppressione da parte di Ataturk il 3 marzo 1924.
[8] G. Kepel, citato in Mark Lilla, How the French Face Terror, in NYRB, Marzo-Aprile 2016 (traduzione mia, n.d.a.).
[9] Questa affermazione può sembrare in contrasto con quanto scrive Kepel, al quale molto devo delle mie riflessioni (anche per il suo Fitna. Guerre au coeur de l’Islam, Gallimard 2004), circa la forte carica utopica di un «radioso avvenire» di nuova maniera, che ha portato a sostituire la bandiera rossa con quella bruna autoritaria o con la bandiera verde del Profeta (G. Kepel, Terreur dans l’Hexagone. Genèse du Djihad Francais, Gallimard, 2015,p. 18 ss.). Kepel rende però chiara in seguito la specificità del processo di radicalizzazione religiosa, nel pur complesso scenario politico francese, che vede non solo una profonda integrazione dei musulmani, ma anche il loro ingresso a pieno titolo nel gioco degli schieramenti, essendone divenuti elemento a volte decisivo, fondato anche su scelte valoriali (come a proposito dell’adesione a Manif pour tous, movimento contro i matrimoni omosessuali, con venature omofobiche).
[10] Armando Spataro, Cosa induce tante persone ad abbracciare il terrorismo? Perché si diventa terroristi? Le esperienze di un Pubblico ministero. In Voci contro la barbarie- La battaglia per i diritti umani attraverso i suoi protagonisti, a cura di Antonio Cassese, Feltrinelli (novembre 2008).
[11] Blog di Faiza Rahman, 19 settembre 2014: «I wanted to know if students were schooled in inter-faith harmony in his department. What about inter-sect harmony? Had the syllabus been updated to account for the increasing extremism in today’s world? Is the university aware of the immense responsibility that rests on its shoulders? “Inter-faith peace?” he took some time to laugh. “Beta, you are too simple!” he said, not unkindly. “Do you know what happens when we try to change things here? This isn’t just an ‘academic rivalry’ between a few professors of the same department. These are matters of faith. These are matters of life and death». Traduzione mia (n.d.a.).
[12] Teorizzato da Abu Musab al-Suri, Appello alla resistenza islamica mondiale, gennaio 2005, che – secondo Kepel, op. cit. p.52 – avrebbe avuto un ruolo decisivo nella trasformazione dell’islamismo radicale francese, sostituendo all’attacco al “nemico lontano” e quindi all’organizzazione piramidale di al-Quaida, priva di radici sociali, «un jihadismo di prossimità, secondo un sistema reticolare penetrante alla base, e non più al vertice, le società nemiche da abbattere».
[13] Kepel, op. cit. p. 31. Tutte le traduzioni sono mie (n.d.a.).