La Repubblica francese sconvolta
Nils Muiznieks, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa
1. Il terrorismo: attualità, storia, geopolitica e la sfida a una comunità di valori
1.1. La Francia non è l’unico popolo in lutto
Dopo i sanguinosi attentati del 7, 8 e 9 gennaio 2015, che hanno provocato la morte di diciassette persone, quelli del 13 novembre, con cento trenta vittime, rappresentano il più pesante bilancio di morti nella popolazione civile, sul territorio europeo della Francia, da oltre cinquant’anni. Senza contare i numerosi feriti – oltre trecentocinquanta – e i sopravvissuti, gravemente traumatizzati dai terribili momenti che hanno vissuto. Rendere omaggio alla memoria delle vittime serve a sottolineare che, nella comunità di valori- non solo europea, ma universale – nella quale crediamo, è importante che le vittime, in quanto persone, abbiano il loro giusto riconoscimento. Il terrorismo, che negli anni settanta e ottanta trovava non pochi sostenitori o fiancheggiatori, è oggi diventato tanto più insopportabile nella misura in cui colpisce i civili, vittime per eccellenza.
E non bisogna dimenticare che non siamo soli. Altri popoli e altri Paesi sono in lutto: Belgio[1], Tunisia, Turchia, Burkina Faso e tanti altri ancora. Dobbiamo allora pensare alla situazione francese inserendola in un contesto di solidarietà globale.
La Francia non è il solo Paese interessato dal fenomeno dei foreign fighters, anche se, dopo la Danimarca e il Belgio, sembra essere uno dei Paesi più colpiti: cinque o sei mila europei sarebbero coinvolti, con una significativa presenza in Francia fra i foreign fighters di donne (35% ) e di convertiti (40%).
Si tratta di un fenomeno preoccupante: è, infatti, unanimemente riconosciuto che tutti questi attentati non sono opera di “lupi solitari”[2]. Sostenuti dalle autorità pubbliche in Francia, come in altri Paesi, sono in atto interventi di “deradicalizzazione”, un tema che meriterebbero uno specifico approfondimento, impossibile da svolgere in questa sede.
1.2. Gli atti di terrorismo non sono una novità nella storia del mondo
Contrariamente alla comune opinione, il terrorismo non è il frutto del malessere del nostro tempo, ma appartiene a una storia antica: «La storia mondiale del terrorismo riguarda il mondo nel suo complesso e non fa distinzioni tra continenti, sfere d’influenza culturali o religiose»[3].
Il terrorismo, interno e internazionale, ha avuto origini diverse, nelle quali si trovano tutte le religioni, varie correnti di pensiero, movimenti irredentisti o di resistenza all’oppressione o di conquista dell’indipendenza dai colonizzatori. Alcune organizzazioni terroristiche sono state mitizzate, altre messe all’indice. Alcune sono state sconfitte con la forza o con la repressione, altre hanno accettato di sedersi al tavolo dei negoziati. Senza dimenticare il “terrorismo di Stato”, alla cui origine si trova, in particolare, il “Terrore” della Rivoluzione francese, ripreso dalla Rivoluzione russa, e che si ripropone in molte situazioni di “terrore di Stato” che hanno dominato e ancora dominano nel mondo.
1.3. ... e neppure nella storia della Francia
Ricordando solo gli attentati che hanno segnato la storia francese e, in particolare, gli attentati anarchici della fine del XIX secolo[4] e dell’inizio del XX, dobbiamo constatare che la Francia non è mai stata risparmiata dal terrorismo.
L’attentato con più vittime sul territorio europeo prima dei tragici eventi del 13 novembre è stato quello dell’Oas (Organisation de l’armée secrète) del 18 giugno 1961, che provocò ventiquattro morti e centosettanta feriti. All’epoca ad agire erano francesi, fra i quali alti ufficiali dell’esercito, che tentavano di ostacolare attraverso il terrorismo il cammino dell’Algeria verso l’indipendenza. A partire dal 1974, si contano, tragicamente, circa cento persone uccise in attentati terroristici, oltre a numerosi feriti.
1.4. Un terrorismo diventato globale
Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno dimostrato che dobbiamo far fronte, sempre di più, a un terrorismo globale, che si serve degli strumenti della globalizzazione tecnologica e finanziaria per collegare i terroristi, in gruppo o come singoli, indipendentemente dalla loro collocazione geografica e attraverso l’utilizzo di mezzi di comunicazione sofisticati.
Questa nuova dimensione ha agevolato l’ascesa del terrorismo che si richiama al radicalismo islamico che, allo stato attuale, sarebbe responsabile del maggior numero di vittime[5]. Bisogna, però, evitare di interpretare questa situazione come una manifestazione dello “scontro di civiltà”: ciò significherebbe cadere nella trappola dei terroristi.
1.5. Il riconoscimento di una comunità universale di valori[6]
Il carattere globale del terrorismo ha più che mai rafforzato la volontà di cooperazione livello internazionale. Ma, dopo il fallimento della Società delle Nazioni, l’Onu fatica a imporla in modo compatibile con il rispetto dei diritti fondamentali, come dimostrato dal sistema delle “liste nere”, censurato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea[7].
La “comunità di valori”, fondata sul rispetto dei diritti fondamentali, sembra essere stata tutelata a livello europeo soprattutto attraverso il ruolo svolto dalle giurisdizione, Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte di giustizia dell’Unione europea. Nella sentenza Klass del 6 settembre 1978, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato: «cosciente del pericolo di indebolire, se non di distruggere, la democrazia con il pretesto di difenderla, la Corte afferma che gli Stati non possono adottare qualsiasi misura che essi giudichino appropriata in nome della lotta contro lo spionaggio e il terrorismo».
Ma, come vedremo, l’evoluzione della situazione francese va verso l’allontanamento da tale comunità di valori, come delineata dalla Cedu, o comunque ne causa l’indebolimento.
2. L’attuale situazione francese: dove sono finiti i nostri valori?
2.1. L’arretramento dei valori
La Francia, che sostiene di essere sotto attacco a causa dei valori di libertà che caratterizzano il suo stile di vita e che sono legati ai principi fondamentali della nostra democrazia non è ora in grado, almeno per quanto riguarda la sua classe dirigente, di riaffermarli con forza.
Anche se è in lutto per le sue vittime, la Francia deve essere in grado di costruire una società libera e rispettosa di ciascuno, e di impegnarsi in un cammino di resilienza, senza sottrarsi a un’approfondita analisi della situazione. Dopo il tempo dell’emozione e del raccoglimento, i crimini che hanno avuto un costo così alto in termini di vite umane richiedono risposte all’altezza della loro gravità. Non può mancare un’analisi critica dell’organizzazione dei Servizi antiterrorismo e di tutti i servizi di sicurezza che, nonostante importanti strumenti giuridici a loro disposizione, non hanno evidentemente avuto la giusta percezione della minaccia terroristica che pesava sulla Francia.
Le decisioni del Governo francese, ampiamente sostenute da tutta la classe politica – salvo alcune eccezioni sia all’interno della stessa maggioranza che dell’opposizione – sono particolarmente inquietanti poiché, in violazione dello Stato di diritto, rimettono in discussione i principi fondamentali della legalità repubblicana e occupano la scena politico-mediatica con proposte di misure inutili e pericolose.
E se l’innegabile gravità dei crimini terroristici può giustificare particolari tecniche d’indagine, le stesse devono essere inserite nell’ambito del controllo giurisdizionale, che ne garantisca la necessità, la proporzionalità e, di conseguenza, l’efficacia.
2.2. La retorica della guerra
Le decisioni del Governo sono, inoltre, sostenute dalla retorica della “guerra” contro Daesh. In realtà, «nello Stato di guerra le regole di diritto e, in particolare, i diritti fondamentali vengono gravemente compressi, se non degradati, con il rischio di derive di ogni tipo. Bisogna, quindi, restare vigili: da totale, la guerra potrebbe diventare totalitaria[8]». Peraltro, l’accettazione della logica della “guerra” comporterebbe il riconoscimento dello status di combattenti a individui che devono essere qualificati come delinquenti e il cui comportamento deve essere sanzionato dal diritto penale. Cedere in questo modo alla retorica della guerra equivale a un’ammissione di debolezza di fronte a gruppi criminali ai quali non può essere riconosciuta la “dignità” di belligeranti. È vero che “operazioni di guerra” sono in corso, e dovrebbero essere a loro volta sottoposte a un’approfondita riflessione, ma esse non si svolgono sul nostro territorio e non devono condurre a una generalizzazione a livello globale, che includerebbe anche il territorio nazionale. Farlo vorrebbe dire cadere nella trappola di Daesh.
2.3. La posizione del Syndicat de la Magistrature
Il Syndicat de la Magistrature rifiuta l’accusa di impotenza che viene rivolta, in malafede, allo Stato di diritto e che conduce a calpestare le garanzie che esso comporta. Nel suo ultimo congresso alla fine di novembre 2015, il Syndicat de la Magistrature ha ricordato l’assoluta necessità di lottare contro la criminalità terroristica e di prevenire nuovi attentati, attribuendo mezzi sufficienti agli attori della lotta antiterrorismo e ha insistito sull’importanza del coordinamento tra Servizi di sicurezza, forze di polizia e magistratura per assicurare, nell’ambito dello Stato di diritto, la repressione e la prevenzione dei reati.
2.4. Le critiche diventano sempre più forti, ma restano per ora inascoltate
Accolto favorevolmente nei sondaggi – alle persone intervistate venivano poste delle domande semplicistiche, con possibilità di risposta binarie – quest’approccio è stato, però, progressivamente criticato e rimesso in discussione da una parte significativa della società civile.
Mentre all’inizio si sentiva piuttosto isolato, il Syndicat de la Magistrature ha poi trovato dalla sua parte componenti della società civile più sensibili alla tutela dei diritti fondamentali e pronte, nel rifiuto della semplicistica opposizione tra libertà e sicurezza, a interrogarsi lucidamente sui momenti che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere. Si tratta, infatti, di una realtà complessa che bisogna affrontare riflettendo in maniera seria su alcune questioni che nella sua escalation repressiva il Governo ha accuratamente evitato di affrontare.
Per il momento, però, l’indirizzo politico del Governo resta immutato, nonostante le numerose critiche provenienti, per esempio, dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa o dalle istituzioni che nel nostro sistema democratico hanno il compito di promuovere i diritti umani e la loro effettività, come il Défenseur des droits o la Commission consultative des droits de l’homme. Queste istituzioni rischiano di essere soltanto degli alibi!
I meccanismi di controllo delle leggi sono stati sollecitati grazie all’attivismo della società civile, ma il sindacato che è stato svolto, senza essere del tutto assente, è stato di bassa intensità. Va ricordato che il Primo ministro ha esortato, con successo, i parlamentari a non sottoporre al giudizio del Consiglio costituzionale la legge sullo stato d’emergenza, che è stata poi vagliata soltanto grazie allo strumento del rinvio in via incidentale.
3. Breve presentazione delle misure adottate
3.1. Uno stato d’emergenza che non finisce mai: dalla proclamazione alla costituzionalizzazione, passando per la proroga
3.1.1. Cos’è lo stato d’emergenza?
Introdotto da una legge del 3 aprile 1955[9], quindi prima dell’adozione della Costituzione del 4 ottobre 1958, «lo stato d’emergenza può essere proclamato su tutto o parte del territorio metropolitano o dei dipartimenti d’Oltremare, in caso di pericolo imminente che risulta da gravi minacce all’ordine pubblico, o in caso di eventi che presentano, per la loro natura o la loro gravità, il carattere di pubblica calamità».
Lo stato d’emergenza viene proclamato con decreto adottato dal Consiglio dei ministri e non può essere prorogato oltre i dodici giorni se non per legge.
La proclamazione dello stato d’emergenza conferisce ai Prefetti il potere di vietare la circolazione delle persone o dei veicoli in luoghi o in orari previsti con ordinanza; istituire con ordinanza zone di protezione o di sicurezza all’interno delle quali la permanenza delle persone è sottoposta a una specifica regolamentazione; stabilire il divieto di dimora in tutto o parte del territorio sotto la loro giurisdizione per quei soggetti che tentano di ostacolare, in qualsiasi maniera, l’azione delle pubbliche autorità.
Il Ministro dell’Interno, per tutto il territorio nazionale, e il Prefetto, per il dipartimento di competenza, possono ordinare la chiusura provvisoria delle sale di spettacolo, rivendite di bevande alcoliche e luoghi di riunione di ogni tipo, nonché vietare, in maniera generalizzata o individuale, qualsiasi riunione che possa provocare o alimentare il disordine.
Lo stato d’emergenza conferisce al Ministro dell’Interno il potere di fissare l’obbligo di dimora per determinati soggetti. Il decreto di proclamazione o la legge di proroga possono conferire alle autorità amministrative il potere di ordinare perquisizioni domiciliari di giorno e di notte. Queste ultime disposizioni sono le più problematiche per quanto riguarda il quadro normativo e le potenziali derive che esse comportano.
Per quanto riguarda l’obbligo di dimora disposto, come si è detto, dal Ministro dell’Interno, esso può riguardare qualsiasi persona «nei confronti della quale esistono serie ragioni di ritenere che il suo comportamento costituisca una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico» ( nella precedente versione «la cui attività è pericolosa per la sicurezza e l’ordine pubblico»). La persona interessata può quindi «essere costretta a trovarsi nel luogo d’abitazione indicato dal Ministro dell’Interno e durante la fascia oraria stabilita, nel limite di dodici ore su ventiquattro».
Relativamente alle perquisizione su ordine del Prefetto, il decreto che proclama lo stato d’emergenza o la legge che lo proroga può, con un’espressa disposizione, conferire all’autorità amministrativa il potere di ordinare perquisizioni in qualsiasi luogo, compreso un domicilio, di giorno e di notte, fatta eccezione– secondo quanto aggiunto dalla legge del 20 novembre 2015 – per quelli riservati all’esercizio di un mandato parlamentare o all’attività professionale di avvocati, magistrati o giornalisti, quando esistono fondate ragioni di pensare che questo luogo è frequentato da un soggetto il cui comportamento costituisce una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico.
3.1.2. L’inutilità dello stato d’emergenza
In realtà, lo stato d’emergenza non è mai servito alla repressione del terrorismo. Un’analisi giuridica approfondita[10] dimostra, al contrario, che questo regime d’eccezione ereditato dalla guerra d’Algeria ha come unico effetto l’aumento dell’arbitrio dei poteri pubblici, con il contestuale indebolimento della capacità dei Servizi di sicurezza di individuare e di prevenire i progetti di attentato. È irragionevole e inefficace impegnare così tanti mezzi nella sorveglianza generalizzata della popolazione. I modesti risultati ottenuti ne sono la migliore prova: su circa 3.300 perquisizioni amministrative, solo in sei casi gli atti sono stati trasmessi alla Procura antiterrorismo[11].
Infatti, nel predisporre una repressione alla cieca e incontrollata – poiché, nonostante la loro qualificazione come atti “amministrativi”, queste misure hanno in realtà una natura repressiva – questi strumenti disperdono inutilmente le energie delle forze di polizia che potrebbero essere meglio impiegate nell’accertamento e nella prevenzione di concreti progetti criminali. Potendo riguardare persone sulla base di semplici sospetti o, peggio, della loro appartenenza religiosa (cfr. la posizione del Commissario ai diritti umani riportata infra), essi concorrono direttamente, attraverso un’inutile e arbitraria stigmatizzazione, a quella radicalizzazione che si dice di voler contrastare. In questo modo si contribuisce a preparare il terreno per il terrorismo di domani.
Proclamato con un decreto adottato nella notte tra il 13 e il 14 novembre, confermato da una legge del 20 novembre 2015, che ha irrigidito il testo originario del 3 aprile 1955, lo stato d’emergenza è stato nuovamente prorogato da una legge del 19 febbraio 2016 per un nuovo periodo di tre mesi a partire dal 26 febbraio 2016 (cfr. par. 6.2).
L’inserimento dello stato d’emergenza nella Costituzione non è necessario, dal punto di vista tecnico, poiché il Consiglio costituzionale ha ammesso la costituzionalità delle leggi di proroga[12].
Estratti delle considerazioni critiche espresse dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa:
«Tra gli effetti più preoccupanti dell’entrata in vigore dello stato d’emergenza figurano le perquisizioni amministrative realizzate senza autorizzazione preventiva dell’Autorità giudiziaria e l’obbligo di dimora per molte persone che non hanno nulla a che vedere con il terrorismo […].
Abusi sono stati commessi dalle forze di polizia. In particolare, violente operazioni basate su informazioni errate hanno causato una grande sofferenza sul piano morale e pesanti danni materiali a persone che non avevano nessun legame con il terrorismo.
Le vittime di queste operazioni, che sono in alcuni casi famiglie con bambini, hanno rimedi giurisdizionali molto limitati per contestare le misure di cui sono destinatarie […].
Molte misure adottate nel quadro dello stato d’emergenza hanno riguardato persone di religione musulmana, o sospettate di esserlo[13].
Diversi leader religiosi e organizzazioni non governative hanno manifestato pubblicamente il profondo malessere che ciò provoca nella popolazione musulmana, che si sente presa di mira e teme di essere assimilata al fanatismo e al terrorismo, in cui non si riconosce. […]
La coesione sociale è in pericolo.
Questo Stato d’eccezione potrebbe presto diventare ordinario. È comprensibile e giustificato che lo Stato si mobiliti per proteggere la sua popolazione di fronte a una minaccia terrorista che rimane reale. Ciononostante, proseguire nella strada tracciata finora non è auspicabile, poiché la proroga illimitata dello stato d’emergenza aggraverebbe la polarizzazione della società e indebolirebbe lo Stato di diritto. Continuare a dare sempre più potere all’Esecutivo riducendo, al tempo stesso, quello dell’Autorità giudiziaria, rischia di compromettere il sistema di pesi e contrappesi necessario in una democrazia e di condurre a un aumento del numero delle operazioni che costituiscono abusi e minacce alla libertà, senza rendere, al tempo stesso, la Francia più sicura».
3.2. La costituzionalizzazione della revoca della cittadinanza
Quest’iniziativa è stata portata avanti in parallelo con la costituzionalizzazione dello stato d’emergenza (cfr. 6.1).
L’obiettivo di questa proposta è stato così presentato: «Si tratta di consentire l’allontanamento duraturo dal territorio, attraverso l’espulsione, di soggetti la cui pericolosità è testimoniata da una condanna definitiva. Su tale argomento, il Consiglio di Stato ha reso un parere l’11 dicembre 2015, osservando che questo dispositivo risponde a un obiettivo legittimo, che consiste nel sanzionare gli autori di reati così gravi che non meritano più di appartenere alla comunità nazionale» (sic). Durante l’esame da parte dell’Assemblée nationale, quest’articolo del disegno di legge costituzionale è stato in larga parte riscritto al fine, da un lato, di eliminare qualsiasi riferimento alla doppia nazionalità e, dall’altro, di estendere la possibilità di revocare la cittadinanza alle persone che sono state condannate per un «reato che costituisce una grave minaccia alla vita della Nazione». Il Senato ha poi reintrodotto, però, la doppia cittadinanza come criterio necessario per consentire la revoca.
Va precisato che questa misura esiste già nel diritto francese[14] e che si tratta di consentirne un’applicazione più estesa, conferendole uno status superiore.
Questo indegno progetto suscita in Francia un dibattito con schieramenti che, anche in questo caso, attraversano maggioranza e opposizione e ha portato alle dimissioni la ministra della Giustizia Christiane Taubira. Nel libro che ha pubblicato dopo aver lasciato il suo incarico, Christiane Taubira stigmatizza, in primo luogo, «l’inefficacia» della misura e «l’assenza di effetti in termini di dissuasione» e, inoltre, il valore simbolico che assume: «Dobbiamo avere il coraggio di dirlo: un Paese deve essere in grado di gestire i suoi cittadini. Che mondo sarebbe se ogni Paese espellesse i cittadini che considera come indesiderabili? Bisognerebbe immaginare una zona-discarica dove raccoglierli» individuando, correttamente, nel rischio di creare apolidi un «sottrarsi alle proprie responsabilità morali e politiche»[15].
3.3. La contaminazione del diritto comune da parte dello stato d’emergenza
Con un disegno di legge di grande importanza il Governo ha voluto trasporre nel diritto comune alcune misure finora riservate allo stato d’emergenza. Questo testo è una delle tre frecce nell’arco securitario del Governo, insieme al progetto di riforma costituzionale e alla proroga dello stato d’emergenza.
Si tratta del disegno di legge per rafforzare la lotta contro la criminalità organizzata, il terrorismo e il loro finanziamento e per migliorare l’efficacia e le garanzie della procedura penale. Il testo ha provocato inquietudini all’interno della magistratura, fino ai più alti gradi (Corte di cassazione, conferenza dei Primi Presidenti) che vi intravedono una marginalizzazione della giustizia, mentre le associazioni di difesa dei diritti umani denunciano una deriva verso lo stato d’emergenza permanente. Il Syndicat de la Magistrature ha espresso critiche molto severe[16].
Il disegno di legge crea le premesse per una marginalizzazione dell’Autorità giudiziaria, realizzando così un ulteriore arretramento delle libertà individuali garantite a livello costituzionale. Introduce meccanismi amministrativi di natura para-penale (obbligo di dimora o fermo), ossia non sottoposti all’autorizzazione preventiva di un giudice ordinario ma esclusivamente al controllo successivo del giudice amministrativo (per es., fermo di quattro ore dopo un controllo d’identità o controllo amministrativo per i foreign fighters).
È previsto un notevole rafforzamento dei poteri della magistratura inquirente, in un momento in cui la Francia sembra incapace di garantire l’indipendenza di quest’ultima rispetto al potere esecutivo[17]. La magistratura inquirente ha un ruolo sempre piùimportante rispetto a quello del giudice istruttore – la cui indipendenza è garantita nell’Ordinamento giudiziario – il cui intervento è già confinato a una piccola quota di procedimenti (3% dei fascicoli).
In virtù di questa legge, il pubblico ministero potrà ricorrere a nuove tecniche d’indagine, come quelle svolte con l’ausilio dei cd. Imsi catchers, dispositivi-antenne che captano i dati delle connessioni di telefonia mobile. Avrà anche la possibilità, sottoposta ad alcune condizioni, di richiedere l’intercettazione, la videosorveglianza o il controllo dei dati informatici di un sospettato. Alcuni di questi strumenti erano finora riservati ai giudici istruttori; altri, come gli Imsi catchers, sconosciuti in ambito giudiziario.
Persino il Primo presidente della Corte di cassazione ha messo in guardia i deputati contro i nuovi equilibri che questa riforma disegna: costituisce motivo di particolare inquietudine l’apparizione di una coppia «formata dal procuratore e dal giudice delle libertà, che appare come il controllore di un procuratore che tende a sostituirsi al giudice istruttore per molti atti, in particolare per quanto riguarda le perquisizioni»; «questa accoppiata – ha affermato ancora l’alto magistrato – non presenta le stesse garanzie per il cittadino, data la posizione del pubblico ministero nel nostro Paese». Il giudice delle libertà, che non ha, concretamente, un accesso completo al dossier e che può essere sollevato dalle sue funzioni con una decisione arbitraria del Presidente del Tribunale, sembra non essere dotato di sufficiente forza per controllare il procuratore.
Si va, inoltre, verso un’estensione della possibilità per le forze di polizia di utilizzare le armi, creando così una sorta di legittima difesa derogatoria, perché ad appannaggio esclusivo dei rappresentanti dello Stato.
Breve presentazione del sistema giudiziario francese
Il dualismo giurisdizionale.
In Francia l’organizzazione della giustizia riflette una storia complessa che ha condotto al dualismo giurisdizionale: la giustizia ordinaria coesiste con la giustizia amministrativa.
Gli aderenti al Syndicat de la Magistrature sono esclusivamente giudici ordinari.
La giustizia amministrativa si occupa degli affari che riguardano i pubblici poteri e, in particolare, lo Stato e la pubblica amministrazione. La giustizia ordinaria si occupa di tutti gli altri affari – in ambito civile, commerciale, del lavoro – e assicura l’applicazione del diritto penale.
Al vertice della giustizia amministrativa si trova il Conseil d’Etat; di quella ordinaria la Cour de cassation.
Nei due ordini operano magistrati diversi, il cui accesso alla magistratura e la cui carriera sono distinti. Una delle differenze essenziali è che, mentre la giustizia ordinaria è menzionata nella Costituzione, la giustizia amministrativa non è prevista.
Lo statuto dei giudici ordinari è disciplinato, nei suoi principi, dalla Costituzione, che proclama l’indipendenza dell’“Autorità giudiziaria”. Ciò non significa che ai giudici amministrativi sia negata l’indipendenza, ma essa non è prevista dalla Costituzione. L’indipendenza è infatti garantita dalla consuetudine e riconosciuta dal Consiglio costituzionale come principio costituzionale (sentenza n. 80-119 DC del 22 luglio 1980)[18]. Ciononostante, si può ritenere che i giudici amministrativi non abbiano la stessa cultura dei giudici ordinari. Anche se un processo di emancipazione è in corso, nella loro cultura si ritrova una forte aderenza alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, mentre esiste, presso i giudici ordinari, una tradizione di possibile resistenza – se non di “ribellione” – nei confronti della giurisprudenza della Corte di cassazione che a volte conduce a revirements giurisprudenziali. In ogni caso, è certo che la giustizia ordinaria è più “aleatoria” per il potere esecutivo.
È interessante richiamare a questo proposito l’opinione di Antoine Vauchez, direttore di ricerca al Cnrs (Centre National de la recherche scientifique) e al Centre européen de sociologie et de sciences politiques (Université Paris 1-Sorbonne-Ehess), che mette insieme diversi punti di vista su tale questione nel contesto dello stato d’emergenza: «Lo stato d’emergenza ha collocato il Consiglio di Stato in prima fila nella reazione al terrorismo. Attraverso la dilatazione senza precedenti dei poteri amministrativi e la marginalizzazione del giudice ordinario, è stata affidata al Consiglio di Stato, giudice dell’amministrazione, il delicato compito di far valere e rendere centrale l’esigenza di tutela dei diritti e delle libertà nell’ambito di una politica antiterrorismo di cui è già possibile segnalare le derive. Grazie alla sua posizione all’interno dell’apparato amministrativo, il Consiglio di Stato non sembra oggi in grado di assolvere a questa funzione essenziale[19]».
Ciò non vuol dire che la magistratura ordinaria eserciti il suo ruolo senza criticità e che sia al di sopra di ogni sospetto.
Bisogna aggiungere che, in linea generale, il giudice ordinario interviene a monte per autorizzare, mentre il giudice amministrativo interviene a valle per valutare la legalità di una decisione amministrativa. Nell’ambito delle misure proprie dello stato d’emergenza, il giudice amministrativo si pronuncia sulla base di informazioni sul cui sistema di acquisizione non ha poteri di controllo, come per esempio le “informative bianche anonime” preparate dai Servizi d’intelligence, che la persona interessata ha sicuramente poche possibilità di contestare.
Quella del dualismo giurisdizionale è una questione complessa, prettamente francese, che è stata riattualizzata dal ruolo assunto dalla giustizia amministrativa nel controllo dello stato d’emergenza.
L’unità della magistratura.
Come in altri Paesi, come il Belgio e l’Italia, la magistratura è un corpo unico, formato da magistratura inquirente e magistratura giudicante. Durante la sua carriera, un magistrato può passare dall’una all’altra funzione. Il Consiglio costituzionale ha affermato che «l’Autorità giudiziaria comprende, al tempo stesso, la magistratura inquirente e la magistratura giudicante» (sentenza n. 93-326DC dell’11 agosto 1993; lo stesso principio si ritrova nella sentenza del 30 luglio 2010 sul fermo di polizia).
La magistratura inquirente in Francia è però sottoposta all’autorità del Ministro della Giustizia. Esiste, quindi, una vera e propria contraddizione tra indipendenza della giustizia e subordinazione della magistratura inquirente. Diverse sentenze della Cedu (in particolare la sentenza Moulin c/Francia del 23 novembre 2010) insistono su questa imperfezione del sistema francese, che è rimasta sino ad oggi immutata. La questione del legame tra magistratura inquirente e potere esecutivo è diventata, in Francia, fonte di accesi dibattiti.
4. Un controllo, costituzionale e amministrativo, a bassa intensità
Appare evidente che sia il controllo esercitato dal giudice costituzionale che quello spettante al giudice amministrativo, pur non essendo del tutto assenti, sono controlli a “bassa intensità”. Gli esempi seguenti ne sono la dimostrazione.
4.1. La Costituzione prevede che i giudici sono garanti della libertà personale
La Costituzione prevede che i giudici ordinari sono garanti della libertà personale e aggiunge che essi assicurano il rispetto del principio secondo il quale «nessuno può essere sottoposto a detenzione arbitraria». Questo principio è il fondamento della competenza esclusiva dei giudici ordinari per ogni decisione che può limitare la libertà personale.
Il Consiglio costituzionale, nell’esercizio del suo ruolo di riparto tra ciò che è di competenza del potere esecutivo – e, quindi, del controllo di legittimità del giudice amministrativo – e ciò che richiede l’autorizzazione preventiva dell’autorità giudiziaria, ha una concezione sempre più restrittiva della funzione di «garante della libertà personale» propria del giudice ordinario. Ciò deriva, tra l’altro, dalla prossimità dei membri del Consiglio costituzionale al mondo politico-amministrativo, che ne ha forgiato l’impostazione sin dalla sua creazione. Questa tendenza è testimoniata da diverse sentenze del Consiglio costituzionale riguardanti lo stato d’emergenza.
4.2. L’obbligo di dimora
Nella sentenza n. 2015-527QPC del 22 dicembre 2015 (parafrasando Magritte che aveva intitolato un quadro raffigurante una mela «Questa non è una mela», «Questa non è una violazione della libertà personale») il Consiglio costituzionale si è così pronunciato:
«Considerato che, secondo l’articolo 66 della Costituzione, “Nessuno può essere sottoposto a detenzione arbitraria. – L’Autorità giudiziaria, garante della libertà personale, assicura il rispetto di questo principio nelle condizioni previste dalla legge”; che la libertà personale, la cui tutela è affidata all’Autorità giudiziaria, non deve essere colpita da misure eccessivamente rigorose; che le limitazioni all’esercizio di questa libertà devono essere adeguate, necessarie e proporzionate agli obiettivi perseguiti;
Considerato che, in secondo luogo, quando il Ministro adotta una decisione che comporta l’obbligo di dimora, al destinatario può anche essere imposto di farsi trovare nel luogo di abitazione determinato dal ministro dell’Interno, durante la fascia oraria da lui fissata, nel limite di dodici ore su ventiquattro; che la fascia oraria di reperibilità nel luogo di domicilio nell’ambito dell’obbligo di dimora, di massimo dodici ore, può essere prolungata solo nel caso in cui l’obbligo di dimora sia considerato come una misura di limitazione della libertà personale, pertanto sottoposta alle condizioni previste dall’articolo 66 della Costituzione».
Dodici ore al giorno di privazione della libertà non sarebbero una limitazione della libertà personale!
In concreto, il bilancio del ricorso giurisdizionale ammesso contro questa misura, che potrà certamente evolvere fino alla fine dello stato d’emergenza, ne dimostra la scarsa efficacia: su 392 decisioni adottate, solo 103 sono state contestate, ossia poco più di un quarto. Questi ricorsi hanno condotto a sette sospensioni, una sospensione parziale, quattro riforme e un annullamento della decisione adottata.
4.3. Le perquisizioni amministrative
Nella sentenza n. 2016-536 QPC del 19 febbraio 2016 («Questo è un bilanciamento equilibrato») il Consiglio costituzionale ha ritenuto che «le misure di perquisizione previste dalla legislazione d’emergenza, che sono di natura amministrativa, anche quando si svolgono all’interno di un domicilio, possono avere come unico scopo la difesa dell’ordine pubblico e la prevenzione dei reati; poiché non riguardano la libertà personale ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione, queste misure non devono essere sottoposte alla direzione e al controllo dell’Autorità giudiziaria; pertanto, la disposizione legislativa che le prevede non può essere considerata illegittima rispetto all’articolo 66 della Costituzione.
La Costituzione non esclude la possibilità per il legislatore di prevedere lo stato d’emergenza; spetta al legislatore, in quest’ambito, assicurare il bilanciamento tra la prevenzione delle violazioni dell’ordine pubblico e il rispetto dei diritti di libertà di tutti coloro che risiedono sul territorio francese; tra questi diritti figura il diritto al rispetto della vita privata e, in particolare, all’inviolabilità del domicilio, garantito dall’articolo 2 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789».
Il giudice costituzionale ricorda, inoltre, che in base all’articolo 16 della Dichiarazione:«”Una società nella quale non è assicurata la tutela dei diritti né è prevista la separazione dei poteri non è dotata di Costituzione”; ne consegue che alle persone interessate deve essere garantito in maniera sostanziale il diritto a un ricorso effettivo davanti a un organo giurisdizionale; - il provvedimento che dispone la perquisizione [...] e le condizioni della sua esecuzione devono essere giustificati e proporzionati ai motivi che hanno fondato la misura, nelle particolari circostanze dello stato d’emergenza; in particolare, lo svolgimento di una perquisizione in un domicilio durante le ore notturne deve essere motivata dall’urgenza o dall’impossibilità di effettuarla di giorno; spetta al giudice amministrativo verificare che la misura adottata – che deve essere motivata – sia adeguata, necessaria e proporzionata alle finalità perseguite».
Per quanto riguarda i rimedi giurisdizionali, il Consiglio costituzionale afferma: «è vero che il ricorso contro il provvedimento che dispone la perquisizione può essere presentato solo dopo l’esecuzione della stessa; va però altresì considerato che i destinatari della misura possono iniziare un’azione risarcitoria nei confronti dello Stato e non sono, quindi, privi di strumenti per agire in giudizio; tali rimedi giurisdizionali permettono di controllare l’applicazione della misura in modo appropriato, in considerazione delle particolari circostanze che hanno condotto alla dichiarazione dello stato d’emergenza»; tenuto conto del fatto che «intervengono nell’ambito di poteri eccezionali i cui effetti devono essere limitati nel tempo e nello spazio e che permettono di prevenire il pericolo imminente o le conseguenze di una pubblica calamità di fronte alla quale si trova il Paese, le misure considerate operano un bilanciamento che non è affetto da manifesta irragionevolezza tra le esigenze dell’articolo 2 della Dichiarazione del 1789 e l’obiettivo di valore costituzionale di tutela dell’ordine pubblico». Il Consiglio costituzionale ha dunque ritenuto che anche le esigenze dell’articolo 16 della Dichiarazione del 1789 sono opportunamente garantite e si è limitato a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che prevedevano il sequestro di dati informatici, per assenza di sufficienti garanzie procedurali.
5. I dodici punti deboli della politica francese
- Una svolta inquietante nella concezione della nostra legge fondamentale. «Una Costituzione è la garanzia della libertà di un popolo» diceva Benjamin Constant. Per la prima volta dal 1958, la revisione costituzionale di cui si discute è concepita non per limitare il potere, ma come uno strumento per permettere al potere di mettere in discussione in maniera sempre più significativa le libertà fondamentali.
- Si preferisce in linea generale, la reazione immediata alla riflessione e al dibattito. Le leggi vengono approvate dal Parlamento in maniera precipitosa.
- Un’occupazione dello spazio politico-mediatico con dibattiti che non consentono ai cittadini di coltivare un pensiero approfondito, ma che, al contrario, consentono loro, in un contesto di crescita della capacità d’attrazione del Front national, di lasciarsi andare a derive nazionaliste, xenofobe o islamofobe[20].
- L’assenza di consapevolezza, se non l’assoluta ignoranza, del costo dello “stato d’emergenza permanente”:
- perdita d’efficacia nella lotta contro il fenomeno criminale che si vuole combattere, in particolare per la polizia costretta a concentrare i suoi sforzi su misure poco o per niente utili, invece di dedicarli a misure che potrebbero rivelarsi appropriate;
- indebolimento della legittimità del potere a causa dell’indebolimento dell’equilibrio tra poteri, caratterizzato, in particolare, da un attacco al potere giudiziario;
- costo per la coesione sociale, poiché una parte della popolazione musulmana si considera l’obiettivo principale delle misure adottate. E invece la politica dovrebbe permettere la convivenza all’interno di un comunità nazionale[21]!
- La mancanza di volontà di analizzare criticamente l’organizzazione dei Servizi antiterrorismo e di tutti gli apparati di sicurezza.
- L’accentuazione del declino del diritto, qualificato come “miope giuridicismo”, a vantaggio di una “gestione” della crisi dall’apparato di amministrazione e polizia.
- Una crescente marginalizzazione della giurisdizione, con la polizia che prende le redini dell’iniziativa e degli interventi nell’ambito delle misure previste, con un semplice controllo a posteriori e di bassa intensità del giudice amministrativo, intraprendendo in tal modo un pericoloso percorso di separazione dalla giurisdizione ordinaria.
- Una forte supremazia della “situazione eccezionale” che sovrasta in modo netto il diritto comune.
- L’onnipresente retorica della guerra.
- Un approccio a tutta la situazione attuale dominato dalla paura in luogo della resilienza. La strategia di Daesh ha lo specifico obiettivo di puntare sull’assenza di capacità di resilienza delle società quando ci si trova in pericolo.
- L’assenza di volontà di affrontare la complessità della situazione[22], quando invece conoscere le cause di una minaccia è la prima condizione per riuscire a proteggersi.
- L’assenza di una reale volontà da parte delle istituzione di uno Stato laico – componente identitaria della democrazia francese – di affiancare e rispettare una situazione di pluralismo religioso, che comprende l’Islam al pari delle altre religioni.
6. Costituzionalizzazione: finale di partita, ma rimane l’indebolimento delle garanzie dello Stato di diritto
6.1. Un’amara vittoria: la rinuncia alla costituzionalizzazione dello stato d’emergenza e della revoca della cittadinanza
Dopo quattro mesi di inutili dibattiti, che hanno inquinato l’opinione pubblica con prese di posizione semplicistiche e senza una riflessione approfondita, il 30 marzo il Presidente della Repubblica ha rinunciato a proseguire il processo di costituzionalizzazione di cui supra (3.1 e 3.2), pur avendolo auspicato all’indomani degli attentati del 13 novembre.
Ciò non è però avvenuto grazie alla mobilitazione alla quale il Syndicat de la Magistrature ha attivamente partecipato, ma per mancanza di una condizione necessaria per qualsiasi riforma costituzionale: le due Camere che compongono il Parlamento (Assemblée nationale e Senato) non sono arrivate ad approvare la stessa versione del testo. Infatti, mentre si sarebbe potuto raggiungere un accordo sulla costituzionalizzazione dello stato d’emergenza, sulla revoca della cittadinanza è stato impossibile arrivare a una sintesi tra la maggioranza dell’Assemblée (che appoggia il Presidente Hollande, con alcuni distinguo), contraria a condizionare la revoca al requisito della doppia cittadinanza, e quella del Senato (l’opposizione di destra), ferma sul suo testo in cui tale condizione era prevista (un compromesso si sarebbe potuto raggiungere prevedendo unicamente per i reati più gravi la revoca per coloro che hanno la sola cittadinanza francese). L’opposizione, che ha la maggioranza in Senato, non ha neanche voluto una revisione costituzionale soltanto per lo stato d’emergenza.
6.2. Quando lo stato d’emergenza si normalizza, lo Stato di diritto si indebolisce: nuova proroga dello stato d’emergenza e adozione della riforma penale post-attentati
Una terza proroga dello stato d’emergenza fino al 26 luglio 2016 è stata adottata da un’ampia maggioranza, senza un vero dibattito, in maniera un po’ fatalista, in nome della sicurezza degli Europei di calcio e del Tour de France.
Allo stesso modo, la legge di riforma del diritto penale e sulla lotta al terrorismo (cfr. 3.3 supra) è stata adottata con una maggioranza schiacciante. Presentata dal Governo come una condizione per uscire dallo stato d’emergenza, quinto testo antiterrorismo del mandato di François Hollande, questa legge, come già evidenziato, introduce nel diritto comune meccanismi direttamente ispirati dallo stato d’emergenza.
Andando anche al di là del disegno di legge governativo, le misure adottate – alcune delle quali erano state in passato respinte a più riprese – alimentano un arsenale antiterrorismo molto repressivo e pervasivo che inquieta anche gli organismi delle Nazioni unite[23]: carcerazione a vita senza possibilità di uscita anticipata, sorveglianza e perquisizioni sistematiche dei detenuti, con estensione delle possibilità di far spogliare completamente il detenuto, inserimento dell’amministrazione penitenziaria all’interno degli apparati di sicurezza, con la previsione di poteri esorbitanti, ampliamento delle possibilità di controllo dei sistemi informatici senza adeguate garanzie, creazione del reato di consultazione abituale di siti che fanno apologia del terrorismo, oltre a tutti i meccanismi procedurali descritti e criticati nel paragrafo 3.3.
7. Qualche speranza per il futuro … nonostante tutto
Come notato da Dominique Linhardt, sociologo e direttore di ricerca al Cnrs, a proposito del terrorismo in Germania durante gli anni di piombo, la presa di posizione della società civile perché la lotta contro il terrorismo venga condotta nei limiti dello Stato di diritto può portare frutti molto positivi: le critiche provenienti da questi movimenti di opinione sono state ascoltate e hanno permesso di rendere i meccanismi antiterrorismo adeguati a ciò che sembrava collettivamente accettabile, conforme allo Stato di diritto e, quindi, legittimo. La società civile ha sicuramente contribuito, in questo modo, alla fine del terrorismo. Non basta certo richiamare questo precedente, ma bisogna trarre ispirazione da questo tipo di movimenti per avviare un’ampia mobilitazione in favore del rispetto dei diritti fondamentali nella lotta contro il terrorismo, rimarcando che, contrariamente a quanto sostenuto da qualcuno, agire in questo modo vuol dire reagire all’impotenza dello Stato.
Un altro segnale incoraggiante permette di continuare a credere nella reale possibilità di una mobilitazione di questo tipo: contro ogni attesa e nonostante un clima molto teso – gli atti di matrice razzista, e in particolare quelli diretti contro la comunità islamica, si sono moltiplicati – i francesi sembrano più tolleranti, stando al rapporto 2015 sul razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia diffuso il 2 maggio dalla Commission nationale consultative des droits de l’homme[24]. Lacerati dagli attentati che hanno colpito il Paese a due riprese nel 2015, i francesi sembrano voler superare i pregiudizi, valorizzare l’accettazione dell’altro, esprimendo certamente un bisogno di maggiore sicurezza, ma anche di maggiore fratellanza. Secondo i ricercatori che hanno contribuito a questo rapporto, i fattori che conducono a una maggiore tolleranza e quelli che conducono alla commissione di atti razzisti sono completamente diversi, il che spiega perché la crescita parallela delle due “curve” (di opinioni e di azioni) non costituisce una contraddizione.
Tutti noi dobbiamo mobilitarci, facendo leva in particolare su questo crescente sentimento di tolleranza e sulla capacità di contribuire alla resilienza riguardo al rispetto dei diritti fondamentali.
[1] Quando è stata illustrata questa relazione, il Belgio, pur essendo un Paese ad alto rischio terrorismo e obiettivo di minacce molto serie, non era stato colpito dai gravi attentati del 22 marzo 2016.
[2] Gli attentati del 22 marzo 2016 che hanno colpito il Belgio, provocando trentun morti e duecentosettanta feriti confermano l’esistenza di un’organizzazione relativamente strutturata. La stessa cellula franco-belga, il cui nucleo fondativo si sarebbe formato più di un anno fa, sembra essere all’origine di queste stragi come di quelle del 13 novembre 2015 in Francia.
[3] Henry Laurens, storico, professore al Collège de France, in Terrorisme, histoire et droit, CNRS éditions, a cura di Henry Laurens e Mireille Delmas-Marty.
[4] Il 24 giugno 1894 Sante Caserio, anarchico, uccise il presidente francese Sadi Carnot. Quest’attentato rappresenta l’apice di una serie di episodi che in Francia hanno visto come protagonisti gli anarchici. Tutta la comunità internazionale si sentì minacciata, poiché la Francia non era l’unico Paese vittima degli attentati.
[5] In questo contesto, prima o dopo la Francia, molti Paesi, europei e non, conoscono o hanno conosciuto ondate di terrorismo che hanno talvolta provocato un gran numero di vittime, come la Spagna nel 2004 (duecento vittime), il Regno Unito nel 2005 (sessanta morti), la Danimarca il 14 febbraio 2015 (tre morti). La Tunisia ha subito tre attentati in meno di un anno: undici giorni dopo gli attentati in Francia un kamikaze ha provocato dodici morti in un autobus della guardia presidenziale; cinque mesi prima, il 26 giugno, trentotto persone erano state uccise su una spiaggia e in un hotel a Sousse; il 18 marzo ventun turisti e un agente di sicurezza avevano perso la vita in un attacco al museo del Bardo di Tunisi. Tutti questi attentati sono stati rivendicati dallo Stato Islamico. Va però notato che altre forme di terrorismo, non di matrice islamista, continuano a colpire, come dimostra la strage realizzata da Anders Behring Breivik in Norvegia nel 2011, che è costata la vita a settantasette persone.
[6] Espressione utilizzata da Mireille Delmas-Marty in Terrorisme, histoire et droit, op. cit.
[7] Sentenza Kadi e Al Barakaat del 3 settembre 2008.
[8] Damien Vandermeersch, magistrato e professore di diritto penale belga, in Juger le terrorisme dans l’Etat de droit, coll. Magnacarta Bruylant.
[9] Lo stato d’emergenza è già stato proclamato in passato. Applicato in Algeria dopo la promulgazione di questa legge, lo stato d’emergenza è stato prorogato dalla legge del 7 agosto 1955 per sei ulteriori mesi. Successivamente è stato applicato solo tre volte: dopo il ritorno al potere del generale de Gaulle, a seguito degli avvenimenti del 13 maggio 1958, per fronteggiare un eventuale “colpo di mano“; nel 1961, dopo il “putsch dei generali“; nel novembre 2005, due settimane dopo lo scoppio della “rivolta delle banlieues“. Inoltre, lo stato d’emergenza è stato dichiarato in Nuova Caledonia nel dicembre 1984.
[10] L’urgence d’en sortir! Analyse approfondie du régime juridique de l’état d’urgence et des enjeux de sa constitutionnalisation (www.syndicat-magistrature.org/-L-urgence-d-en-sortir-4-.html). Il Syndicat de la magistrature ha largamente contribuito alla realizzazione di questo documento, insieme a ricercatori, studenti, attivisti e giuristi.
[11] Oltre a ventitré contestazioni per apologia di atti di terrorismo, che traducevano in realtà più un moto di provocazione o di ingiuria da parte degli autori delle affermazioni piuttosto che una reale volontà di incitare terzi a commettere atti terroristici.
[12] Il Consiglio costituzionale nella sua sentenza n. 85-187 DC del 25 gennaio 1985 ha considerato che «in virtù dell’articolo 34 della Costituzione la legge determina le regole relative alle garanzie fondamentali riconosciute ai cittadini per l’esercizio dei diritti politici; nell’ambito di questa missione, è compito del legislatore conciliare il rispetto delle libertà e la tutela dell’ordine pubblico senza il quale l’esercizio dei diritti politici non potrebbe essere assicurato» (v. anche la sentenza n. 2016-536 QPC del 19 febbraio 2016 infra).
[13] Più di dieci luoghi di culto (moschee e sale di preghiera) sono stati chiusi.
[14] Articolo 25 del Codice civile: «L’individuo che ha acquisito la cittadinanza francese può, attraverso un decreto adottato dopo il parere vincolante del Consiglio di Stato, vedersela revocare, tranne nel caso in cui la revoca lo renda apolide: 1) se viene condannato per un reato che costituisce una minaccia agli interessi fondamentali della Nazione o per reati di terrorismo; 2) se viene condannato per un reato previsto dal capitolo II del titolo III del libro IV del Codice penale; 3) se viene condannato per essersi sottratto agli obblighi previsti dal Codice del servizio nazionale; 4) se, a vantaggio di uno Stato straniero, ha commesso degli atti incompatibili con la qualità di cittadino francese o lesivi degli interessi della Francia».
[15] Christian Taubira continua: «A chi si rivolge e cosa dice il simbolo della revoca della cittadinanza per i francesi di nascita? Non si rivolge certo ai terroristi […] chi diventa, quindi, il destinatario del messaggio? Coloro che condividono, come unico tratto comune con i colpevoli presi di mira, quello di avere la doppia cittadinanza, nient’altro […]. È a tutti loro che si rivolge, fosse anche inavvertitamente, questa proclamazione secondo la quale avere la doppia cittadinanza è una condizione sospetta. E una minaccia: quella che coloro che sono ossessionati dalla diffidenza, i maniaci dell’esclusione, gli obnubilati dall’espulsione faranno pesare, e lo fanno già con le loro dichiarazioni paranoiche e complottiste, su coloro che essi considerano semplicemente la quinta colonna».
[16] www.syndicat-magistrature.org/Questions-reponses-critiques-du-2443.html
[17] La Cedu ha evidenziato più volte l’assenza di indipendenza dei “magistrati” inquirenti francesi: «La Corte considera che, in ragione del suo ordinamento, la magistratura inquirente in Francia non rispetta l’esigenza di indipendenza nei confronti dell’esecutivo che, secondo una giurisprudenza consolidata, figura, allo stesso modo dell’imparzialità, tra le garanzie proprie della nozione autonoma di ”magistrato” ai sensi dell’articolo 5§3 […]» sentenza di Grande chambre Medvedyec c/Francia del 29 marzo 2010; sentenze Moulin c/Francia del 23 novembre 2010 e Vassis c/Francia del 27 giugno 2013.
[18] Una recentissima legge del 20 aprile 2016 relativa alla deontologia e ai diritti e ai doveri dei funzionari prevede che «i membri del Consiglio di Stato e i giudici amministrativi esercitano le loro funzioni in totale indipendenza, dignità, imparzialità, integrità e probità e si comportano in modo da evitare qualsiasi legittimo dubbio a riguardo».
[19] Si veda anche la posizione di Vanessa Codaccioni, ricercatrice in scienze politiche all’Université Paris VIII e autrice di Justice d’exception. L’Etat face aux crimes politiques et terroristes (CNRS éditions): «La giustizia amministrativa ha sempre avuto un ruolo chiave nel ricorso all’eccezione. Il Consiglio di Stato deve essere consultato prima di un disegno di legge. Nella storia, il bilancio del Consiglio di Stato è molto magro. Ha legittimato il ricorso all’eccezione durante la guerra d’Algeria, ha dato il suo accordo per lo stato d’emergenza e il conferimento di poteri speciali. Ma si è anche opposto fermamente al potere esecutivo, come dimostra la sentenza Canal del 1962, che ha annullato le condanne a morte di una Corte di giustizia militare voluta da de Gaulle. Il Consiglio ha, quindi, un ruolo complesso. Dopo la sentenza Canal, Jean Foyer, ministro della Giustizia, aveva dichiarato: «La giustizia amministrativa si è spogliata della sua ragione d’esistere, ossia difendere lo Stato. Ha adesso trovato la sua collocazione? Il Consiglio di Stato è l’unico, con il Consiglio costituzionale, a poter limitare gli effetti dell’eccezione, o addirittura ottenerne la cessazione».
[20] Il numero di atti contro i musulmani è ampiamente aumentato nell’arco di un anno (+223% tra il 2014 e il 2015), sia per quanto riguarda le minacce (+291%), sia per le azioni effettivamente portate a termine (+125%).
[21] Quest’obiettivo essenziale è tanto più importante poiché, come sottolineato da uno dei numerosi ricercatori francesi che si sono interessati all’argomento, Gilles Kepel, la strategia di Daesh sembra essere quella di provocare la “guerra civile” in Europa. In quest’ottica, gli attentati del 13 novembre 2015 sono stati un clamoroso errore da parte di Daesh, poiché, nonostante alcune fragilità, il sentimento di unità nazionale risulta oggi fortemente rafforzato.
[22] «Ne ho abbastanza di coloro che cercano in continuazione delle scuse o delle spiegazioni culturali o sociologiche rispetto a ciò che è successo» aveva dichiarato il Primo ministro in Senato, due settimane dopo gli attacchi di novembre 2015. Il 9 gennaio, durante un omaggio alle vittime dell’assalto all’Hyper Cacher, aveva ribadito: «Non può esserci nessuna valida spiegazione. Perché spiegare, vuole già dire voler un po’ giustificare». Queste ripetute prese di posizione avevano suscitato vivaci reazioni nella comunità scientifica, abituata a lavorare sul lungo periodo. No