Il ruolo dell’avvocatura nella lotta al terrorismo
È con una certa emozione che prendo la parola su una tematica così drammaticamente attuale e sento su di me la responsabilità di trattarla rappresentando, in questo consesso, l’avvocatura ed il ruolo dell’Advocatus, di colui cioè che è chiamato a difendere i diritti delle persone.
Nel nostro ordinamento democratico sappiamo tutti che il recinto del diritto alla difesa, scolpito dall’art. 24 della Costituzione, è sacro ed inviolabile, costituendo proprio questa intangibilità uno dei pilastri fondanti della Democrazia.
E, non a caso, è proprio questo principio (anche se variamente declinato) proprio di tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati che possono dirsi autenticamente democratici e rispettosi del principio di legalità, ad essere messo in crisi, come storicamente dimostrato, dal terrorismo. Ed è probabilmente proprio l’attacco a questo principio uno degli obiettivi del terrorismo, di matrice politica, negli ultimi decenni del secolo scorso, ed internazionale di matrice islamica nel drammatico momento storico che stiamo vivendo.
L’introduzione di legislazioni di emergenza che prevedono la compressione delle garanzie di difesa e delle norme tese alla salvaguardia dei diritti delle persone sospettate di aver commesso un reato, fin dal momento del fermo di polizia, sono la risposta che viene data alle opinioni pubbliche spaventate, per non dire terrorizzate, da una violenza che proviene da una mano invisibile e che, pertanto, viene percepita come ancora più pericolosa.
Come abbiamo vissuto anche in Italia nella stagione dei cosiddetti anni di piombo, si ingenera una paura sociale, il timore di uscire e frequentare luoghi affollati, ed occorre quindi rassicurare l’opinione pubblica con misure di emergenza, leggi straordinarie che concedono agli apparati di sicurezza maggiori poteri che finiscono però, inevitabilmente, per comprimere gli spazi di libertà dell’intera cittadinanza.
Negli ultimi anni e soprattutto dagli attentati alle torri gemelle del settembre 2001 in poi, come tutti sappiamo, il fenomeno terroristico, e principalmente quello che definiamo di matrice jhadista o islamista ha assunto una valenza globale, colpendo in pratica tutti i continenti, escluso solo l’America latina. La spregiudicatezza e spettacolarizzazione delle azioni terroristiche, giunte lo scorso anno ad atti di incredibile violenza, anche simbolica come nel caso di Charlie Ebdo, e nei casi degli attentati al Bardo ed alla spiaggia di Sousse in Tunisia, negli attacchi al cuore di Parigi del 13 novembre del 2015, hanno spinto i Governi degli Stati colpiti a proclamare lo stato di emergenza ed il coprifuoco, addirittura a Bruxelles, la città che ospita le Istituzioni europee.
Di fronte a tutto ciò, occorre chiedersi cosa possono fare gli avvocati e quale ruolo possono rivestire nel contrasto al terrorismo.
La risposta apparentemente può sembrare difficile, ma se si guarda alle battaglie dell’avvocatura italiana dal secondo dopoguerra in poi, ed in particolare di quella penale, che si è sempre battuta contro le legislazioni di emergenza che comprimono le libertà individuali, la risposta è gia delineata: gli avvocati devono difendere NEL processo gli accusati anche dei crimini più orrendi, in quanto anche per costoro vale la presunzione di innocenza, ma non devono mai rinunciare ad intervenire FUORI dal processo, nel dibattito pubblico, in tutte le sedi per chiedere con forza che le società democratiche non rinuncino ai principi fondanti della civiltà giuridica, al principio di legalità, al giusto processo, alle guarentigie delle persone arrestate e fermate anche se accusate di atti di terrorismo.
L’avvocatura italiana non ha mai cessato di far sentire la propria voce ed ha pagato anch’essa un prezzo altissimo, si pensi all’esemplare sacrificio di Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, come tutti sapete barbaramente assassinato dai terroristi per avere, in scrupoloso adempimento del proprio dovere istituzionale, sostituito i colleghi nominati difensori di ufficio dei terroristi e minacciati proprio da questi ultimi che rifiutavano il processo dinanzi agli organi della magistratura italiana e, quindi, l’esistenza stessa dell’ordinamento democratico.
Venendo all’oggi, quante Guantanamo dovremo aspettarci in Europa?
La triste esperienza americana di rinchiudere veri e/o presunti terroristi in un “non luogo”, situato al di fuori dei confini dagli Stati Uniti ed al di fuori dall’ambito di applicazione della Costituzione americana non ha certo prodotto la sconfitta del terrorismo internazionale.
Del resto, è inaccettabile che, in nome della lotta al terrorismo, si proceda al bombardamento di interi Stati, finora l’Irak, la Siria e adesso la Libia.
Sappiamo bene che anche il nostro Paese non è stato e non è immune da azioni compiute al di fuori della legalità, in nome della lotta al terrorismo.
Paradigmatica la recentissima sentenza della IV Sezione della Corte Edu Nasri Eghali//Italia del 23 febbraio 2016 (il cd. Caso Abu Omar) con la quale l’Italia è stata condannata per la violazione, a carico dell’imam egiziano, del suo diritto a non subire tortura e maltrattamenti, di quello alla libertà e alla sicurezza, nonché del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Si ricorderà che Abu Omar, sospettato di intrattenere legami con ambienti terroristici, era stato vittima di un’operazione di extraordinary rendition, che si era realizzata con il suo rapimento da parte di agenti della Cia e con il suo successivo trasferimento in Egitto, dove l’imam, imprigionato senza accusa e senza aver subito un regolare processo, aveva subito torture e sevizie di vario genere.
Non è utile, né è possibile qui, ripercorrere tutte le tappe del complesso iter giudiziario relative al sequestro dell’imam. Quello che importa rilevare in questa sede sono le conclusioni cui è giunta la Corte, per cui il nostro Paese è stato ritenuto responsabile della violazione dell'art. 3 della Convenzione, secondo il quale «nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti». In proposito, la sentenza ha sottolineato che l’Italia doveva «essere considerata direttamente responsabile della violazione» dei diritti umani di Abu Omar perché, anche se non era stato il Paese che aveva praticato le torture, i suoi funzionari non avevano «impedito questa situazione» adottando le misure che sarebbero state necessarie; responsabilità resa più grave dalla circostanza che, in quel momento, Abu Omar godeva dello status di rifugiato politico.
Con riferimento poi all'art. 5 Cedu, relativo al diritto alla libertà e alla sicurezza della persona, il rapimento e la detenzione dell’imam sono stati ritenuti dai giudici di Strasburgo contrari ad ogni normativa nazionale o internazionale, come pienamente provato dalle sentenze italiane.
Sul piano della tutela dei rapporti familiari, la Corte ha inoltre ritenuto che ci fosse anche la violazione dell’art. 8 della Convenzione, in quanto il sequestro subito ha costretto Abu Omar alla separazione forzata dalla moglie, nonché al suo completo isolamento, in condizioni lesive della sua libertà e dignità.
Ma l'aspetto, se si vuole, più eclatante della sentenza è rappresentato dall'accertata violazione degli obblighi positivi di natura procedurale scaturenti dall'art. 3 della Convenzione. In particolare, la sentenza ha sanzionato l’abuso del ricorso al segreto di Stato, utilizzato dal Governo italiano al fine di assicurare che i responsabili per il rapimento, la detenzione illegale e i maltrattamenti subiti da Abu Omar «non dovessero rispondere delle loro azioni».
Il ragionamento della Corte è stato giudicato particolarmente interessante dai più autorevoli commentatori per diversi motivi:
- la Corte ha ribadito che l’obbligo procedurale discendente dall'art. 3 Cedu non è assolto dalle pur approfondite indagini e dalle giuste condanne, ma comprende anche la loro effettiva esecuzione. Se l'effettiva esecuzione delle pene viene impedita dalle autorità statali, ciò comporta una violazione dell'obbligo in questione;
- la Corte ha sostenuto la corresponsabilità nelle violazioni suddette di ben tre poteri dello Stato italiano: il Governo, rimasto inerte nel richiedere le estradizioni, attivatosi invece per utilizzare impropriamente il segreto di Stato; la Corte costituzionale che ha ritenuto legittimo tale utilizzo per ben due volte e, infine, il Presidente della Repubblica che ha contribuito a sottrarre alla pena persone responsabili di torture, pronunciando nei loro confronti un provvedimento di grazia.
In altri termini, non solo il potere esecutivo ha violato la Cedu, ma lo hanno fatto anche il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale.
In definitiva, la sentenza ribadisce l’assoluta precedenza che deve essere assegnata alla tutela dei diritti umani, nel bilanciamento degli opposti interessi, in questo caso quello della sicurezza, precisando come neppure il contrasto al terrorismo possa legittimare la compressione della tutela dei diritti umani.
Volgendo lo sguardo all’Europa nel suo complesso e nell’ambito Mediterraneo il quadro è desolante.
Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo detto del caso di Abu Omar e registriamo adesso il terribile omicidio in Egitto del giovane Regeni, che getta più di un’ombra inquietante su di un Paese che ha forti legami, anche economici, col nostro.
Conosciamo le difficoltà dell’esercizio del diritto di difesa in Turchia e riteniamo inaccettabile il prezzo pagato da alcuni colleghi per aver svolto con coerenza la propria professione.
Quando si arriva a negare il diritto alla difesa nel processo, quando l'avvocato viene ritenuto un nemico da neutralizzare, allora vuol dire che vi è la negazione della democrazia stessa e l'affermazione del potere assoluto e dispotico. Pertanto, dobbiamo indignarci del fatto che molti colleghi turchi siano stati arrestati in questi ultimi anni solo per aver compiuto il proprio dovere. Gli avvocati italiani condividono la battaglia che i colleghi turchi stanno conducendo per assicurare il rispetto dei principi dell'indipendenza della giurisdizione in un Paese sempre più drammaticamente colpito dalla censura e dalla violenza contro chi dissente. Questi principi sono stati fortemente messi in discussione anche grazie a disposizioni normative che negano la portata del diritto di difesa degli imputati nei processi penali.
Pensiamo ad esempio alla valenza delle dichiarazioni del “testimone segreto” nell’ordinamento turco, la cui credibilità non potrà mai essere messa alla prova, in quanto non potrà mai essere contro-interrogato dalle parti e dai suoi difensori.
La previsione all'interno di quell’ ordinamento giuridico della figura del testimone segreto è in aperta violazione ai principi che ho richiamato in precedenza e che si ritrovano in tutte le carte internazionali: dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, alla Carta dei diritti fondamentali dell'Ue, al Patto per i diritti civili e politici di New York.
In Turchia le dichiarazioni dei testi segreti da sole non bastano per pronunciare una condanna, ma esse costituiscono sempre il fondamento dell’accusa.
Il reato di associazione terroristica di cui si è accusati dal testimone segreto, di cui neanche il giudice conosce l'identità, si ritiene provato quando sussistano presunti elementi di riscontro. Nel caso dell’arresto degli avvocati turchi, tali elementi sono stati individuati ad esempio nella partecipazione ai funerali dei propri assistiti, vittime di scontri; oppure nelle proteste fatte per denunziare le pessime condizioni di salute dei propri assistiti detenuti, o addirittura per il solo fatto di comparire in foto assieme ai propri assistiti e ancora per essersi opposti all'irruzione di agenti di polizia per perquisire i loro studi senza mandato. Si è giunti anche a ritenere la mera partecipazione a seminari e convegni, anche internazionali, di stampo politico-giuridico, quali elementi sufficienti a riscontrare le dichiarazioni del teste segreto, così come la decisione dei propri assistiti di avvalersi della facoltà di non rispondere a polizia, procura o giudice.
Da avvocati non possiamo non denunciare la gravità di un sistema normativo che non garantisce l’esercizio della difesa in quel Paese e fornisce strumenti per perseguire gli avvocati colpevoli solo di aver svolto il proprio ruolo. Il giusto processo necessita ovunque di un’avvocatura autonoma e indipendente. Senza di essa non è possibile parlare di tutela dei diritti e delle libertà.
Benché ogni ordinamento giuridico abbia le proprie disposizioni sul processo, ci sono alcuni principi che possiamo considerare patrimonio comune del diritto processuale: tra questi l’imparzialità e terzietà del giudice, il diritto di difesa, la parità delle parti nel processo, il principio del contraddittorio, la ragionevole durata del processo.
Da avvocati non possiamo non denunciare la gravità di un sistema normativo che non garantisce l’esercizio della difesa e fornisce strumenti per perseguire gli avvocati colpevoli solo di aver svolto il proprio ruolo.
L’esempio dei colleghi turchi è quello di una Avvocatura che è consapevole del ruolo sociale della professione, ruolo che porta l'avvocato a farsi interprete, nei confronti dei pubblici poteri, delle istanze di libertà e di difesa dei diritti, anche al di fuori delle aule processuali.
Purtroppo, il 2015 si è chiuso in Turchia con il barbaro assassinio dell’avv. Tahir Elci, presidente del Consiglio dell’Ordine della città di Dyarbakir, al termine di un intervento pubblico nel quale aveva sottolineato con forza la secolare storia di tolleranza e convivenza civile in quella città, da sempre crocevia di genti di cultura e religione differenti, condannando gli atti di inaudita violenza contro alcune minoranze, tra cui quelle curda, maggioranza invece in quella città e contro il patrimonio storico e artistico, che si vuole cancellare per eliminare appunto le tracce della convivenza civile tra popoli e religioni diverse.
Altro esempio di un’avvocatura protagonista del cambiamento e dell’affermazione dei valori democratici è quella tunisina, insignita del Nobel per la pace 2015 quale componente il “Quartetto per il dialogo tunisino per la pace” insieme a Confindustria, sindacati e Lega dei diritti umani. Una straordinaria esperienza che l’avvocatura italiana ha seguito con solidarietà e trepidazione fin dai giorni della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini del gennaio 2011.
Il Consiglio nazionale forense ha istituito una Commissione diritti umani ed un’altra per i rapporti in area mediterranea ed esponenti di queste commissioni si sono recati in Tunisia, subito dopo l’attentato al Bardo, per sottolineare la vicinanza degli avvocati italiani ai colleghi di quel Paese. È stato siglato un importante Protocollo di intesa in attuazione del quale è stata costituita una Commissione paritetica di avvocati dei due Paesi sui temi dell’immigrazione e dei matrimoni misti, insediatasi a Roma solo pochi giorni prima della notizia del Nobel.
Da allora il Cnf ha accompagnato i rappresentanti dell’Ordine nazionale tunisino nel percorso attraverso le principali città italiane dove questi ultimi hanno raccontato le loro esperienze. Il 27 febbraio a Bari, al Teatro Petruzzelli, nel corso di una cerimonia alla presenza delle massime autorità della Regione Puglia l’avv. Abdelaziz Essid ha fatto risuonare forte la sua voce contro l’inizio di bombardamenti indiscriminati sulla Libia, che finirebbero in un inutile massacro di civili inermi e per creare non pochi problemi alla stessa Tunisia, che già ha ospitato più di un milione di libici dopo la caduta di Gheddafi.
Il tragico attentato alla frontiera libico tunisina conferma l’estrema tensione nell’area.
Certo non possiamo rinunciare a combattere il terrorismo internazionale. La lotta va però condotta usando forze di polizia internazionale sotto l’egida dell’Onu e degli Organismi internazionali preposti e con una accorta attività di intelligence coordinata tra i diversi Stati. Anche sotto questo profilo il ruolo del’avvocatura, attraverso anche l’appoggio alle iniziative delle principali e più accreditate associazioni che si occupano della difesa dei diritti umani a livello internazionale, può dare un proprio contributo alla lotta al terrorismo senza mai deflettere nella lotta di ogni forma di compressione, diretta o indiretta dei diritti fondamentali.