La Spagna tra vecchio e nuovo terrorismo?
1. Gli antecedenti
In Spagna la risposta politica e giuridica al terrorismo internazionale è stata condizionata dall’esperienza recente e ancor viva del terrorismo interno e, in particolare, di quello riconducibile all’Eta.
L’Eta è nata nel 1958 dalla scissione del Partito nazionalista basco e ha compiuto la sua prima azione violenta nel 1961, durante la dittatura di Franco. Risale al 1968 il primo attacco mortale attribuito all’Eta.
Il regime ha reagito con gli strumenti tipici della risposta di tipo securitario: poteri alla polizia (senza molte garanzie legali); dichiarazione dello Stato di emergenza, se ritenuto necessario; Tribunali speciali.
Il trattamento penale del dissenso durante il regime di Franco si fondava su due leggi speciali, il cui nome è già sufficientemente esplicativo: la legge per la repressione della massoneria e del comunismo, del 1940, accompagnata dalla creazione di un Tribunale speciale per la sua applicazione, sostituito nel 1963 dal Tribunal de Orden Público(Top); la legge sul banditismo e terrorismo, che veniva applicata dai Tribunali militari e che prevedeva anche la pena di morte. Va ricordato che, a distanza di tempo dalla guerra civile, nel 1963, fu condannato a morte e fucilato Julian Grimau, accusato del solo reato di essere un dirigente del partito comunista.
L’epoca della nascita dell’Eta, la risposta del regime e la sua determinazione a considerare giuridicamente e politicamente tutta l’opposizione in termini di massoneria, comunismo, banditismo e terrorismo, utilizzando le leggi speciali, hanno prodotto un effetto perverso: l’Eta si è “autoqualificata” come patriottica, indipendentista, socialista e rivoluzionaria ed è stata inizialmente considerata, sia a livello nazionale che internazionale, come una parte dell’opposizione a Franco.
Non sorprende quindi che – quando, nel 1970, cercò di mettere in scena un grande processo contro l’Eta davanti al Tribunale militare della Capitaneria generale di Burgos, concluso con la pronuncia di sei condanne a morte – il regime dovette confrontarsi con un ampio movimento di protesta, sia nazionale che internazionale (con l’intervento anche di Papa Montini), di fronte al quale fu costretto a concedere la grazia ai condannati alla pena capitale.
Questa immagine dell’Eta come movimento politico e militare di opposizione al regime franchista raggiunse l’apice nel 1973 quando fu ucciso, con un’azione spettacolare, l’ammiraglio Carrero Blanco, presidente del Governo e delfino politico di Franco.
La transizione politica, iniziata nel 1977 dopo la morte del dittatore, portava con sé la speranza di porre fine all’azione dell’Eta. Tra i primi provvedimenti adottati a seguito delle elezioni generali del 1977 si segnala, per il rilievo non solo giuridico ma soprattutto politico, la promulgazione di un’amnistia generale che comprendeva tutti i tipi di reati di carattere politico, comprese le condanne per il terrorismo.
Tuttavia, né la scomparsa di Franco e dell’intero sistema giuridico di repressione adottato dal suo regime, né la transizione democratica e la legalizzazione di tutti i partiti politici e la conseguente amnistia generale, né la Costituzione democratica e la volontà degli spagnoli di superare il periodo precedente portarono alla scomparsa dell’Eta. Al contrario, i capi dell’organizzazione pensarono che una intensificazione dell’attività terroristica si sarebbe tradotta in una destabilizzazione del sistema democratico, a beneficio della politica autonomista, e i primi anni della democrazia spagnola sonno stati segnati dagli attentati più gravi dell’Eta.
L’Eta è responsabile della morte di 829 persone. Gli anni più sanguinosi sono stati il 1978 (con 65 omicidi), il 1979 (con 86 omicidi) e, soprattutto, il 1980 (con 99 omicidi). Dal 1980 al 1987 ci fu una media di 40 attacchi mortali ogni anno, superata nel 1991 (con 46 omicidi). Vittime non erano più solo i politici, i militari, i poliziotti e le guardie civili ma anche le loro famiglie e non solo: l’ETA ha infatti colpito con attacchi indiscriminati, come nel caso dell’autobomba fatta scoppiare nel parcheggio di un ipermercato di Barcellona, nel 1987, il cui bilancio fu di 21 morti e di 45 feriti.
Tutto questo ha prodotto un clima di pressione sui governi democratici, che è stato sfruttato dalla destra politica. Prima dai movimenti di estrema destra, ma alla fine, ed ancora oggi, dal Partido popular (Pp), che ha fatto sua la bandiera dell’antiterrorismo e della difesa, con una “strumentalizzazione” delle vittime.
La persistenza degli attentati dell’Eta e il suo impatto sulla società spagnola hanno condizionato in parte la vita politica e la risposta legislativa, sia penale sostanziale che processuale, al terrorismo, anche con riferimento al sistema penitenziario, tanto che le riforme politiche e legislative garantiste e di liberalizzazione si sono confrontate con proposte politiche e mediatiche per l’inasprimento del sistema penale e la restrizione delle garanzie processuali. Non va dimenticato, infine, che il terrorismo dell’Eta è stato utilizzato come principale giustificazione al tentato colpo di Stato del 1981.
È facile capire come questa pressione politica sia aumentata dopo il 1982, con la vittoria elettorale che ha dato inizio ai 14 anni di governo del Partito socialista (Psoe).
I governi successivi hanno cercato di affrontare il fenomeno autonomista/terroristico dell’Eta con misure politiche, con una maggiore efficienza dell’apparato investigativo della polizia e con misure legislative.
Si è caduti però nella tentazione di cercare di contrastare il terrorismo dell’Eta con la creazione del Gruppo antiterrorismo della liberazione (Gal), che nascondeva con difficoltà la realtà del suo operato. Quella del Gal fu una “guerra sporca” che ha portato ad attacchi contro presunti membri dell’Eta (anche con qualche errore madornale) e a torture comprovate. Forte è stata, per fortuna, la reazione politica e giudiziaria all’operato del Gal, che ha portato alla condanna e alla detenzione dei responsabili in posizione di rilievo come il Ministro degli interni, il Segretario generale della sicurezza dello Stato, un generale della Guardia civil.
A livello giuridico, la previsione delle fattispecie penali e delle sanzioni per il terrorismo è stata oggetto di leggi speciali. Fra queste va segnalata la Legge Organica n. 8/1984, contro le attività delle bande armate e gli elementi terroristici che, insieme all’inasprimento delle sanzioni e all’extraterritorialità della giurisdizione spagnola per perseguire il terrorismo, prevede come reato la collaborazione e il sostegno alla banda armata, e introduce un regime procedurale speciale. Tale regime si traduce nella possibilità per la polizia di effettuare perquisizioni senza un mandato, prevede una durata del fermo di polizia estesa ad un massimo di 10 giorni, sia pure con la comunicazione al giudice, e consente la detenzione in isolamento per lo stesso periodo. La legge stabilisce anche come regola la detenzione preventiva durante il processo e la chiusura di stabilimenti, di attività e di mezzi di informazione, e lo scioglimento delle associazioni.
Questo era, in sostanza, il sistema quando è stato promulgato nel 1995 il nuovo codice penale, la cui struttura segue a grandi linee i parametri più comuni nella criminalizzazione e nella punizione di attività terroristiche, con il definitivo superamento del sistema delle leggi speciali.
Data la difficoltà di trovare una definizione dottrinale accettata a livello internazionale del terrorismo, il reato base di appartenenza a un’organizzazione terroristica, come un tipo specifico di organizzazione criminale (artt. 515 e 516), è definito da un elemento oggettivo, l’organizzazione e lo scopo specifico: sovvertire l’ordine costituzionale o compromettere seriamente la pace pubblica. Questo reato base, di appartenenza ad una banda armata o ad un gruppo terroristico, è punibile in concorso con gli specifici atti commessi (come omicidio, devastazione, danneggiamento, minacce) (artt. 571 e segg.).
Ma se la legge penale spagnola non era sotto questo aspetto molto diversa da quelle di altri Paesi vicini (anche se è stata criticata una certa ambiguità nella definizione di terrorismo), quello che presenta alcuni discussi caratteri di specialità è il trattamento procedurale, in particolare per quanto riguarda la possibilità di detenzione in "incommunicado”.
Il testo originale della Legge di procedura penale, dal 1882, prevedeva che il giudice potesse avallare l’isolamento del detenuto per il tempo necessario, senza porre limiti, anche se si raccomandava una durata massima di cinque giorni.
Nel 1983 si è estesa la previsione dell’isolamento anche al fermo di polizia. Si consideri che, come abbiamo visto, la detenzione e la detenzione in isolamento per reati di terrorismo erano disciplinate da una legge speciale.
Il regime di isolamento e le accuse persistenti di tortura da parte dei membri dell’Eta arrestati (anche se, secondo alcuni autorevoli rapporti, redatti sulla base di documenti sequestrati all’Eta, la denuncia sistematica della tortura è anche parte della strategia di difesa dell’organizzazione) hanno provocato forti critiche alla legislazione che consente la detenzione in “incommunicado” da parte delle organizzazioni di difesa dei diritti umani, spagnole e internazionali, e da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto le garanzie di legge non sufficienti a prevenire la possibilità di torture.
In effetti, una visita nel 2003 di Theo van Boven, special rapporteur delle Nazioni Unite sulla tortura, si è conclusa con un rapporto estremamente critico che evidenziava che i maltrattamenti non erano certo una pratica regolare ma neppure fatti sporadici o incidentali, e che i meccanismi di indagine erano spesso inefficaci per varie ragioni. Le raccomandazioni formulate includevano l’abolizione della detenzione in “incommunicado”, la creazione di un piano globale per prevenire la tortura, l’accelerazione delle indagini sui maltrattamenti e la ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
Tutto questo ha determinato una modifica legislativa nel 2003 con la quale, da un lato i suddetti cinque giorni di isolamento sono stabiliti come limite legale (anche se in casi di terrorismo o di criminalità organizzata si permette l’estensione per altri cinque giorni, a condizione che sia indispensabile per le indagini) e, dall’altro, si dispone che il detenuto sia sottoposto a visita medica due volte al giorno e, se richiesto, anche da parte di un secondo medico, e che nel rendere dichiarazioni le persone detenute siano assistite da un avvocato, anche se d’ufficio.
I successivi special rapporteurs contro la tortura hanno anche raccomandato l’uso di mezzi audiovisivi per documentare le condizioni di detenzione in isolamento. La registrazione, inclusa nel cosiddetto “protocollo di Garzón” (dal nome del giudice che l’ha per primo disposta), è ordinata oggi regolarmente dai giudici istruttori centrali, con qualche eccezione.
Infine, per terminare questo capitolo sul quadro giuridico di risposta al terrorismo interno, fissato dopo la transizione democratica, e in gran parte ancora in vigore, va precisato che i condannati per atti terroristici possono essere sottoposti ad un trattamento carcerario differenziato. Devo però rilevare che la situazione di fatto dei prigionieri dell’Eta è stata e rimane in parte determinata da decisioni politiche dell’amministrazione carceraria, anche se certamente trovano un riferimento nella legislazione.
Queste decisioni comportano in particolare la dislocazione dei prigionieri dell’Eta in diversi istituti di detenzione spagnoli, in zone lontane dai Paesi Baschi.
2. Il momento attuale
Passiamo all’oggi. La prima domanda che ci poniamo è: che cosa è cambiato?
Il primo cambiamento, in modo molto significativo, si è verificato in relazione a ciò che era divenuta la nostra emergenza costante: l’Eta.
Malgrado sia rimasto il già citato utilizzo del reato di terrorismo, per scopi politici elettorali e di partito, si è perseguita, infatti, una politica di consenso antiterrorista, anche con il nazionalismo basco non collegato all’Eta, conclusa con la firma di un patto anti-terrorismo. Frutto di questo patto è la continuità di alcune politiche e la messa al bando dei partiti legati all’Eta, convalidata sia dalla Corte costituzionale spagnola che dalla Cedu in contrasto con i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea.
Ma il cambiamento fondamentale si è verificato nella società spagnola e nella società basca e nel loro atteggiamento nei confronti della violenza dell’Eta. Per un lungo periodo dopo la transizione democratica il sostegno elettorale per le formazioni politiche vicine all’Eta si era fermato a circa il 16% dell’elettorato basco. L’esistenza stessa dell’Eta e il suo ambiente sociale limitato ma molto attivo segnavano in un modo determinante la vita politica e sociale e lo stesso atteggiamento verso il terrorismo della società basca è stato al centro del dibattito politico.
Oggi, frutto senza dubbio dalla stessa irrazionalità dei progetti dell’Eta e anche del diverso contesto interno e internazionale, delle misure messe in campo dalla politica, dell’efficacia dell’azione delle forze dell’ordine, della cooperazione internazionale, in particolare con la Francia, ed anche della stanchezza della cittadinanza, il clima sociale nei confronti dell’Eta è cambiato drasticamente. La società basca si è liberata dal giogo posto dalla minaccia terroristica dell’Eta e dalle costrizioni sociali dell’ambiente di riferimento, e così il supporto per l’Eta si è ridotto in modo molto significativo e questo è stato, a mio parere, insieme alla sconfitta sul piano dell’organizzazione, il primo fattore fondamentale e decisivo per la tregua e per la successiva sospensione unilaterale delle attività dichiarata da un’Eta già fortemente indebolita.
Il cambiamento più evidente si è però verificato con l’emergere di un fenomeno nuovo e finora completamente sconosciuto in Spagna: il terrorismo islamico internazionale.
Nel 2003 ho condotto uno studio su quello che ho chiamato “l’impatto giuridico di 11-S”. Esaminavo i cambiamenti giuridici che si erano verificati prima negli Stati Uniti, ma anche nei Paesi europei, in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001. Rilevavo che l’impatto emotivo di queste azioni aveva portato all’accettazione di misure legislative di eccezione sempre poste nella stessa direzione: l’antiterrorismo era diventato una specie di mantra riassunto in un linguaggio bellicoso (“guerra al terrore”), con il quale si sono giustificate riforme restrittive dei diritti che in un altro contesto sarebbero state impensabili.
Tuttavia, questo effetto legislativo non si è verificato in Spagna nei primi anni. Probabilmente perché la dolorosa esperienza del terrorismo interno aveva portato già ad una “forte” legislazione penale e procedurale anti-terrorista.
Anche l’esordio clamoroso del terrorismo islamista in Spagna, con le bombe di Atocha dell’11 marzo 2004, che causarono 208 morti, non produsse nel primo momento un clima favorevole a misure legali restrittive diverse da quelle già esistenti.
La risposta giuridica e popolare agli attacchi del marzo 2004 furono un’indagine di polizia e un processo rapido e pubblico dei responsabili che può essere descritto come esemplare del punto di vista giuridico, e un atteggiamento altrettanto esemplare fu quello dei cittadini (ad eccezione di gruppi di stampa recalcitranti). In Spagna non ci sono stati episodi significativi di “chiusura” e anche qualche agenzia delle Nazioni Unite ha parlato della Spagna come di un esempio positivo di integrazione.
Tuttavia, la Spagna non è stata in grado di prevenire gli attacchi di questo nuovo fenomeno terroristico. Per posizione geografica e legami politici, storia e popolazione, era inevitabile il coinvolgimento del nostro Paese.
Non si sono verificati, è vero, nuovi attacchi dopo la strage di Atocha del 2004. Ma non si può dimenticare che alcuni degli incontri dei responsabili degli attacchi alle Torri Gemelle sono avvenuti in Spagna, che cittadini spagnoli hanno avuto qualche ruolo nella organizzazione della rete di al-Qaeda, che ci sono stati prigionieri spagnoli a Guantanamo e che qualsiasi propaganda del fondamentalismo islamico si riferisce alla riconquista di “al Andalus”. E che, e non potrebbe essere altrimenti, ci sono spagnoli in Siria e in Iraq nei ranghi di Daesh[1], il cui eventuale ritorno è un potenziale pericolo.
In Spagna sono state arrestate diverse persone e sono stati identificati gruppi con legami con al-Qaeda, con il salafismo o, di recente, con Daesh, per reati di raccolta di fondi, di trasferimento di “combattenti” e per altre attività di supporto.
Di conseguenza, la Spagna partecipa attivamente a tutte le strutture internazionali, siano esse politiche, giuridiche, di polizia e/o intelligence, che nel quadro europeo e in quello delle Nazioni Unite stanno cercando di far fronte a questo nuovo fenomeno. La Spagna ha anche firmato e ratificato tutte le Convenzioni internazionali ed europee contro il terrorismo e il suo finanziamento.
Ma in questo allineamento della Spagna agli altri Paesi del nostro contesto geografico e politico, ciò che non è cambiato è lo sfruttamento a scopi elettorali della lotta al terrorismo da parte di coloro che cercano di farne una bandiera, con la pretesa di presentare gli avversari, in particolare quelli di sinistra, come tiepidi, se non compiacenti con il fenomeno terroristico.
Tuttavia, nonostante la Spagna abbia già una legislazione sufficientemente rigorosa, la nuova minaccia terroristica, che probabilmente richiama alla memoria il ricordo degli anni duri dell’Eta, ha finito per provocare una serie di riforme legislative per “rafforzare” la lotta contro il terrorismo.
Il cambiamento più importante è stato introdotto dalla legge organica n. 5/2010. È stato modificato il sistema precedente e introdotto un capitolo specifico sotto la rubrica di “reati di terrorismo”. In esso, seguendo la decisione quadro 2008/919/GAI, si prevede l’esistenza di nuove forme di terrorismo, finora sconosciute, formate da piccoli gruppi autonomi, e dunque la definizione e la punizione dei gruppi terroristici è equiparata a quella delle organizzazioni terroristiche più stabili.
Per quanto riguarda la struttura della normativa, si sono raggruppati nello stesso capitolo l’appartenenza a gruppi o organizzazioni e la realizzazione di atti terroristici. Il concetto di collaborazione con un’organizzazione terroristica o di un gruppo, comprende comportamenti quali il reclutamento, l’indottrinamento, la formazione o l’addestramento a fini terroristici e la distribuzione al pubblico o la diffusione di messaggi o slogan di queste organizzazioni o gruppi.
Forse l’innovazione più importante è l’introduzione della misura della libertà vigilata dopo l’esecuzione della pena. Questa misura è inflitta nella sentenza ed è eseguita dopo la fine del periodo di detenzione, e verrà applicata in funzione della prognosi di rischio in quel momento. La durata è fissata per un periodo compreso tra cinque e dieci anni, con revisioni annuali.
Infine, il sistema carcerario è stato inasprito prevedendo requisiti più rigorosi e lunghi periodi di detenzione effettiva prima di consentire una qualche progressione nel “grado penitenziario” o un inquadramento nel terzo grado (regime aperto o semiaperto) o per la liberazione anticipata o condizionale.
L’ultima riforma si deve alla recente legge organica n. 2/2015. Nel preambolo è richiamata, come giustificazione alla riforma, la Risoluzione 2178 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che parla dei nuovi mezzi utilizzati dalle organizzazioni terroristiche come l’uso di internet e dei social network, dei terroristi suicidi e dei cittadini europei radicalizzati che si spostano nei vari Paesi per combattere. Per tutte queste forme di terrorismo, diverse dall’esperienza conosciuta finora in Spagna che comprendeva soltanto bande terroristiche coese e organizzate, si prevedono quindi nuove forme penali come la “definizione” del fenomeno del terrorismo individuale.
Ma accanto a queste modifiche tecniche o alla introduzione di norme penali per le nuove forme di terrorismo, riemerge l’inasprimento della risposta agli atti criminali con l’introduzione di una nuova pena: l’ergastolo per atti terroristici che provocano la morte di una o più persone. Questa pena può essere sottoposta a revisione dopo quindici o venti anni di carcere. Devo aggiungere che la previsione di questa nuova pena è stata fortemente criticata in quanto in contrasto con la finalità essenziale di reinserimento sociale e di riabilitazione prevista per tutte le pene dall’articolo 25.2 della Costituzione.
3. Alcune riflessioni conclusive
In conclusione, mi permetto di avanzare alcune riflessioni.
Ciò che non può essere ignorato o minimizzato è il rischio, reale, posto per le nostre società dall’esistenza di organizzazioni disposte a seminare il terrore in maniera indiscriminata per realizzare i loro obiettivi dichiarati. I recenti avvenimenti in Tunisia, Beirut, Ankara, Istanbul o Parigi[2] non hanno bisogno di essere commentati.
L’intensità e la pervasività della minaccia terroristica richiedono un’intensificazione della cooperazione sia fra gli apparati di polizia sia della cooperazione giudiziaria perché si possa agire in modo coordinato. In questo senso, le analisi più razionali dimostrano il valore aggiunto dello scambio e della condivisione di intelligence e di informazioni tra i Paesi, contro la sciocca pretesa secondo la quale, chiudendo le frontiere e guardando al nostro ombelico, saremo tutti più sicuri.
Non dobbiamo permettere che questa minaccia, benché molto concreta, finisca per annientare il nostro sistema di libertà, le garanzie, i diritti fondamentali e le garanzie giurisdizionali volte a far diventare il diritto penale, per questa parte, un insieme di principi incoerenti e non sistematici. O peggio, per condizionare tutto il sistema penale e processuale.
Un importante successo dei movimenti terroristici è già rappresentato dal clima di paura, che sono riusciti a seminare e che ha trasformato in un incubo, ad esempio, i controlli di sicurezza negli aeroporti e l’uso dei mezzi di trasporti collettivi. Non possiamo permettere che, con il pretesto della lotta al terrorismo, si arrivi a condizionare la nostra vita quotidiana e che le nostre società si trasformino in uno Stato di polizia, dominato dall’ansia di innalzare muri e di costruire recinzioni, e di controllare ed ingerirsi in ogni aspetto della vita quotidiana dei cittadini.
La Spagna, alla fine, non si è sottratta alla risposta “sicuritaria” che comporta:
- l’ampliamento delle fattispecie di terrorismo e la criminalizzazione di condotte connesse ma sempre più lontane del nucleo centrale dell’attività terroristica;
- l’inasprimento delle pene e delle misure punitive;
- l’accrescimento di poteri di polizia;
- la restrizione del diritto di difesa, con misure come la persistenza della detenzione in “incomunicado”.
Ritengo che, malgrado tutto, fino ad oggi l’insieme del sistema penale e di garanzie non sia stato compromesso.
Le occasioni di riflessione comune e di confronto, come quella rappresentata dal convegno di Pisa, ci aiuteranno certamente a trovare il punto di equilibrio necessario per rafforzare sia la nostra sicurezza che le nostre libertà, che in alcun modo possono considerarsi in antitesi.
[1] Dopo il seminario di Pisa sul terrorismo (11-12 marzo 2016), dove ho tenuto questa relazione, la stampa spagnola ha riportato la notizia che indica un cittadino spagnolo di origine siriana, Mustafa Setmarian, o Mussad Abu As- Suri, come capo militare di Daesh.
[2] Gli attacchi di Bruxelles si sono svolti qualche giorno dopo il convegno di Pisa in cui ho tenuto questa relazione.