1. Come le istituzioni cambiano funzione nel corso della loro evoluzione: il caso del giudice funzionario
E’ utile muovere, ai fini di una riflessione sui disegni di legge costituzionale per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura (AA. C. 23 – 434 – 806 - 824), da ciò che determinò la nascita del modello di magistratura dell’Europa continentale e da quale sia stato l’esito della parabola istituzionale che ha caratterizzato questo modello.
Al confronto con il modello anglosassone, che si basa sul principio di tradizione, quello europeo-continentale conosce una cesura fra antico e moderno ed è quella che apportano la Rivoluzione francese e poi l’organizzazione napoleonica. A seguito della concentrazione del potere nel sovrano democratico, dell’identificazione di diritto e legge e del superamento della commistione di funzioni amministrative e funzioni giurisdizionali che connotava l’ordinamento medievale, si spezza il legame fra i giudici e la comunità, quale specchio dell’organicità del corpo giudiziario alla società per ceti, e nasce il modello del giudice funzionario dello Stato. Il reclutamento del giudice avviene per via amministrativa, alla stregua di un qualsiasi funzionario statale, nella forma del concorso, che sarà quella dominante. L’equiparazione della funzione giudiziaria a quella burocratica sul piano organizzativo rispondeva alla necessità che la giurisdizione fosse mera legisdizione e che dunque il giudice fosse il passivo esecutore della legge. Per una sorta di eterogenesi dei fini, al momento del passaggio agli ordinamenti costituzionali novecenteschi, con l’apporto determinante del principio dell’autogoverno della magistratura, il modello del giudice funzionario reclutato per concorso si è caricato di un nuovo significato: è diventato garanzia di indipendenza «da ogni altro potere» (art. 104 Cost.). Diversamente dai sistemi di reclutamento basati sull’elezione diretta o sulla nomina da parte di un altro potere costituzionale (solitamente l’esecutivo), la selezione per concorso garantisce autonomia e indipendenza al magistrato (la nomina per concorso concorre «a rafforzare e a integrare l’indipendenza dei magistrati», ha affermato Corte cost. n. 1 del 1967). La stessa fedeltà assoluta alla legge, trasformandosi in soggezione «soltanto alla legge» (art. 101 Cost.), è diventata suprema protezione dalle interferenze degli altri poteri. Non solo. Il modello del funzionario reclutato per concorso è diventato la struttura in grado di esplicare la funzione giudiziaria secondo i nuovi moduli imposti dall’introduzione anche nell’Europa continentale del principio di supremazia della costituzione rispetto alla legge: il diritto oggettivo, alla cui applicazione è preposto il giudice, non è più solo quello dei codici ma è anche quello delle carte dei diritti fondamentali, cui il diritto codicistico deve essere necessariamente conforme, anche in via interpretativa, pena la sollevazione dell’incidente di costituzionalità.
E’ rimasto il modello napoleonico del giudice funzionario, ma quel modello ha acquistato un contenuto eterogeneo rispetto a quello originario. Questo dato deve farci riflettere su come le istituzioni siano macchine complesse, che non rispondono a semplici disegni fatti a tavolino, ma entrano in percorsi di metamorfosi per cui, restando formalmente uguali a se stesse, diventano funzione delle nuove aspettative del contesto storico ed ordinamentale. L’identificazione all’interno dell’ordine giudiziario di una magistratura requirente separata dalla magistratura giudicante e tuttavia autonoma e indipendente da ogni altro potere, governata da un proprio Consiglio superiore, composto per la parte togata esclusivamente da pubblici ministeri, e con un reclutamento per concorso separato, è mossa da un’intenzione genuinamente liberale: si limita il potere separandolo e contrapponendo al potere un altro potere. Ciò che intendo dimostrare è che la separazione delle carriere giudicante e requirente ha nel contesto dell’ordinamento italiano un effetto controintuitivo rispetto al programma del costituzionalismo liberale, perché è in grado di creare l’effetto indesiderato di una concentrazione di potere con tendenze centrifughe rispetto all’integrazione sistemica che deve pur sempre connotare un assetto pluricentrico (o ripartito) del potere. Si pensa di disegnare una istituzione conforme alla democrazia liberale, ma in realtà si sta creando una struttura che ha potenzialità di funzionamento destinate ad entrare in contraddizione con il principio liberale del potere limitato. Vediamo perché.
2. La separazione delle carriere e l’argomento del nuovo art. 111 Cost.
Dopo l’introduzione con legge costituzionale del principio del giusto processo si suole affermare che la figura del giudice terzo e imparziale, prevista dal nuovo art. 111 della Costituzione, imponga un pubblico ministero separato sul piano ordinamentale dal magistrato giudicante. Si tratta di un fraintendimento perché, come si evince dalla stessa distinzione in sezioni del titolo IV della Costituzione, l’art. 111 è norma sulla giurisdizione e non sull’ordinamento giurisdizionale ed è, con l’art. 24 sul diritto inviolabile di difesa, la norma fondamentale del processo e non dell’assetto organizzativo dell’ordine giudiziario. A presidio dell’imparzialità del giudice vi sono gli istituti processuali dell’incompatibilità, dell’astensione, della ricusazione e della rimessione del processo, mentre a presidio della terzietà vi è il principio dispositivo che affida l’iniziativa del processo e delle prove alle parti. E’ tanto vero che si tratta di norma sulla giurisdizione e non sull’ordinamento che nessuno, per quanto consta, ha mai sollevato un’eccezione di illegittimità costituzionale delle disposizioni processuali che contemplano la figura del pubblico ministero per violazione dell’art. 111. Se tale contrasto vi fosse, non sarebbe concepibile nelle azioni per responsabilità civile dei magistrati contro lo Stato l’intervento volontario del magistrato nel giudizio, previsto dall’art. 6 l. n. 117 del 1988, perché giudice e parte appartengono al medesimo ordine giudiziario. Più in generale, una controversia in cui sia parte un magistrato non potrebbe essere mai decisa da un altro magistrato, perché giudice e parte apparterrebbero entrambi all’ordine giudiziario. E’ evidente la ragione per la quale siano gli istituti, che disciplinano il processo, a dover garantire la terzietà ed imparzialità del giudice e non l’ordinamento della magistratura: il problema pratico che soggiace ai valori della terzietà ed imparzialità attiene al processo, non all’ordinamento.
L’argomento dell’art. 111 ha, in realtà, un effetto indesiderato proprio dal punto di vista del costituzionalismo liberale. Il pubblico ministero è una parte in senso processuale e non in senso sostanziale. Se dall’art. 111 inferiamo la necessità di una separazione ordinamentale del pubblico ministero dal giudice, vuol dire che consideriamo il primo una parte in senso non solo processuale, ma anche sostanziale. Quale parte processuale il pubblico ministero esercita l’azione penale e, siccome la parte sostanziale dovrebbe essere espressione di quella processuale, con l’argomento dell’art. 111 abbiamo costruito un ordine istituzionale il cui interesse pubblico è quello - invero inesistente - di accusare. L’argomento dell’art. 111 veicola così in modo irriflesso un’immagine della magistratura requirente quale portatrice di tendenze centrifughe rispetto all’ordinamento costituzionale dei poteri. Un potere pubblico identificato dall’interesse ad accusare spezza l’integrazione sistemica della sfera pubblica e diventa un potere in diaspora dall’assetto costituzionale.
3. Processo accusatorio e verità materiale: quale pubblico ministero
In realtà, la tesi della separazione delle carriere muove da più lontano nel tempo rispetto alla revisione dell’art. 111 e risale, come è noto, all’introduzione del rito accusatorio, che fa del processo penale un processo di parti. Il pubblico ministero separato dal giudice sul piano ordinamentale è una sicura conseguenza del modello ideale di processo accusatorio, ma le realtà istituzionali non corrispondono mai a quelli che Max Weber chiamava tipi ideali. Deve essere chiaro che il principio del contraddittorio non è solo il principio cardine del processo per la nostra carta costituzionale, ma è stato anche, prima della revisione costituzionale del 1999 dell’art. 111, una conquista di civiltà. La verità “si fa” nel confronto dialettico nel senso che è la prova ad essere formata in modo dialettico innanzi al giudice, e non in modo unilaterale come faceva il giudice istruttore in sede di istruzione formale nel processo inquisitorio prima del 1989.
Secondo il tipo ideale di rito accusatorio la verità è il prodotto di un dibattito, e non lo specchio della realtà, da cui consegue, sempre sul piano ideal-tipico, la caratteristica fondamentale di questo stile processuale, come ricorda M. R. Damaska nel suo fondamentale I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo. Poiché scopo del processo è la risoluzione delle controversie, l’iniziativa probatoria non è affidata al giudice, che così perderebbe la propria neutralità, ma alle parti, nell’ambito di uno scontro ad armi pari nel quale fonte di legittimazione della sentenza è la vittoria dello scontro forense. Il processo penale in Italia non ha però accolto la concezione retorico-argomentativa di verità che il modello ideale di rito accusatorio propone.
A partire dalla sentenza costituzionale n. 255 del 1992 sull’acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese se utilizzate per le contestazioni, il diritto vivente è nel senso che l’intero sistema processuale è improntato ad un serie di principi di cui è parte essenziale quello dell’accertamento della verità materiale. Si pensi alla confessione, che nel rito accusatorio puro ha la valenza di nolo contendere e dunque di rinuncia al dibattimento, mentre per la nostra giurisprudenza può costituire prova sufficiente della responsabilità di colui che la renda a condizione che il giudice ne apprezzi favorevolmente la veridicità, la genuinità e l'attendibilità, sulla base dunque di un test parametrato sulla verità materiale. Si pensi anche a disposizioni processuali quali l’art. 513 c.p.p., sulla lettura delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso delle indagini preliminari in caso di rifiuto di sottoposizione all’esame, o l’art. 507 c.p.p., sulle nuove prove disposte d’ufficio dal giudice terminata l’istruzione dibattimentale.
Fondare sul processo accusatorio la separazione delle carriere giudicante e requirente significa informare l’assetto istituzionale del pubblico ministero ad una concezione agonistica della verità che il rito processuale non persegue. A fronte di una disciplina processuale che mira a rendere coerente la formazione dialettica della prova con la salvaguardia della ricerca della verità materiale, si costruisce una figura istituzionale, basata sul tipo ideale di rito accusatorio, che entra in contraddizione con la concreta declinazione che tale rito conosce nel diritto processuale italiano. Una volta separata sul piano ordinamentale dalla magistratura preposta all’attuazione della giurisdizione, la magistratura requirente viene schiacciata sull’attuazione dello scontro forense. Il pubblico ministero non è più parte solo processuale, ma è parte sostanziale, portatrice di un – inesistente, come si è detto- interesse pubblico ad accusare, interesse che nel processo deve trovare realizzazione.
Non c’è qui solo la contraddizione fra un processo orientato alla ricerca della verità materiale ed un ordine giudiziario - quello requirente - preposto all’attuazione dello scontro forense. C’è anche il contrasto con la natura di organo di giustizia che il pubblico ministero possiede nella fase delle indagini preliminari prima della sua trasformazione in parte processuale con l’esercizio dell’azione penale. Nella sede delle indagini preliminari egli non è parte ma è organo di giustizia, come lo definisce la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 88 del 1991), e lo è non solo in senso formale, quale garante della conformità a diritto degli atti compiuti dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari, ma anche in senso materiale. Come è noto, in base all’art. 358 c.p.p. il pubblico ministero non solo compie ogni attività necessaria per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, ma anche «svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini». Nella richiesta al giudice delle indagini preliminari di emettere una misura cautelare, il pubblico ministero è poi tenuto a presentare «gli elementi su cui la richiesta si fonda, nonché tutti gli elementi a favore dell'imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate» (art. 291 c.p.p.). Si ricordi, infine, il richiamo, nel regolamento dell’Unione europea istitutivo della Procura Europea (Eppo), al principio di imparzialità: «l’Eppo svolge le indagini in maniera imparziale e raccoglie tutte le prove pertinenti, sia a carico che a discarico» (art. 5.4).
Si tratta di una funzione di giustizia che non può essere derubricata a mero accertamento funzionale alla valutazione che presiede alla richiesta di archiviazione, e cioè l’assenza di una ragionevole previsione di condanna (art. 408, comma 1, c.p.p.), valutazione che, pur oggetto di accertamento giurisdizionale («il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna» - art. 425, comma 3, c.p.p.), rinvia indubbiamente alla logica della funzione accusatoria. Che si tratti di una funzione di giustizia lo si ricava dalla circostanza che se la previsione di indagini a favore dell’indagato mancasse, ugualmente la norma sull’archiviazione prevederebbe il presupposto dell’assenza di una ragionevole previsione di condanna. E’ quest’ultima una previsione autosufficiente e non dipendente da quella che introduce il dovere di raccogliere le prove a discarico, previsione che acquista, a questo punto, un significato autonomo rispetto alla funzione di accusa. Naturalmente quest’ultima funzione non resta indifferente rispetto alla funzione di giustizia, per cui se il pubblico ministero accerterà positivamente che il fatto non è stato commesso dall’indagato, richiederà sempre l’archiviazione, sia pure con la formula dell’assenza di una ragionevole previsione di condanna. Ciò significa che l’archiviazione rinvia comunque ad una funzione di giustizia, e lo testimonia la rubrica dell’art. 408, che parla di «infondatezza della notizia di reato», la quale è nozione più lata dell’assenza di una ragionevole previsione di condanna e che rinvia alle cause della sentenza di non luogo a procedere. E’ evidente il perché l’art. 408 non parli di insussistenza del fatto o di fatto non commesso dall’indagato: si tratta di un giudizio, che solo un giudice può emanare.
L’esercizio dell’azione penale è dunque l’esito di un accertamento imparziale circa l’esistenza delle sue condizioni, sulla base di una posizione assolutamente neutrale rispetto ad ogni ipotesi accusatoria. L’indagine officiosa sulla verità materiale a cura di un magistrato prima della chiusura delle indagini preliminari resta tuttavia un’eco dello stile inquisitorio. Non si tratta però di un corpo estraneo nel processo accusatorio ma di un’ulteriore conferma del fatto che il principio del contraddittorio, innestato nella tradizione italiana, non fa della verità il mero esito di una competizione.
4. Un’istituzione preposta alla vittoria nello scontro forense: i rischi per il costituzionalismo liberale
Il punto di vista del processo consegna l’immagine di una magistratura requirente, separata da quella giudicante, costruita sulla base di un’ideologia, quale quella dello scontro forense e della concezione agonistica della verità, che appartiene al tipo ideale di modello accusatorio, ma non alla forma concretamente assunta dal processo penale in Italia. Se spostiamo l’angolo di osservazione, dal processo all’ordinamento della magistratura, cogliamo la vera criticità della separazione delle carriere per i valori del costituzionalismo liberale, valori che il disegno della separazione delle carriere intende pur perseguire. Cosa comporta per la democrazia liberale una magistratura requirente, autonoma e indipendente da ogni potere, con un proprio Consiglio superiore composto per la parte togata esclusivamente da pubblici ministeri? E’ necessario tornare a ragionare in termini di tipi ideali.
Il costituzionalismo occidentale propone due modelli istituzionali di potere pubblico. Da una parte vi è quello europeo-continentale, nel quale la costituzione è l’indirizzo fondamentale dei poteri pubblici per cui le istituzioni, benché plurali, sono unificate da un medesimo indirizzo da perseguire che la costituzione ha posto a criterio direttivo dell’agire istituzionale, ad esempio il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 cpv. Cost.. Dall’altra vi è il modello anglo-sassone, e segnatamente statunitense, secondo cui la costituzione è un’articolazione di poteri separati in funzione di garanzia delle libertà individuali. E’ la concezione delle separated institutions sharing power di James Madison in base alla quale ciascuna istituzione sviluppa propri indirizzi coerenti alla propria prestazione funzionale e l’effetto di libertà risiede nel gioco del potere che frena l’altro potere. Sul piano astratto ciascun modello ha i suoi costi: quello europeo-continentale ha il costo del deficit in termini di garanzia delle libertà derivante dal tendenziale monismo istituzionale richiesto dalla condivisione di un medesimo indirizzo fondamentale; quello anglo-sassone ha il costo dell’agnosticismo valoriale derivante dal fatto che il pluralismo istituzionale non predica nessun valore se non quello dell’effetto liberale derivante dal controllo reciproco fra poteri. Proprio perché i modelli astratti hanno i loro svantaggi, le realtà istituzionali sono sempre ibridazioni di assetti diversi, anche se è indubbio, come si evince dalla stessa definizione del modello, che, quanto meno per origini storico-culturali, nella tradizione europeo-continentale vi sia una tendenziale prevalenza del modello della costituzione-indirizzo e nella tradizione statunitense di quello della costituzione-garanzia.
Il progetto di separazione delle carriere giudicante e requirente si ispira chiaramente al modello del pluralismo istituzionale di origine anglosassone, ma da tale modello, alla luce della disarmonia già rilevata con la concreta forma del processo, eredita solo gli svantaggi e non anche i vantaggi. L’effetto di garanzia della libertà nel processo penale non è il risultato della dinamica del controllo reciproco fra istituzioni, ma di una procedura che sia conforme al principio costituzionale del giusto processo. Non vi sono istituzioni in giustapposizione, ma il giudice e le parti processuali, e la protezione della libertà dagli abusi di potere è affidata al rispetto del precetto sancito dall’art. 111 Cost.. La separazione nel corpo dell’ordine giudiziario assume invece il costo del pluralismo istituzionale, l’agnosticismo valoriale. L’ordine giudiziario unitario esprime un indirizzo fondamentale, coerentemente al paradigma di potere pubblico ispirato al modello della costituzione-indirizzo, ed è quello dell’attuazione della giurisdizione mediante l’applicazione del diritto. L’ordine giudiziario separato al suo interno esprime le logiche funzionali ai propri corpi separati. L’attuazione della giurisdizione mediante l’applicazione del diritto si converte da indirizzo fondamentale dell’ordine giudiziario in prestazione funzionale del solo corpo della magistratura giudicante. La magistratura requirente si identifica con la propria logica funzionale, la vittoria nello scontro forense. Non c’è più un valore fondamentale, quale è l’applicazione del diritto, che trascenda la prestazione funzionale del proprio corpo istituzionale, ma vi è solo quest’ultima, e cioè l’accusa. Il pubblico ministero non è più parte solo in senso processuale, ma lo è, definitivamente, in senso sostanziale. E’ il soggetto pubblico che persegue l’interesse ad accusare. La parità fra accusa e difesa sarebbe così raggiunta, ma sul piano funzionale della parzialità dell’interesse che ciascuna parte persegue (accusare e difendere) in modo indipendente dalla verità materiale, e con la sproporzione strutturale che deriva dal fatto che l’accusa, a differenza della difesa, dispone sia di un complesso rilevante di mezzi procedimentali sia della polizia giudiziaria.
La democrazia liberale è a rischio quando si costruisce un’istituzione autonoma e indipendente da ogni altro potere che sia governata esclusivamente dal principio funzionale della vittoria nella competizione forense. Quando la magistratura associata parla di necessità di mantenere il pubblico ministero nella cultura della giurisdizione, è a questo che pericolo che guarda.
5. La costruzione di un ordine verticalizzato e la burocratizzazione dell’organo di governo autonomo.
I pericoli per il costituzionalismo liberale si aggravano vieppiù quando, come in tre dei quattro progetti di legge costituzionale in esame, si sopprime il terzo comma dell’art. 107 Cost., che recita che «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni».
Questa norma ha una radice profondamente liberale. Non si tratta solo del riconoscimento che nella singola estrinsecazione dell’organo giudiziario precipita la totalità della giurisdizione (sulla base della giurisprudenza costituzionale sui conflitti di attribuzione, ogni singolo giudice va considerato come potere dello Stato). La distinzione per funzioni sancisce il carattere diffuso del potere giudiziario e perciò nullo, per dirla con Montesquieu, quale potere istituzionale perché esercitato su domanda di parte in un caso concreto. Indipendenza e autonomia, unitamente al principio dell’autogoverno, presuppongono la struttura orizzontale dell’ordine giudiziario, a garanzia non solo di quell’indipendenza ma anche della forma liberale dell’esercizio del potere. Se si elimina la struttura orizzontale dell’ordine giudiziario, resta l’esposizione della magistratura al principio di gerarchia che caratterizza la pubblica amministrazione e si pongono le basi di un mix di verticalizzazione del potere, indipendenza ed autogoverno che è in grado di nuocere ai valori del costituzionalismo liberale, come si evince chiaramente dalla funzionalizzazione dell’ordine requirente al risultato della vittoria nella competizione forense. Per un verso, infatti, si spezza l’equilibrio fra indipendenza interna del pubblico ministero e potestà di organizzazione e di direzione spettante al titolare dell’ufficio di procura, che il d. lgs. n. 106 del 2006 preserva in conformità del vigente terzo comma dell’art. 107 Cost., per l’altro si struttura un’istituzione organizzata per progressione gerarchica (procuratore della Repubblica, procuratore generale presso la Corte d’appello, procuratore generale presso la Corte di cassazione), uniformata all’indirizzo della vittoria nello scontro forense. L’effetto è che nel processo verrebbero a fronteggiarsi il difensore, integralmente assorbito dal caso, e l’accusa, espressione invece di una logica precostituita al singolo caso in ragione dell’appartenenza del pubblico ministero ad un’istituzione verticistica e funzionalizzata alla vittoria forense. Il quadro tendenzialmente illiberale di una siffatta istituzione si completa ove si pensi che il pubblico ministero per Costituzione (art. 109), ancor prima che per il codice processuale (art. 327), dispone direttamente della polizia giudiziaria
La soppressione del terzo comma dell’art. 107 non è «consequenziale rispetto alla separazione formale dell'ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente», come si legge nella relazione di presentazione delle quattro proposte di legge costituzionale. Ipotizzando l’introduzione della detta separazione formale, la norma potrebbe ben essere formulata nel senso che «i magistrati, nei rispettivi ordini giudicanti e requirenti, si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni», senza far cadere la costitutiva orizzontalità dell’ordine giudiziario. L’esito illiberale della revisione costituzionale è poi reso evidente dalla proposta n. 806, la quale prevede che il Consiglio superiore della magistratura sia presieduto, rispettivamente, dal Primo presidente della Corte di Cassazione e dal Procuratore generale della Corte di cassazione, in luogo del Presidente della Repubblica. Si perde qui il garante dell’integrazione sistemica del governo autonomo nell’ordinamento costituzionale.
La presidenza del Consiglio affidata al Presidente della Repubblica è garanzia non solo dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, ma anche della coerenza del governo di quest’ultimo all’equilibrio di poteri disegnato dalla Costituzione. Come è stato efficacemente detto, il Presidente, per il carattere moderatore e “persuasivo” delle sue funzioni, «non decide, ma può costringere gli altri a decidere». Il Presidente della Repubblica in funzione di Presidente del Consiglio superiore è un elemento centrale della coerenza costituzionale del governo autonomo.
Il punto deve far riflettere anche a proposito dell’introduzione, con tre delle proposte di legge costituzionale, della tassatività dell’enumerazione delle competenze del Consiglio, per cui, ferme le competenze sulle assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati, «altre competenze possono essere attribuite solo con legge costituzionale» e non più solo dalla legge ordinaria, come prevede l’art. 10 della legge n. 195 del 1958. E’ arduo negare che appartengano ai “poteri impliciti” costituzionali dell’organo di autogoverno della magistratura la formazione delle tabelle degli uffici giudiziari (attuazione del principio del giudice naturale precostituito per legge di cui all’art. 25 Cost.), disciplinata dagli artt. 10 bis della legge n. 158 e 7 bis r.d. n. 12 del 1941, e l’interlocuzione con il Ministro della giustizia, sia con le proposte in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, che con i pareri sui disegni di legge in materia di ordinamento giudiziario e amministrazione della giustizia, sulla base del secondo comma dell’art. 10. Si tratta di competenze, previste da legge ordinaria, che rispecchiano la natura di organo di rilievo costituzionale del Consiglio, secondo la definizione contenuta nella sentenza costituzionale n. 148 del 1983, e la sua funzione di governo autonomo della magistratura. Del resto, secondo la teoria dei poteri impliciti la legalità costituzionale è rispettata se il potere implicito è avvinto da un nesso di strumentalità al potere esplicito o al sistema ordinamentale nel suo complesso e, in particolare, ai principi generali che presiedono all’esercizio del potere giuridico assegnato al soggetto che pretende di esercitare il potere implicito. Come negare, ad esempio, il nesso di strumentalità del potere di formazione delle tabelle degli uffici giudiziari ai poteri espliciti attribuiti dall’art. 105 Cost.? La questione è dunque quella della conformità alla funzione costituzionale dell’organo delle singole attribuzioni che possono venire dalla legge ordinaria (art. 10, comma 3, legge n. 158), e non quella della tassatività costituzionale della enumerazione delle competenze. Competenze previste dalla legge ordinaria possono essere espressione di poteri impliciti alle attribuzioni costituzionali. Per il resto, il tema è quello della formazione dell’ordine del giorno del Consiglio e qui non può non valere il richiamato ruolo del Presidente della Repubblica, al cui assenso l’ordine del giorno è sottoposto dall’art. 70 del regolamento, di garante della coerenza dell’esercizio dei “poteri impliciti” del Consiglio al quadro delle compatibilità costituzionali.
La via della tassatività dell’enumerazione delle competenze del Consiglio, unitamente a quella del superamento della designazione della componente togata per via elettiva (tre proposte di legge costituzionale parlano di scelta «con le modalità stabilite dalla legge», la proposta n. 806 semplicemente di componenti «nominati» dai magistrati), conducono, in realtà, alla configurazione dell’organo del governo autonomo come «Consiglio di amministrazione burocratica del personale (del genere presente in ogni ministero)», come è stato icasticamente detto a proposito della designazione per sorteggio dei membri togati (ma il generico rinvio alle «modalità stabilite dalla legge» non esclude la possibilità che sia prevista la scelta da parte del Governo o direttamente da parte del Ministro della Giustizia). C’è una sostanza rappresentativa in ogni organo costituzionale, che rinvia all’essere quest’ultimo espressione di un’azione costituente. Togliere all’organo costituzionale l’anima rappresentativa significa trasformarlo da espressione di una volontà costituente in istituzione di amministrazione di interessi. Svuotare l’organo di governo autonomo della magistratura del criterio rappresentativo per affidarlo alla casualità del sorteggio, ipotesi ammessa dalla modifica costituzionale che si propone, significa derubricarlo ad apparato di burocrazia amministrativa. Il criterio elettivo deve permanere e deve, soprattutto, essere scritto in Costituzione se si vuole lasciare la rilevanza costituzionale dell’organo di autogoverno. La riconducibilità alla volontà parlamentare dei membri non togati non è sufficiente ad impedirne la deriva burocratico-amministrativa se la componente qualificante dell’autogoverno, e cioè i membri togati, è del tutto priva della dimensione rappresentativa.
6. Gli ulteriori tasselli di un disegno
In realtà, tutto si tiene. Tutto trama nella direzione della costruzione di un ordine requirente che può entrare in collisione con i principi del costituzionalismo liberale. Si dà vita ad una macchina istituzionale la cui prestazione funzionale è quella della vittoria nella competizione forense, macchina indipendente da ogni potere ma a struttura burocratica perché verticalizzata e governata da un apparato nella sostanza amministrativo, stante l’assenza di legittimazione rappresentativa e la rigorosa tassatività dei compiti. La forza centrifuga dell’ordine giudiziario requirente non è bilanciata dall’avere trasformato la quota non togata del Consiglio superiore da un terzo alla metà dei componenti non di diritto, come risulta da tutte le proposte di legge costituzionale (tre proposte sono nel senso della «scelta» parlamentare, la proposta n. 806 è nel senso della «nomina» per un quarto dal Presidente della Repubblica – che perderebbe la carica di Presidente del Consiglio superiore – e per un quarto dal Parlamento). Nel costituzionalismo liberale l’effetto di libertà è dato dalla dinamica del potere che frena il potere, ma qui quale potere esterno frena sul piano istituzionale un ordine giudiziario funzionalizzato al risultato della vittoria nello scontro forense e verticalizzato per il venir meno della distinzione solo per diversità di funzioni dei magistrati requirenti? E’ pur vero che c’è il giudice nel processo, ma il tema qui in discussione non è il processo, bensì l’ordinamento delle magistrature e dunque l’assetto complessivo dei poteri. Abbiamo ritoccato la composizione dell’organo di governo, ma non abbiamo un potere che freni la diaspora dell’ordine requirente dal sistema dei poteri.
L’introduzione dell’equiparazione numerica dei componenti togati (non di diritto) e di quelli non togati non solo è priva di efficacia in relazione alle tendenze centrifughe della magistratura requirente che il disegno di revisione costituzionale lascia prefigurare, ma rappresenta anche un’alterazione ingiustificata dei vigenti equilibri costituzionali. L’equiparazione numerica viene infatti prevista senza che nulla cambi nell’assetto istituzionale dei poteri. Si tratta di una revisione costituzionale che avrebbe avuto senso se parallelamente fosse stata prevista una modifica dell’attuale equilibrio dei poteri. Si faccia, ad esempio, l’ipotesi di una modifica dell’art. 101, comma 2, Cost. nel senso che “i giudici sono soggetti soltanto alla costituzione”. Una tale previsione avrebbe introdotto un sindacato diffuso di costituzionalità con la facoltà per il giudice comune di disapplicare nella singola controversia la norma ritenuta incostituzionale, fermo restando l’efficacia erga omnes della sola incostituzionalità dichiarata dalla Corte costituzionale. Una simile eventualità avrebbe spostato l’equilibrio dei poteri, sia pure nei limiti di una cognizione della questione di costituzionalità soltanto incidentale perché limitata al caso concreto, ed avrebbe perciò richiesto una forma di bilanciamento, come l’intervento sulla proporzione numerica dei membri togati e non togati dell’organo di autogoverno. Le presenti proposte di legge costituzionale non apportano alcun mutamento all’equilibrio dei poteri. L’attuale proporzione numerica rispecchia il vigente assetto dei poteri: alterarla senza modificare quell’assetto è operazione ingiustificata che si traduce in un bilanciamento non proporzionato rispetto alla salvaguardia del principio del governo autonomo della magistratura.
Per la verità, una forma di modifica nell’assetto dei poteri, ma in peius per la magistratura, si registra in tre delle proposte di legge costituzionale (AA. C. 23 – 434 – 824), ed è la sostituzione nell’art. 104 dell’autonomia e indipendenza «da ogni altro potere» con «da ogni potere». Anche questa è una modifica che, come il generale disegno di separazione delle carriere, non raggiunge il suo obiettivo. Si intende così affermare che la magistratura non sarebbe un potere, ma in realtà l’organo giudiziario, quando compie un atto di esercizio della funzione giurisdizionale, non solo esercita ma è un potere previsto dalla costituzione. A nulla vale dunque prevedere che la magistratura è autonoma e indipendente «da ogni potere» invece che «da ogni altro potere». Si perde così la felix culpa che connota l’esercizio del potere da parte di un soggetto istituzionalmente identificato come ordine e non potere, e che la lungimiranza del costituente del ’48 colse. La magistratura esercita un potere ma come istituzione è un ordine perché, a differenza di quanto accade con il potere di formazione delle leggi e quello di darvi esecuzione, l’organizzazione e il funzionamento dei mezzi apprestati per l’esercizio del potere non è affidata al potere medesimo ma ad un altro potere, il Governo e segnatamente il Ministro della giustizia (art. 110 Cost.). Questa scissione di potere e mezzi, connaturata all’affidamento di un potere costituzionale ad un funzionario, è l’effetto della declinazione europeo-continentale del carattere “nullo” di questo potere, che non è espressione dell’indirizzo di un’istituzione, ma è esercizio di una funzione costituzionale per un caso concreto e su domanda di parte. In conclusione, la magistratura è potere nell’esercizio della funzione, ma è ordine in quanto istituzione. Sostituire, come si fa in tre delle proposte di legge costituzionale (AA. C. 23 – 434 – 824), l’attuale rubrica del Titolo IV “La Magistratura” con “L’ordine giudiziario”, significa smarrire la virtuosa ambivalenza di potere e ordine che l’attribuzione della «funzione giurisdizionale» (art. 102, comma 1, Cost.) a un corpo di magistrati possiede.
L’esclusione della magistratura dai poteri dello Stato reca poi con sé un inevitabile interrogativo: quid iuris nel caso dei conflitti di attribuzione? può ancora la magistratura essere parte di un conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato? La nuova norma costituzionale conduce ad un paradosso: se l’ordine giudiziario non è un potere non può essere parte di un conflitto di attribuzione, ma, essendo autonomo e indipendente da ogni potere, nessun potere risponde dei suoi atti. Poiché, come è lecito ritenere, la magistratura può e deve essere ancora parte del conflitto, pena la sottrazione al sindacato costituzionale dei suoi atti lesivi di attribuzioni di poteri dello Stato (o pena l’esclusione della possibilità di elevare il conflitto in presenza della menomazione della giurisdizione), la derubricazione a mero ordine è un’operazione di facciata che non muta l’essenza di potere dello Stato. Cosa pensare di un documento costituzionale che non definisce “potere” ciò che, per lo stesso documento costituzionale, non può non essere un potere?
Ultimo tassello di una visione che entra in contrasto con i principi fondanti l’ordinamento della magistratura nella vigente Costituzione è il reclutamento non per concorso, che in tre delle proposte di legge costituzionale (AA. C. 23 – 434 – 824) viene previsto, di avvocati e di professori ordinari universitari di materie giuridiche «a tutti i livelli della magistratura giudicante». Scompaiono i filtri che il vigente terzo comma dell’art. 106 prevede per il reclutamento quali consiglieri di Cassazione (norma che verrebbe sostituita dalla nuova disposizione), e cioè l’avere gli avvocati svolto quindici anni di servizio e soprattutto il criterio dei «meriti insigni», che costituisce il vero strumento di selezione alternativo a quello del concorso. Ciò che tuttavia entra profondamente in contrasto con il vigente fondamento costituzionale della magistratura è che mentre i consiglieri di Cassazione per meriti insigni sono chiamati all’ufficio su designazione del Consiglio superiore, a garanzia dell’autonomia e indipendenza dei magistrati non reclutati per concorso, in base alla nuova disposizione «la legge può prevedere la nomina», il che, essendo la mera previsione legislativa requisito necessario e sufficiente, non esclude che la legge possa prevedere una nomina di fonte governativa. E’ inutile evidenziare il contrasto di un simile esito con i valori fondanti l’attuale assetto della magistratura giudicante ordinaria. Né può farsi riferimento al rinvio nel comma 2 dell’art. 106 alla legge sull’ordinamento giudiziario per quanto concerne la nomina dei magistrati onorari. In primo luogo perché la magistratura onoraria resta un corpo peculiare, al punto che la Costituzione ammette per essa anche la nomina elettiva. In secondo luogo, la menzione della legge sull’ordinamento giudiziario stabilisce una saldatura con l’art. 105, in base al quale le assunzioni spettano al Consiglio superiore «secondo le norme dell’ordinamento giudiziario». La proposta di legge costituzionale menziona semplicemente «la legge» e non «la legge sull’ordinamento giudiziario», svincolando la previsione dal nesso con l’art. 105. Si introduce così nel testo costituzionale un’incoerenza: da una parte l’art. 105 che attribuisce al Consiglio superiore le assunzioni dei magistrati, ivi compresi quelli onorari, dall’altra una disposizione che non esclude che la legge possa attribuire al Governo la nomina di una parte della magistratura giudicante.
7. L’eterogenesi dei fini
Riannodiamo le fila del discorso. Un progetto di revisione costituzionale, animato dai principi del costituzionalismo liberale, è soggetto al concretissimo rischio dell’eterogenesi dei fini, come è accaduto con il giudice funzionario, che l’ideologia napoleonica programmò per la burocratica esecuzione della legge, ed invece, proprio grazie alla selezione per concorso, è oggi non solo indipendente da ogni potere ma anche garante dei diritti costituzionali al cospetto della legge ordinaria. Quest’ultima eterogenesi dei fini si è rivelata virtuosa, non lo sarà quella che verosimilmente potrebbe produrre la separazione delle carriere giudicante e requirente. E’ inutile qui indulgere in discorsi comparatistici che guardano ad ordinamenti in cui quella separazione esiste, peraltro, senza considerare, che un pubblico ministero, separato dalla magistratura giudicante, ma autonomo e indipendente, è un inedito nel contesto internazionale (si noti che è frequente, nei paesi europei dove vige la dipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo, la presenza di un giudice istruttore – figura presente nel nostro vecchio rito inquisitorio -, quale garanzia di investigazioni indipendenti dall’esecutivo). Un cantiere di riforme istituzionali in un Paese non può essere aperto senza la consapevolezza di quale sia la sua storia e tradizione costituzionale.
Il processo penale ha in Italia, come abbiamo visto, un volto determinato e la magistratura nel suo complesso è andata costruendosi sulla base di determinati equilibri costituzionali. Toccare quei meccanismi, senza adeguata consapevolezza e lungimiranza, significa assumere il rischio concretissimo di uno sconvolgimento istituzionale. Quel rischio, come ho cercato di dimostrare, non risiede nella sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo. L’argomento dell’associazionismo giudiziario, al riguardo, è debole perché si espone ad una facile replica. Il progetto di revisione costituzionale programmaticamente esclude l’esito della sottoposizione al potere esecutivo, perché scrive in Costituzione l’autonomia e indipendenza del pubblico ministero. Il rischio risiede, invece, proprio nella costruzione di un pubblico ministero autonomo e indipendente, ma costituzionalmente separato dalla magistratura giudicante. L’attentato non è all’indipendenza del pubblico ministero, ma all’assetto liberale del potere. La storia politico-istituzionale dimostra che gli effetti perversi sono sempre dietro l’angolo delle migliori intenzioni.
All’idea del potere che frena il potere soggiace la visione del realismo politico. Un’autentica cultura liberale non insegue le sirene delle risposte semplici ed elementari, concependo ingenuamente astratti disegni a tavolino senza considerare la complessità dei processi storici ed istituzionali. L’approccio liberale, proprio perché ha una visione realistica della natura umana, esercita le virtù della prudenza e della lungimiranza quando l’obiettivo è il contenimento della potenza.
Noi abbiamo ereditato dal vecchio processo inquisitorio un assetto unitario dell’ordine giudiziario. Le peculiarità del processo accusatorio italiano consentono ad una struttura sorta in un’altra epoca, come per la parabola del giudice funzionario, di integrarsi agevolmente nel nuovo contesto processuale. La struttura istituzionale del pubblico ministero appartenente ad un unitario ordine giudiziario, eredità del processo inquisitorio, ben può assolvere la nuova funzione di parte processuale in un processo informato al principio costituzionale del contraddittorio, allo stesso modo del giudice funzionario che, eredità dell’impianto burocratico napoleonico, parla oggi il linguaggio dei diritti costituzionali grazie all’indipendenza sancita dal reclutamento per concorso. Le criticità vanno affrontate al livello della disciplina processuale e della formazione e professionalità dei magistrati e non al livello dell’assetto ordinamentale. Ad esempio, il dovere del pubblico ministero di svolgere attività d'indagine a favore dell'indagato non è presidiato da alcuna sanzione processuale, sicché la sua violazione non può essere dedotta con ricorso per cassazione fondato sulla mancata assunzione di una prova decisiva (Cass. pen. n. 4042 del 2022; n. 47013 del 2018; n. 10061 del 2013). Si può ipotizzare una modifica della disciplina che comporti delle conseguenze al livello del processo nel caso di inottemperanza da parte del pubblico ministero al dovere d’indagine anche a favore dell’indagato? Intervenire invece al livello dell’assetto ordinamentale, nella direzione indicata dai progetti di legge in esame, significa entrare in un campo ignoto dal punto di vista costituzionale e gravido di pericoli.
8. Distinguere obbligatorietà dell’azione penale e organizzazione dell’ufficio di procura
Un’ultima parola, infine, sulla proposta di modifica dell’art. 112 Cost. nel senso che «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge». Si tratta di una revisione normativa che sembrerebbe dare una copertura costituzionale all’art. 1 d. lgs. n. 106 del 2006, come modificato dall’art. 13 l. n. 71 del 2022, secondo cui «il procuratore della Repubblica predispone, in conformità ai principi generali definiti dal Consiglio superiore della magistratura, il progetto organizzativo dell’ufficio, con il quale determina […] i criteri di priorità finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre e definiti, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, tenendo conto del numero degli affari da trattare, della specifica realtà criminale e territoriale e dell’utilizzo efficiente delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili». A completamento di ciò, l’art. 41 d. lgs. n. 150 del 2022 ha introdotto nelle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, un nuovo art. 3-bis che prevede che «nella trattazione delle notizie di reato e nell'esercizio dell'azione penale il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell'ufficio».
Le nuove norme ordinarie lasciano trasparire quella che è stata definita una concezione realistica di obbligatorietà dell’azione penale, la quale non entra in contraddizione con il vigente principio costituzionale («il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale» - art. 112 Cost.). Si tratta di un assetto che può essere definito “multilivello” dell’azione penale, per la pluralità di attori che, su piani diversi, sono chiamati alla sua definizione. La legge si limita a definire «criteri generali», la normativa secondaria del Consiglio superiore della magistratura delimita ulteriormente i «principi generali» e, infine, il progetto organizzativo del procuratore della Repubblica, sulla base dei livelli precedenti, fissa i criteri di priorità, tenendo presenti tre variabili: il numero degli affari da trattare, la specifica realtà criminale e territoriale e l’utilizzo efficiente delle risorse. Queste tre variabili sono i presupposti di conformità della fissazione di criteri di priorità al principio di eguaglianza, e dovrebbero pertanto ispirare la cornice generale predisposta dalla normativa primaria e secondaria, condizionandone la conformità a Costituzione, perché realizzano il principio di eguaglianza sostanziale il quale, come è noto, impone che situazioni diverse siano trattate in modo diseguale. L’effetto complessivo di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge discende dall’adeguamento del perseguimento dei reati alle diverse situazioni concrete. La conformità dunque al vigente art. 112 del nuovo assetto normativo discende dal criterio di eguaglianza sostanziale che vi presiede e dalla molteplicità dei livelli decisionali che sono chiamati a realizzarlo, in funzione di garanzia della sua attuazione.
Il valore dell’eguaglianza sostanziale, alla base della normativa di carattere organizzativo, presuppone tuttavia l’enunciazione del principio di eguaglianza formale al livello costituzionale. L’eguaglianza sostanziale è filiazione di quella formale e pertanto presuppone l’affermazione di quest’ultima. In pratica, la regola costituzionale è norma sulla giurisdizione a garanzia dell’eguaglianza formale, la disciplina ordinaria è norma sull’organizzazione, la quale persegue il valore dell’eguaglianza sostanziale a garanzia di quella formale. E’ questa la ragione per la quale l’attuale art. 112 non impedisce al legislatore ordinario di configurare le modalità di fissazione delle priorità nella repressione dei reati, ferma restando per Costituzione la natura obbligatoria dell’azione penale. La proposta di modifica dell’art. 112, escludendo l’obbligatorietà dell’azione penale, ed affidandone i presupposti di esercizio alla legge ordinaria, confonde invece i due piani, stabilendo un corto circuito fra norma sulla giurisdizione e norma sull’ordinamento, che entra in contraddizione con il principio di eguaglianza formale.
L’art. 112 è norma sulla giurisdizione, mentre la fissazione dei criteri di priorità appartiene, allo stesso modo delle tabelle degli uffici giudicanti (secondo l’indicazione di «allineamento» a queste ultime contenuta nella legge delega – art. 1, comma 9, lettera i l. n. 134 del 2021 – e relativa attuazione con la legge n. 71 del 2022), alla «amministrazione della giurisdizione», ossia ad un’area riconducibile in ultima istanza alla sezione I del titolo IV, dedicata all’«ordinamento giurisdizionale». E’ pur vero che i criteri di priorità nella trattazione dei processi non hanno una valenza puramente organizzativa, ma incidono anche sulle scelte procedimentali del pubblico ministero. Il cerchio si chiude però con la considerazione che l’indipendenza interna del pubblico ministero trova limite nella titolarità esclusiva dell’azione penale in capo al titolare dell’ufficio (art. 2 d. lgs. n. 106 del 2006), ferma la piena autonomia del singolo magistrato nel corso delle udienze penali (artt. 70, comma 4, r.d. n. 12 del 1941 e 53 c.p.p.). I criteri organizzativi in base ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio dell’azione penale hanno perciò una immediata ricaduta nel procedimento perché il titolare dell’azione penale è anche il titolare del potere di organizzazione dell’ufficio.
La legittimità costituzionale della disciplina di recente introduzione deriva sul piano formale dalla sua inerenza alla sfera ordinamentale, sul piano materiale dal fatto del perseguimento del valore dell’eguaglianza sostanziale. Ricondurre nell’enunciazione del principio costituzionale il profilo dell’organizzazione e direzione dell’ufficio di procura, come fa la proposta di modifica dell’art. 112, comporta una contaminazione di piani eterogenei che va a detrimento della forza di un principio previsto a garanzia dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e dell’indipendenza della magistratura requirente. Contraddittorio è spostare all’interno del principio di obbligatorietà dell’azione penale la sfera organizzativa dell’ufficio, non lo è invece fissare criteri organizzativi e direttivi del lavoro dei magistrati che, restando per l’appunto a tale livello, ed essendo ispirati dal criterio della diversità delle situazioni, non entrano in contraddizione con il principio. La nuova disciplina non ha pertanto bisogno di copertura costituzionale, mentre entra in contraddizione con principi fondanti l’assetto costituzionale la modifica proposta.
Può affermarsi, per concludere, che intanto la legge ordinaria può prevedere i modi di esercizio dell’azione penale, in quanto la Costituzione preveda l’obbligo del suo esercizio a garanzia dell’eguaglianza formale, affidando così alla legge il compito di inverare il principio di eguaglianza mediante il trattamento diseguale di situazioni diseguali. La legge, poi, intanto sarà conforme a Costituzione, in quanto sia posta a tutela dell’eguaglianza sostanziale e del principio di indipendenza della magistratura requirente, la quale resta la titolare esclusiva dell’esercizio dell’azione penale.
L’audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati si è tenuta il giorno 25 gennaio 2024.