- Procura Generale Corte di Cassazione - direttive disciplinare
- Procura Generale Corte di Cassazione - integrazione direttive disciplinare
L’antico monito dei glossatori «A chiaro testo non fare oscura glossa» conserva intatta la sua validità e la sua forza dissuasiva.
Perciò in questa breve nota non ripercorreremo analiticamente passaggi e contenuti dell’ampio documento che pubblichiamo integralmente: l’atto con il quale la Procura generale della Corte di cassazione, nel procedimento disciplinare nei confronti di Luca Palamara e altri, enuncia i criteri ai quali si è attenuta nel selezionare e valutare il materiale informativo che le è stato trasmesso dalla Procura della Repubblica di Perugia, tanto ai fini del procedimento in corso quanto in relazione a eventuali iniziative disciplinari successive.
Ci interessa invece svolgere qualche riflessione sul significato complessivo dell’iniziativa e sulle sue molteplici valenze.
Il documento della Procura ha infatti una triplice natura e funzione.
E’ un atto di trasparenza e di impegnativa chiarezza.
E’ un utile regolamento di confini.
E’ il passo iniziale dell’esplorazione di una terra, se non incognita, ancora largamente sconosciuta.
Un impegno di chiarezza e di trasparenza
Un impegno di chiarezza e trasparenza, si è detto, valido per il presente e per gli sviluppi futuri della vicenda sul terreno disciplinare.
La Procura generale ha ricevuto dal Pubblico Ministero di Perugia, in più tempi e fino al giugno 2020, «una vasta gamma di informazioni e di dati archiviati all’interno del dispositivo elettronico nella disponibilità del dott. Luca Palamara».
Oggi - al termine di un complesso lavoro di selezione, classificazione ed analisi del materiale trasmesso - il Procuratore generale avverte l’esigenza di chiarire le ragioni per cui ritiene che il compendio multimediale acquisito sia utilizzabile in sede disciplinare e di esplicitare le modalità di catalogazione del materiale ricevuto.
Di particolare rilievo è in questo contesto l’individuazione e il ribadimento dei limiti dell’azione della Procura generale.
Limiti “soggettivi” propri della giurisdizione disciplinare che concerne solo le condotte dei magistrati ordinari professionali; con la conseguente irrilevanza di comportamenti tenuti da “non magistrati” anche quando in teoria tali condotte possano essere oggetto di valutazioni sul piano della deontologia di altre categorie.
Limiti “oggettivi” che riguardano i dati sensibili coinvolgenti terzi estranei e aspetti riservati della vita privata, da trattare e verificare nel rispetto delle regole di necessità e proporzionalità contenute nella normativa in tema di privacy.
Sin qui sulla vicenda da cui origina il procedimento disciplinare si è riversato di tutto.
Lo stillicidio, sapientemente orchestrato, della pubblicazione di conversazioni e di messaggi del più diverso tenore e della più diversa rilevanza; l’indignazione, ma anche la confusione e lo stordimento con cui magistrati e cittadini hanno accolto le rivelazioni; le suggestioni di chi ha creduto di potere cogliere nello scandalo romano delle nomine l’occasione per un atteso regolamento dei conti con la magistratura e con il giudiziario; le più spericolate e punitive proposte di riforma.
Ora, nella brutta storia che approda al giudizio disciplinare e dalla quale forse altri giudizi scaturiranno, ritornano le parole ed i metodi del diritto : accertamento, verifica, valutazione, limite, distinzione.
E’ un risultato necessariamente parziale – perché la verifica decisiva sarà compiuta nel fuoco del contraddittorio e del giudizio - ma da salutare con favore perché pone le premesse per un accertamento rigoroso dei fatti e delle responsabilità e aiuta a collocare sui giusti binari la difficile attività del giudice disciplinare.
Un’azione di regolamento dei confini
E’ ancora un’opera di distinzione e di ricognizione di limiti e confini quella che la Procura generale compie nell’elencare i diversi piani su cui si collocano le condotte emerse dalle indagini perugine: penale, deontologico, professionale, disciplinare, della responsabilità civile.
La prima linea di demarcazione è quella che corre tra codice disciplinare e codice etico dei magistrati la cui redazione venne affidata dal legislatore all’Associazione nazionale magistrati con i decreti legislativi n. 29 del 1993 e 165 del 2001.
Quella “delega” implicava il riconoscimento del ruolo storico dell’associazionismo italiano e del fatto che l’associazione unitaria dei magistrati - in forza del suo patrimonio di riflessione e di continua elaborazione sulla figura del magistrato e sul ruolo che deve svolgere nella società e nelle istituzioni – è la naturale depositaria e l’interprete di un’etica professionale molto complessa come è quella del magistrato e che essa è se non l’unico , almeno il primo soggetto in grado di enucleare ed aggiornare i valori e le regole di questa etica.
Un riconoscimento istituzionale di non poco conto, soprattutto se lo si confronta con le polemiche del presente nelle quali l’associazione e l’associazionismo sono additati in toto non solo come realtà anguste, corporative, clientelari ma come fenomeni sociali negativi da contrastare o addirittura da estirpare.
Già prima che scoppiasse lo scandalo romano delle nomine e che si manifestassero tutte le sue ulteriori ricadute abbiamo ricordato, sulle pagine di questa Rivista, che l’etica professionale del magistrato non è il regno dei buoni sentimenti né un’immobile Arcadia ma un aspro campo di battaglia nel quale non sono mai mancati conflitti e divisioni.
Ma i conflitti e le divisioni sul modo di intendere e praticare l’etica professionale devono continuare a svolgersi nel mondo giudiziario e nella società, senza invadere la sfera del giudizio disciplinare che resta destinato a confrontare i comportamenti addebitati ai singoli magistrati con gli illeciti tipizzati dal legislatore.
Un discrimine, questo, tanto agevole da enunciare sul piano teorico quanto arduo da tener fermo nel corso della tempesta che ha investito la magistratura italiana. Che a ribadirlo sia l’organo titolare dell’iniziativa disciplinare ci sembra la prima garanzia di giudizi fino in fondo aderenti ai fatti e non impropriamente alterati dai clamori, dai risentimenti e dai furori che hanno accompagnato le vicende di quest’ultimo anno.
Del pari ci sembra significativo che il Procuratore generale sottolinei le differenze che corrono tra la sfera del giudizio disciplinare e le più ampie valutazioni che il Consiglio Superiore sarà chiamato a compiere sulla professionalità dei magistrati in vario modo implicati, nella consapevolezza che l’indipendenza personale e la correttezza dei comportamenti sono parte integrante del profilo professionale di ogni magistrato.
L’avvio di una esplorazione
Concettualmente più complessa è la parte finale del documento della Procura nella quale si affrontano i temi della soggezione dei membri togati del CSM alla giustizia disciplinare e della non punibilità dei componenti del Consiglio Superiore «per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto della discussione», sancita dall’art. 32 bis della legge n. 195 del 1958 introdotto dall’art. 5 della legge n. del 1981.
Sul primo versante – la sottoposizione alla giurisdizione disciplinare dei membri togati del CSM – la conclusione è relativamente agevole.
Lo status di magistrato, con il suo corredo di doveri, non viene meno per il solo fatto che il magistrato si trovi ad esercitare funzioni diverse da quelle giurisdizionali.
Tale affermazione vale a maggior ragione per un ruolo - quello di membro togato del Consiglio Superiore - al quale si può accedere “esclusivamente” in ragione del possesso della qualifica di magistrato.
In altri termini poiché è l’effettivo e attuale status di magistrato che consente la costituzione originaria e la permanenza nell’arco del mandato quadrienniale del rapporto di rappresentanza e del diritto di partecipazione alle attività consiliari, il componente togato del CSM resta “naturalmente” soggetto alla giurisdizione disciplinare , sia pure con i limiti e le peculiari garanzie connesse alle funzioni esercitate nell’organo di governo autonomo della magistratura.
Con l’altrettanto naturale corollario che non può esservi spazio per l’ibrido di componenti togati del Consiglio che, non essendo più magistrati (ad es. perché dimissionari dalla magistratura o collocati in quiescenza ) proseguano nell’esercizio delle funzioni consiliari quando siano privi dello status che ne ha consentito l’elezione, risultino svincolati da tutti i relativi doveri ed esenti dalla giurisdizione disciplinare oltre che estranei ad ogni logica di rappresentatività dei loro elettori, che sono i magistrati in servizio.
E’ sul diverso versante della particolare “immunità” riconosciuta a tutti i Consiglieri, togati e laici, del CSM che emergono però i problemi più nuovi e per certi versi più spinosi.
La garanzia voluta dal legislatore ha una latitudine assai ampia, essendo destinata a coprire non solo la responsabilità disciplinare ma anche quella civile e penale scaturenti dalle manifestazioni di pensiero dei componenti del Consiglio, che il legislatore ha voluto libere da timori e da qualsiasi forma di autocensura.
Il limite dell’immunità risiede invece nel nesso, stretto e rigoroso, con le funzioni esercitate dal consigliere e con lo svolgimento delle relative attività tipiche e nel fatto che l’immunità opera solo nei casi di effettiva “pertinenza” delle opinioni espresse all’oggetto delle discussioni previste dalle dinamiche consiliari.
L’immunità non potrà perciò essere invocata dal consigliere per atti e comportamenti che realizzino una “distorsione” delle funzioni rispetto alle finalità per cui sono attribuite (di volta in volta di valutazione professionale, di nomina ad incarichi direttivi, di comparazione tra diversi magistrati e così via ).
Correttamente nel suo documento la Procura generale non va al di là di questa formulazione generale, né si avventura sul terreno di una casistica o di una esemplificazione delle possibili “distorsioni” tali da comportare la caducazione dell’immunità.
Saranno perciò i giudici disciplinari, nel vivo dei giudizi e nella disamina delle diverse fattispecie concrete, a dover chiarire quali siano le circostanze (tempi, luoghi, qualità degli interlocutori, natura e contenuti delle interlocuzioni, conformità o difformità rispetto al fisiologico svolgimento delle funzioni consiliari) che possano far ritenere varcata la soglia della garanzia accordata dall’ordinamento e compromessa la libera collegialità voluta dal legislatore per il corretto funzionamento del Consiglio Superiore.
Naturalmente anche in questo caso, come avviene puntualmente nelle più travagliate vicende giudiziarie del Paese, non mancheranno - accanto a critiche argomentate e puntuali- deformazioni caricaturali dei meccanismi e delle regole del giudiziario ed interpretazioni arbitrarie e faziose delle decisioni che verranno assunte, qualunque esse siano.
Ma i processi ed i giudici esistono per questo. Per funzionare come parafulmini sociali che - nel decidere i conflitti ed i casi più duri , aspri e divisivi - attirano su di sé una parte dell’elettricità che pervade le società e la scaricano sul terreno della razionalità grazie ai loro metodi di azione: la tensione verso l’imparzialità all’atto del decidere, la serietà degli accertamenti compiuti, la capacità di ascolto delle diverse ragioni, il rigore nello spiegare i motivi delle loro determinazioni.
Ci sono perciò buoni motivi per sperare che i giudizi in corso – disciplinari e penali – segnino una svolta positiva nel confronto in corso sullo stato della magistratura e della giustizia in Italia e concorrano a ricollocarlo sui binari della razionalità e del rispetto del diritto.