1. La questione dell’accesso al pubblico impiego dei cittadini stranieri si è posta nel corso del tempo in termini sempre più problematici ed urgenti, essendo collegata da un lato alla rapida trasformazione del mercato del lavoro, con l’insediamento stabile sul territorio nazionale di comunità delle più diverse etnie e provenienze, e dall’altro alla sovrapposizione di fonti diverse e di diversa forza, in un quadro normativo segmentato e talvolta poco coerente.
La trasformazione della concezione stessa di “pubblico interesse” e, soprattutto, delle modalità dell’azione amministrativa per perseguirlo, l’affidamento all’esterno a soggetti privati di attività accessorie e complementari, la frammentazione delle forme contrattuali del lavoro subordinato e il ricorso anche da parte della PA a forme precarie di lavoro, che non vengono considerate parte della dotazione organica, elementi questi a cui si contrappone l’emanazione di testi normativi diversi, con parziale sovrapposizione del rispettivo ambito di applicazione, statuenti in via generale il principio di parità di trattamento e uguaglianza di diritti fra lavoratori italiani, comunitari e stranieri, hanno determinato un contesto problematico esponendo la PA a un vasto contenzioso sia con lavoratori cittadini extracomunitari, sia con lavoratori italiani o comunitari qualora questi ultimi si vedano sopravanzare in graduatoria dai primi.
2. Le principali fonti normative di riferimento sono costituite, in progressione storica, dagli artt. 4, 97, 98, 51 Cost., dal dpr n. 3/57 (art. 2), dai Trattati istitutivi della Comunità Europea e successive modificazioni, integrati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, dalla Convenzione OIL n. 143/1975, dal TU n. 286/98 e succ. mod., dal d. legisl. n. 165/01, come mod. dalla L n. 97/13 in relazione al DPCM n. 174/94, dalla direttiva 2000/43/CEE e dal d. legisl. n. 215/03 di attuazione.
In base a queste disposizioni la controversa questione della persistente vigenza del requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego, anche per le attività lavorative non implicanti esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri e non attinenti all’interesse nazionale, è stata variamente risolta dalla giurisprudenza di merito, seguendo vie di interpretazione talora diverse, e si è determinato un contrasto fra parte della stessa, quella che afferma il superamento del requisito della cittadinanza, e la giurisprudenza di legittimità, che da ultimo con la sentenza n. 18523/14 ha ribadito l’orientamento contrario.
La sentenza della Corte di Cassazione in commento ricalca la precedente n. 24170/06, talvolta letteralmente, adattandola con l’esame delle disposizioni successive, esplicitando in modo più chiaro la posizione di chiusura a una rivisitazione dei precedenti arresti giurisprudenziali per verificarne la tenuta razionale rispetto a una interpretazione alternativa delle norme internazionali, costituzionali, ordinarie in vigore e ai mutamenti intervenuti nella organizzazione sociale e nella attività della pubblica amministrazione.
3. La decisione si presta a una analisi su due livelli: quello degli argomenti esposti sul piano logico-giuridico formale e quello delle opzioni di valore, non espresse o indirettamente espresse, che costituiscono le ragioni sostanziali della sentenza .
L’argomento a cui viene fatto più volte ricorso è l’argomento letterale, sia nella variante interpretativa o argomento letterale in senso stretto (non si interpreti nei casi chiari), sia nella variante produttiva o argomento “a contrario”(data una previsione espressa se ne può desumere che per i casi non contemplati vi sia una regola implicita che ne escluda l’applicazione: laddove la legge volle, disse, laddove tacque, non volle).
E così la sentenza procede all’esame dell’art. 38 d. legisl n. 165/01, del successivo art. 70, comma 13 e dell’art. 2 del dpr n. 487/94 desumendo dalla previsione letterale del diritto di accesso al pubblico impiego, con le limitazioni di cui DPCM n. 174/94, per i cittadini UE e le altre categorie di cui all’art. 25 d. legisl. n. 251/07, come modificato dall’art. 7 L n. 97/13 (familiari di cittadini UE titolari di diritto di soggiorno, cittadini di paesi terzi titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o titolari dello status di rifugiato o dello status di protezione sussidiaria) la regola “a contrario” della permanente volontà legislativa di esclusione degli altri cittadini stranieri, a prescindere dalla natura della attività lavorativa da svolgere, per ogni posto di lavoro presso la PA, anche se non implicante l’esercizio di pubbliche funzioni.
L’argomento strettamente letterale viene poi utilizzato per affermare che l’art.2 comma 3 d. legisl. n. 286/98 e gli artt. 15 e 21 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nello stabilire la parità di “condizioni di lavoro” fra cittadini e stranieri, non possono essere riferiti anche alle “condizioni di accesso” all’occupazione. E viene utilizzato per attribuire al termine “legittime” utilizzato dagli artt. 43 d. legisl. n. 286/98 e 3 comma 4 d. legisl, n. 215/03 il significato di “previste da norme di legge”.
L’argomento letterale, nelle sue due varianti, interpretativa e produttiva, è un argomento che ha intrinsecamente un apprezzabile grado di arbitrarietà, perché desume da un non detto una regola che non solo non è espressa ma non è neppure necessariamente implicita. Usualmente questo argomento, nella giurisprudenza soprattutto delle Corti Superiori, non viene mai utilizzato da solo, ma con altri argomenti, o come riscontro o a riscontro delle conclusioni tratte dalla formulazione della disposizione, e principalmente con l’argomento di interpretazione sistematica, diretto a verificarne la coerenza razionale con i principi che reggono l’ordinamento giuridico o quella parte dell’ordinamento giuridico in cui le norme oggetto di interpretazione sono inserite. L’argomento sistematico non è sempre facilmente fruibile, basandosi su una sorta di presunzione di intrinseca coerenza del sistema che può rivelarsi fallace, ma è un argomento che diviene doveroso se le disposizioni da interpretare si inseriscono in una produzione normativa importante con una gerarchia fra le fonti.
4. Ed è proprio nello sforzo di interpretazione sistematica, e nel ricorso ad altri argomenti a sostegno, che si palesa la fragilità della decisione.
Il primo passaggio evocativo del criterio sistematico, anche in prospettiva storica, è quello che introduce il riferimento al dpr n. 3/57 TU Impiegati civili dello Stato per affermare che l’art. 2, che richiede la cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego, deve essere riletto con le restrizioni introdotte dall’art. 38 d. legisl. n. 165/01 e succ. mod., ma esprime una perdurante volontà legislativa di esclusione dei cittadini stranieri.
In realtà non viene condotta una analisi delle norme richiamate che sfoci nella individuazione di una “ratio”, anche in prospettiva storica e di collegamento del principio di libertà di stabilimento sancito dai Trattati UE (artt. 45 e 51 TFUE) con le direttive sul divieto di discriminazione. Ci si limita a ribadire che dalle stesse risulterebbe sul piano letterale la persistente richiesta o la salvezza di questo requisito, con le eccezioni specificamente introdotte.
Nello stesso modo l’esame delle disposizioni di cui al d. legisl. n. 286/98, rispetto alle quali pure vi è un tentativo di visione d’insieme, viene condotto in modo frammentario e solo per richiamare le disposizioni che richiedono per particolari attività il requisito della cittadinanza o ne prescindono, così confermandone la permanente necessità.
Senza però spiegare quale sia il passaggio logico dalla natura della attività che può giustificare una restrizione all’accesso alla necessità del requisito della cittadinanza in ragione della natura pubblica del soggetto datore di lavoro.
La motivazione si arresta davanti al rilievo del dato letterale anche nell’esame congiunto, quindi tendenzialmente di interpretazione sistematica, degli artt. 2, 3 comma 1 e 4 d. legisl. n. 1215/03 e del richiamo all’art. 43, commi 1 e 2, TU n. 286/98, focalizzando l’attenzione sull’uso del termine “legittime” dal quale desume “che la discriminazione è comportamento illecito, non configurabile se tenuto in esecuzione di disposizioni normative”.
E non diversamente l’argomento di interpretazione sistematica è solo abbozzato nella ricostruzione del significato degli artt. 97, 98 e 51 cost., rimanendo inespresso in che cosa consista la fedeltà implicata nel “servizio esclusivo della Nazione” e il perché questo concetto dovrebbe prevalere sul disposto dell’art. 51 Cost., la cui formulazione consentirebbe, secondo la stessa Corte,di distinguere all’interno dell’impiego pubblico secondo la natura delle funzioni affidate con il rapporto di lavoro.
Ed è interessante che con riferimento a “pubblici uffici” di cui all’ art. 51 Cost. venga escluso l’argomento letterale variante produttiva, che consentirebbe la distinzione rispetto ad attività che non comportino l’esercizio di poteri autoritativi o non siano connesse alla tutela dell’interesse nazionale. L’esclusione viene giustificata richiamando“le altre norme” ostative,ovvero l’art. 97 e 98 Cost. di cui però non sono definiti chiaramente significato e “ratio” e di cui neppure viene esaminata e affermata l’impossibilità di una interpretazione diversa da quella assunta.
5. Non più felice è poi il ricorso ad altri argomenti a sostegno della interpretazione restrittiva e letterale su cui è basata la decisione.
Non lo è l’argomento autoritativo, perché le due decisioni della Corte Costituzionale richiamate (sentenza n. 454/98 e ordinanza n. 139/11) così come sono neutre e non possono sostenere la testi della lavoratrice ricorrente, non contenendo alcuna statuizione espressa sulla materia controversa, altrettanto sono neutre rispetto alla affermazione della persistenza e non discriminatorietà del criterio della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego per attività che non implichino l’esercizio di pubbliche funzioni (in realtà l’ordinanza di inammissibilità restituendo gli atti al giudice remittente perché la questione era già stata posta con una possibilità di interpretazione costituzionalmente orientata, affermativa della non necessità della cittadinanza per l’accesso agli impieghi non implicanti esercizio di pubbliche funzioni, è forse un po’ più sbilanciata verso l’accoglimento di questa tesi e non è così neutra).
Non lo è l’argomento della volontà del legislatore, inteso oltretutto come legislatore storico incarnato dai parlamentari che hanno proposto gli Ordini del giorno durante i lavori di approvazione delle modifica all’art. 38 d. legisl. n. 165/01 e ciò per una duplice ragione: perché questo argomento di interpretazione è il meno significativo, non essendo certo possibile stabilire quale sia stata l’effettiva volontà delle singole persone che hanno svolto un ruolo nella approvazione, rilevando come volontà quella oggettiva desumibile dal testo e non quella soggettiva di chi lo ha predisposto, e perché proprio gli interventi richiamati non sono dirimenti, essendo solo diretti a ottenere un’esplicita presa di posizione del Governo per la definitiva parificazione di tutti i cittadini stranieri con un chiarimento espresso, in sede anche solo attuativa/interpretativa (“in sede di applicazione”), su una materia rispetto alla quale si sono sovrapposti testi normativi non coordinati e di forza diversa. Ordini del giorno fra l’altro accolti dal Governo, anche se poi non è seguita nessuna specifica istruzione o interpretazione ministeriale.
6. L’altro piano di lettura, quello delle opzioni di valore a monte della scelta dell’argomento di logica giuridico formale di volta in volta utilizzato, che danno conto delle ragioni sostanziali della decisione, consente invece di apprezzare una coerenza interna della motivazione molto più forte.
L’esordio dei motivi della decisione indica i due cardini portanti: il rifiuto dell’interpretazione evolutiva, che non viene presa in considerazione quale possibile approccio diverso da quello del 2006, e l’affermazione della discrezionalità “politica” del legislatore nel regolare la materia.
E questo concetto viene esplicitato ulteriormente in tutti i passaggi nei quali si enuclea la nozione di discriminazione come nozione formale: è discriminazione illegittima la diversità di trattamento che non sia consentita da una norma di legge (“la discriminazione è comportamento illecito, non configurabile se tenuto in esecuzione di disposizioni normative”).
Questo essendo l’asse portante, tutta la motivazione è svolta a “confutazione” delle ragioni esposte nel ricorso per sostenere la diversa tesi; gli argomenti di interpretazione vengono di volta in volta utilizzati in questa direzionee non per costruire o ricostruire un panorama normativo da analizzare al fine di verificare se “in diritto” il requisito della cittadinanza per l’accesso all’impiego pubblico, a prescindere dalla natura della prestazione di lavoro richiesta, sia o no in violazione di un superiore principio di non discriminazione, vincolante anche per il legislatore nazionale.
Piaccia o non piaccia questa sentenza, è evidente che la stessa risponde a una posizione avvertita come neutrale (anche se poi non lo è) rispetto a una questione che si ritiene debba essere affrontata in modo appropriato dal legislatore e non risolta in via giurisprudenziale.
Ciò detto, al quesito se questa sentenza si porrà come autorevole precedente, a cui i giudici di merito potranno uniformarsi, non può essere data una risposta affermativa, perché la decisione non solo non risolve nessuna delle questioni che hanno portato buona parte dei giudici di merito ad orientarsi diversamente, ma anzi apre parecchi interrogativi sulla conformità delle affermazioni in essa contenute ai principi dell’ordinamento nazionale, così come integrato dalle fonti internazionali.
7. Il fondamentale e irrisolto quesito è che cosa venga inteso per pubblica amministrazione.
Benché non venga esplicitato in alcun passaggio, la nozione di pubblica amministrazione assunta è chiaramente una nozione soggettiva, non vi è alcun riferimento nella sentenza a una nozione funzionale. Questa nozione non tiene affatto conto della evoluzione che si è realizzata nelle forme di svolgimento delle attività di interesse pubblico, molto spesso esercitate da società per azioni, ancorché in mano pubblica (si pensi alla gestione dell’approvvigionamento energetico, della rete ferroviaria, della viabilità o del servizio postale). Non tiene nemmeno conto del fatto che stesse identiche attività vengono svolte dalle amministrazioni statali e dagli enti pubblici, territoriali e no, ora direttamente ora attraverso l’affidamento esterno degli stessi servizi (per citare solo i più banali: pulizia, manutenzione, centralino telefonico, servizi informatici, formazione professionale e così via).
Risulta quindi difficile individuare una ragione rispondente ad un apprezzabile interesse pubblico per la quale le stesse attività possano essere svolte senza che sia richiesto il requisito della cittadinanza o invece con necessità di questo requisito, a seconda che il rapporto di lavoro intercorra o no con la pubblica amministrazione, quando le attività in questione si inseriscono esattamente nello stesso modo, sul piano organizzativo e funzionale, nella attività del soggetto pubblico.
L’unica ragione individuabile è proprio quella della natura pubblica del soggetto datore di lavoro, che però, una volta sganciata completamente dalla rilevanza della attività svolta, diviene un guscio vuoto che esprime solo una sorta di riserva protezionistica a favore dei cittadini italiani (peraltro già considerevolmente erosa dalle numerose eccezioni).
8. In questa prospettiva appare più appagante, in quanto intrinsecamente più razionale e coerente con il diritto antidiscriminatorio, la diversa conclusione di buona parte della giurisprudenza di merito e della dottrina che, per vie diverse, individua nella natura della attività oggetto della prestazione di lavoro il criterio che giustifica il mantenimento del requisito della cittadinanza per l’accesso al rapporto di lavoro e quindi sostanzialmente assume una nozione di pubblica amministrazione in senso funzionale e per tale via estende l’applicazione del DPCM n. 174/94 anche ai cittadini di paesi terzi non rientranti nelle categorie di cui all’art. 38 cit.
Questa conclusione passa attraverso una diversa prospettiva di analisi del quadro normativo che riconosce una gerarchia tra le diverse fonti, attribuendo prevalenza ex art. 117 Cost. a quelle internazionali, sul piano immediatamente precettivo o su quello del vincolo all’interpretazione conforme, ed esclude che ostacoli possano essere costituiti dagli artt. 98 e 51 Cost., così circoscrivendo il limite dell’ “interesse nazionale” a un limite sostanziale di interessi di pari o maggior valore, rispetto ai quali soltanto il principio di non discriminazione per nazionalità, razza.origine entica (Convenzione OIL n. 143/1975, TU n. 286/98, direttiva 2000/43/CEE, d. legisl. n. 215/03) può recedere.
9. Queste sono infatti le due questioni nodali che la sentenza della Cassazione, così come quella precedente del 2006, elude: l’esistenza di una gerarchia fra le norme comunitarie e delle convenzioni, inglobate nella Carta costituzionale ex art. 117 cost.e le norme interne, che imponga una accezione di discriminazione non formale, ma sostanziale e la compatibilità con questa nozione di una normativa interna che, attraverso numerose eccezioni che hanno eterogenee giustificazioni (cittadini comunitari, famigliari non comunitari di cittadini comunitari, soggiornanti di lungo periodo UE, rifugiati politici e così via) rende di fatto priva di una apprezzabile giustificazione sostanziale, e quindi discriminatoria, l’esclusione degli altri cittadini stranieri dall’accesso al pubblico impiego per quelle attività di lavoro che non implicano l’esercizio di pubbliche funzioni.
E’, infatti abbastanza palese che una interpretazione dell’art. 2 della direttiva 2000/42 e dell’art. 43 comma 2 lett. c) TU 286/98,costituente attuazione della Convenzione OIL n. 143/75(ex art. 2 comma), che si impernia su una nozione formale di discriminazione vietata (non è discriminazione illecita quella prevista dalla legge ordinaria) e nega quindi l’esistenza di vincoli sostanziali di natura dell’interesse tutelato con la disparità di trattamento, viene di fatto a svuotare di contenuto queste disposizioni, essendo rimesso alla discrezionalità del legislatore nazionale se dare o non alle stesse applicazione e con quale estensione. Non è questo sicuramente il risultato perseguito con la direttiva e la Convenzione OIL.
E se si accede alla prospettiva di un limite (l’interesse nazionale) che deve avere una rilevanza non formale ma sostanziale in quanto esprime valori poziori o equivalenti a quelli da tutelare, è abbastanza palese che diviene discriminatoria, perché priva di una giustificazione razionale in quei valori, l’esclusione dal pubblico impego di stranieri, con la stessa o con diversa cittadinanza rispetto a familiari non comunitari di cittadini comunitari, soggiornanti di lungo periodo UE, rifugiati politici e così via.
Del resto non si vede perché questi ultimi dovrebbero svolgere attività di lavoro per la PA con maggior senso di fedeltà rispetto agli altri.
Questa diversa visione dell’insieme delle norme di cui si discute nulla toglie alle possibili eccezioni consentite dal considerando n. 13 della direttiva 2000/43 in base alla nazionalità per i cittadini di paesi terzi (che comunque non potrebbe da solo autorizzare una deroga agli obblighi assunti nel contesto di altre organizzazioni internazionali), semplicemente impone per qualsiasi deroga che sia giustificata “oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari” (art. 2 comma 2 lett. b) direttiva) e, per l’accesso al lavoro, che “sia necessaria nell’interesse dello Stato” (art, 14 convenzione OIL). 10.
Questa diversa prospettiva consente dunque una lettura della normativa molto più razionale e coerente. Ristabilisce la gerarchia delle fonti, anche attraverso l’art. 117 Cost., fra la direttiva 2000/43, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione OIL da un lato e, dall’altro, la legge ordinaria. Essendo il TU, come ripetutamente osservato, attuazione della Convenzione OIL,le sue norme seguono una interpretazione conforme e così gli artt. 26, 27, 37, 43 che fanno riferimento alle attività per le quali è richiesta la cittadinanza italiana vanno intese nel senso che deve essere la natura della attività a giustificare la discriminazione.
L’art. 2, comma 3 TU va letto nel senso che il riferimento alle condizioni di lavoro o occupazione comprende anche l’accesso al lavoro, che è poi il momento in cui massimamente si può attuare una discriminazione illegittima. Gli artt. 15 e 21 della Carta dei diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nello stabilire la parità di “condizioni di lavoro” fra cittadini dell’Unione e cittadini stranieri “fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati” non autorizza una discriminazione per nazionalità per il pubblico impiego non legata all’esercizio di pubblici poteri o alla tutela di interessi generali dello Stato e tanto meno l’autorizza in deroga agli obblighi assunti con altre Convenzioni internazionali. L’art. 98 Cost. non costituisce ostacolo a questa lettura, essendo la “Nazione” da intendere come collettività organizzata su un territorio e non essendo implicita, in attività che non esprimono l’esercizio di pubblici poteri, alcuna necessità di particolare fedeltà, maggiore o diversa da quella implicita in qualsiasi rapporto di lavoro subordinato (art. 2105 cod. civ.).
L’art. 51 Cost, come riconosce anche la sentenza in commento,confermerebbe, senza neppure necessità di una interpretazione evolutiva, questa impostazione e, una volta ritenuta non legittima una discriminazione giustificata solo per la natura pubblica del datore di lavoro, si supererebbe l’irrazionalità di consentire o non consentire ai cittadini stranieri lo svolgimento di attività a contenuto identico secondo che, anche per fattori del tutto casuali e contingenti, le stesse siano affidate all’esterno o svolte direttamente dalla PA.