1. Passati da due a circa venti nel giro di pochi anni [1], i corsi di “clinica legale” attivi presso le Università italiane rappresentano, per un verso, un modello didattico innnovativo – mutuato dall’esperienza dei paesi angloamericani – ormai largamente diffuso nei dipartimenti di giurisprudenza; e, per altro verso, uno strumento d’impegno sociale tanto per i docenti quanto per i discenti, oltreché di maturazione di una coscienza critica – sia per gli uni che per gli altri – verso il sistema giuridico vigente e i suoi concreti meccanismi di funzionamento nei confronti di soggetti con minore capacità economica e scarse possibilità di accesso alla giustizia, quali tipicamente sono i migranti e i richiedenti protezione internazionale.
Le cliniche legali – come accennato – costituiscono quindi una forma d’insegnamento innovativa, perché alternativa rispetto ai tradizionali moduli di lezione frontale accademica. A questi ultimi, infatti, esse contrappongono attività di tipo prevalentemente laboratoriale, ove didattica e ricerca si coniugano allo studio e all’analisi dei casi concreti, con impatto diretto su utenti e operatori giuridici, nonché tangibile incidenza sulla realtà giuridica e sociale, segnatamente in favore di categorie di soggetti deboli.
2. Si tratta, dunque, di iniziative didattiche improntate all’apprendimento esperienziale, con un sensibile scostamento dall’educazione giuridica tradizionale tipica dei sistemi di civil law, ove consolidata è l’idea che la conoscenza del diritto – al pari del ragionamento giuridico – discenda da (e proceda per) astrazioni e che, d’altro canto, le decisioni giudiziarie possano esser lette quale esito di sillogismi e ragionamenti deduttivi i quali giungano, partendo da premesse generali e astratte, a conclusioni specifiche e concrete, in esse già ricomprese perché logicamente sottintese.
Nei sistemi di common law – e in ispecie in quelli angloamericani – domina invece l’idea che la conoscenza del diritto debba partire da un fatto specifico, e soltanto da questo possa poi progredire nell’individuazione di una regola generale per la soluzione del singolo caso concreto [2].
È chiaro allora come alla base dei due sistemi esistano diverse e opposte concezioni del ragionamento giuridico: prevalentemente deduttivo nel civil law, marcatamente induttivo nel common law. Ed è parimenti chiaro come proprio nei sistemi di common law, prima che in quelli di civil law, si siano potuti sviluppare metodi alternativi di insegnamento – come l’insegnamento clinico – incentrati non tanto (e non solo) sullo studio del dato normativo e delle tecniche d’interpretazione giuridica, ma anche (e soprattutto) su altre competenze e abilità, quali l’impiego di operazioni induttive nell’analisi dei singoli casi e dei metodi d’apprendimento cd. del Problem based learning (Pbl) [3] e del Learning by doing [4].
In definitiva, ci troviamo di fronte ad un approccio di tipo realista, che senza pretermettere l’aspetto del diritto come law in the books, assume quale orizzonte epistemologico dell’universo giuridico quello del diritto come law in action [5]. In altri termini, alla concezione del diritto come «mondo di segni prodotti da atti linguistici espressi da attori istituzionali (legislatori, giudici e amministratori) e di significati ad essi associati da interpreti» [6], il movimento clinico oppone una visione pragmatica, che esalta la dimensione politica delle norme, respingendo, al contempo, l’idea della natura puramente tecnica delle decisioni giudiziarie.
3. Al realismo del movimento clinico italiano, peraltro, non è estraneo un orizzonte di senso valoriale, dato dall’attenzione tanto ai diritti fondamentali – che segnano il confine di ciò che può e (soprattutto) di ciò che non può esser deciso dalle contingenti e variabili maggioranze politiche [7] – quanto alla circostante realtà sociale, da cui vengono direttamente tratti temi e casi – d’interesse pubblico o collettivo – poi affrontati nei corsi universitari di clinica legale.
E così, allo spirito di trasformazione delle consolidate e tradizionali tecniche di trasmissione del sapere accademico, le cliniche legali uniscono l’attenzione nei confronti dei soggetti svantaggiati, quali effettivamente sono i richiedenti protezione internazionale. Proprio a questi ultimi – qualificati da condizioni di particolare fragilità, e ai quali si vuole offrire una difesa o consulenza di qualità cui essi non avrebbero accesso, per le ragioni più disparate, come le peculiari condizioni di svantaggio in cui versano, o la mancanza di preparazione da parte dei tradizionali operatori – sono infatti indirizzati i servizi offerti dalle cliniche legali: dalle attività di orientamento ai diritti dei richiedenti protezione internazionale, alla fase di consulenza – nelle forme della stesura di pareri redatti a tutela dei loro interessi – sino a quella della collaborazione all’assistenza tecnica degli stessi – anche dinanzi alle Commissioni territoriali –, condotta in affiancamento ad avvocati coinvolti e inseriti nel progetto clinico-didattico.
A ciò, inoltre, sovente si accompagna l’idea che le cliniche legali, tramite progetti di cd. “contenzioso strategico” – di cd. public interest strategic litigation, siano effettivamente in grado di produrre cambiamenti negli orientamenti giurisprudenziali e nelle prassi amministrative (in specie, in quelle delle Commissioni territoriali), svolgendo, in definitiva, un ruolo importante nella trasformazione in senso solidaristico della società. Spesso, infatti, esse seguono casi ove vengono in rilievo questioni e problemi cruciali in materia di diritto dell’immigrazione, stimolando così l’intervento dei tribunali sul punto e, al contempo, contribuendo «al rafforzamento e all’espansione dell’educazione alla giustizia in generale e alla giustizia sociale in particolare» [8].
Un’educazione alla giustizia che fa dell’insegnamento clinico uno strumento formativamente utile e culturalmente fecondo, soprattutto per gli studenti di giurisprudenza, i quali ultimi – secondo la felice sintesi metodologica tracciata da Frank Bloch e Madhava Menon – sono con esso preparati «a comprendere e assimilare le proprie responsabilità in quanto membri di una professione di interesse pubblico, volta all’amministrazione della giustizia, alla riforma della legge, a rendere equa la distribuzione dei servizi giuridici nella società, alla protezione dei diritti individuali e degli interessi pubblici, nonché ad affermare gli elementi fondamentali della propria professionalità» [9].
[1] M.R. Marella e E. Rigo, Le cliniche legali, i beni comuni e la globalizzazione dei modelli di accesso alla giustizia e di lawyering, in Rivista critica del diritto privato, 4, 2015, p. 539.
[2] Sulla nascita e lo sviluppo del common law inglese, cfr. U. Mattei, Il common law, Utet, Torino, 1992, pp. 19 ss.
[3] Sul punto, si veda C. Amato, Il modello clinico bresciano, in A. Maestroni-P. Brambilla-M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali, Giappichelli, Torino, 2018, p. 147.
[4] A. Maestroni, I progetti e l’esperienza clinico legale, in A. Maestroni-P. Brambilla-M. Carrer (a cura di), op. cit., p. 103, nonché C.M. Alaimo-E. Consiglio-M. Romano-A. Sciurba, La clinica legale per i diritti umani dell’Università di Palermo, in ivi, p. 167.
[5] La classica distinzione tra law in books e law in action viene comunemente fatta risalire a R. Pound, Law in Books and Law in Action, in «American Law Review», 1910, p. 12. Tuttavia, come ha rilevato G. Tarello, Il realismo giuridico americano, Torino, 1962, p. 114, essa fu formulata due anni prima da A. Bentley, The Process of Government, Everston, ristampa del 1949, pp. 294-297 e pp. 165-172 della prima edizione del 1908.
[6] L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 92.
[7] Sul punto, cfr. Id., Iura Paria. I fondamenti della democrazia costituzionale, Editoriale scientifica, Napoli, 2015, p. 106, per il quale i diritti fondamentali, «oltre che indisponibili, operano come limiti e vincoli alla legislazione e più in generale ai poteri politici della maggioranza che non possono a essi derogare. Disegnano, come già detto, la sfera del non decidibile» (corsivo dell’Autore).
[8] Sul punto, cfr. A. Maestroni, Le cliniche legali italiane tra offerta formativa e servizio allacomunità, in A. Maestroni-P. Brambilla-M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali, cit., p. 16.
[9] Così F. Bloch e M. Menon, The Global Clinical Movement, in F. Bloch (a cura di), The Global Clinical Movement. Educating Lawyers for Social Justice, Oxford, 2012, p. 271 (in M.R. Marella e E. Rigo, Le cliniche legali, i beni comuni e la globalizzazione dei modelli di accesso alla giustizia e di lawyering, cit., pp. 540 ss.).