La tensione, sempre più avvertita, della giurisdizione, in tutte le sue articolazioni, verso la piena attuazione dei diritti fondamentali si riverbera sulla questione, di capitale importanza, della rilevabilità ex officio del contrasto fra norma interna e CEDU. Tema che assume tratti di marcata problematicità nel giudizio di Cassazione.
La questione si intreccia, per alcuni versi, con i principi fissati dalla Corte costituzionale in ordine ai rapporti fra le fonti e ai rapporti fra giudice comune e Corte costituzionale quando in discussione è il tema del contrasto fra norma interna e CEDU.
In buona sostanza, l’avere incanalato il controllo di convenzionalità nell’ambito del sindacato accentrato della Corte costituzionale attraverso il meccanismo della norma interposta (art.117 1^ comma Cost.) ha inevitabilmente imposto di applicare alle richieste di caducazione della norma interna provenienti dal giudice comune la verifica della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di”convenzionalità”.
La disfida fra Corte costituzionale e Sezioni Unite in tema di udienza pubblica nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione e per ingiusta detenzione.
In questo meccanismo sono rimaste, recentemente, incagliate per ben due volte le Sezioni Unite penali della Cassazione, le quali avevano sollecitato la caducazione della disciplina positiva che non prevede l’udienza pubblica nell’ambito del procedimento per ingiusta detenzione disciplinato dall’art.315 c.3 c.p.p.- il quale rinvia alla disciplina processuale in tema di riparazione dell’errore giudiziario-.
A fermarsi sulla soglia dell’inammissibilità sono state dapprima Corte cost.n.80/2011 e, più recentemente, Corte cost.n.214/2013[1].
Va premesso che secondo l’interpretazione della giurisprudenza convenzionale fornita da Corte cost.n.93/2010[2] la garanzia dell’udienza pubblica nei procedimenti in camera di consiglio non appare necessaria, per l’un verso, rispetto a peculiari ed eccezionali circostanze che caratterizzano la causa- situazioni che hanno ad oggetto questioni altamente tecniche- e, per l’altro, nel giudizio di legittimità, proprio per le caratteristiche che ne contraddistinguono la funzione[3].
In questo contesto la Corte costituzionale è stata chiamata a verificare l’estensibilità delle conclusioni prospettate dalla sentenza n.93/2010 alla fase di legittimità del procedimento di prevenzione. Per effetto di Corte cost. n.80/2011[4] si è così manifestata una rottura fra la posizione espressa dal giudice rimettente e la Corte costituzionale proprio sul ruolo che la pubblicità delle udienze avrebbe dovuto giocare nel giudizio di legittimità.
A stare alla posizione espressa nell’ordinanza di rimessione l’esigenza della pubblicità delle udienze patrocinata dalla Corte di Strasburgo quanto ai procedimenti in materia di misure di prevenzione «… andrebbe riconosciuta… non soltanto in relazione ai giudizi di merito, ma anche con riguardo al giudizio di cassazione, senza che rilevi, in senso contrario, la circostanza che di quest’ultimo non venga fatta menzione nella citata sentenza della Corte europea. Se pure è vero, infatti, che la Corte di Strasburgo ha affermato in più occasioni che il diritto a un’udienza pubblica può essere escluso quando debbano trattarsi esclusivamente questioni di diritto, essa ha, tuttavia, anche precisato che l’assenza dell’udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, può giustificarsi solo se in primo grado la pubblicità sia stata garantita.»
Secondo il giudice di legittimità «…una volta che la scelta del rito venga affidata alla parte, non si vedrebbe perché la relativa opzione possa essere effettuata solo «in limine», e non «anche in successivi gradi di giudizio».
Di tutt’altro avviso è stata invece Corte cost.n.80/2011. Prendendo le mosse dalla declaratoria di incostituzionalità della normativa interna nella parte in cui non prevedeva, nel giudizio di merito, la pubblicità delle udienze in materia di prevenzione (Corte cost.n.93/2010), la Corte ha ritenuto che non poteva essere riconosciuto alla parte la scelta di far valere il diritto alla pubblica udienza in fase di merito o in quella di legittimità. E poiché nulla era stato sollecitato nelle fasi di merito, il rimedio della pubblicità in fase di legittimità non avrebbe potuto sanare la violazione concretatasi nelle fasi di merito né poteva applicarsi al giudizio di legittimità in base alla costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
La posizione espressa dalla Cassazione in sede di ordinanza di rimessione, pur ben consapevole del contenuto della giurisprudenza della Corte EDU in ordine alla non necessità dell’udienza pubblica per le fasi processuali non di merito, sembrava più direttamente orientata a costruire un rimedio specifico ed effettivo, correlato al procedimento in corso, nel quale durante la fase di merito l’imputato non aveva formulato alcuna istanza di trattazione in udienza pubblica. Un’esigenza, quella espressa dalla Cassazione, che sembrava rivolta a salvaguardare la conformità del processo, nel suo complesso, ai canoni sovranazionali e che invece la Corte costituzionale non ha inteso assecondare.
Ora, la diversità di vedute fra giudice comune e giudice delle leggi viene ancora di più accentuata per effetto della ordinanza 18-25 ottobre 2012 n.41694, Nicosia[5] delle Sezioni Unite della Cassazione penale
La questione di legittimità costituzionale proposta alla Corte costituzionale in relazione al procedimento per ingiusta detenzione si caratterizzava ancora una volta per il fatto che l’imputato, nel corso del giudizio, non si era mai doluto del mancato svolgimento con le forme dell’udienza pubblica del relativo procedimento, nemmeno prospettando tale questione innanzi al giudice di legittimità. Ciò che ha imposto alle S.U. un particolare esame del profilo di rilevanza della questione.
Errato sarebbe stato, secondo il remittente, esaminare la questione considerandola alla luce dei principi espressi in tema di efficacia delle sentenze che dichiarano l’incostituzionalità di una legge, incapaci di spiegare effetti sulle situazioni giuridiche ormai esaurite, non suscettibili, cioè, di essere rimosse o modificate, quali il giudicato, l’atto amministrativo non più impugnabile, l’operatività della sanzione della decadenza, e la preclusione processuale.
Ora, la prospettiva che limita la portata retroattiva della caducazione della norma dichiarata incostituzionale, sostengono le Sezioni Unite, non può essere traslata al piano degli effetti prodotti sulla norma interna – anche se processuale- dal contrasto con una disposizione della CEDU, giustificandosi “...soltanto nel quadro di un raffronto, per così dire ‘nazionale’ tra la fonte normativa ed il parametro costituzionale di riferimento, ma non tiene conto, a parere di queste Sezioni Unite, del ben diverso assetto che quello scrutinio e quel raffronto ricevono ove venga in discorso – quale normativa interposta – un principio di natura convenzionale, quale può essere il diritto al ‘giusto processo’, per come interpretato – in riferimento alla normativa ‘nazionale’ – dalla Corte di Strasburgo.”[6]
Sulla base di tali presupposti e tenuto conto degli obblighi incombenti sullo Stato contraente in forza dell’art.46 CEDU[7], le S.U., forti della natura sistemica della violazione accertata dalla giurisprudenza convenzionale nei confronti del sistema interno in tema di rito camerale, hanno ritenuto che “...La ‘rilevanza’ della questione di legittimità costituzionale che miri a rimuovere gli effetti di una disposizione processuale che contamini la giustizia del processo, secondo i dicta della Corte Europea, non può dunque modellarsi sulla falsariga degli effetti che scaturiscono da categorie endoprocessuali che regolano l’ordo iudiciorum, giacché, ove così fosse, il processo – strutturalmente ‘ingiusto’ – sarebbe destinato a proseguire e concludersi senza alcuna possibilità di ‘purgazione’, al contrario agevolmente conseguibile proprio attraverso l’incidente di costituzionalità. Il che, a tacer d’altro, comporterebbe per la persona il cui diritto al ‘giusto processo’ è stato compromesso, la necessità di ricorrere alla Corte di Strasburgo (con gli effetti ampliativi del relativo contenzioso, che quella Corte, come si è visto, ampiamente censura), e per il giudice – nella specie, quello di legittimità, e dunque l’organo di ultima istanza chiamato a ‘misurare’ la conformità del processo ai diritti fondamentali ed irrinunciabili della persona – l’impossibilità di rendere il processo (non ancora ‘esaurito’), compatibile con quei diritti.” La circostanza che l’imputato non avesse sollecitato doglianze sul punto nel corso del giudizio di merito, in definitiva, non escludeva la necessità di eliminare la norma interna “...proprio in considerazione dei già segnalati effetti che scaturiscono dalla sentenza della Corte EDU nel caso Lorenzetti, la quale, avendo accertato la violazione strutturale del principio convenzionale, determina la necessità che i processi, ancora pendenti, si conformino ad essa, previa declaratoria di illegittimità costituzionale in parte qua delle norme nazionali con quel principio”.
La posizione di totale chiusura di Corte cost.n.214/2013 –pur salutata favorevolmente in dottrina[8] - è stata espressa sottolineando il deficit di rilevanza della questione proposta, in ragione della soltanto ipotetica volontà dell’interessato di reclamare, nell’eventuale giudizio di rinvio successivo all’accoglimento della quesitone di legittimità costituzionale, la necessità dell’udienza pubblica[9].
Ora, se è vero che le Sezioni Unite sembrano essersi “adeguate” alla soluzione espressa dalla Corte costituzionale[10] non è chi non veda come il “filtro” utilizzato dalla Corte costituzionale per la questione di convenzionalità appaia in qualche modo poco omogeneo rispetto alla sostanza della questione che le Sezioni Unite aveva posto al cospetto della Consulta.
Il giudice remittente aveva, in definitiva, ancora una volta evidenziato che “dal suo punto di vista” il controllo di convenzionalità non poteva mancare nel caso concreto, in cui l’interessato, pur non avendo affermato di volere godere del diritto all’udienza pubblica, non era stato messo in condizioni di poterlo fare perchè...la legge glielo aveva impedito.
Da un lato una visione –quella delle Sezioni Unite- ancorata al ruolo pro-attivo del giudice nazionale rispetto alla CEDU, capace di interrogarsi sulla piena ortodossia del giudizio svolto innanzi alle varie articolazioni del giudiziario ed investito, in definitiva, di un controllo pieno, effettivo e per certi versi anche officioso in ordine alla legalità convenzionale del processo.
Dall’altro la prospettiva del giudice costituzionale, non soltanto legata agli schemi propri del sindacato di costituzionalità ma, soprattutto, non particolarmente interessata a considerare in tutta la loro portata i meccanismi di operatività del controllo di convenzionalità imposti all’autorità giudiziaria nazionale dalla CEDU.
A ben considerare, infatti, la circostanza che l’imputato sia rimasto silente nei due gradi di giudizio di merito rispetto alla questione non poteva, indossando le lenti del giudice di Strasburgo, avere un significato di rinuncia alla garanzia. Non era infatti possibile attribuire un significato univoco al contegno della parte tutte le volte in cui l’ordinamento non mette in condizioni quella stessa parte di potere esercitare un diritto che anzi è lo stesso ordinamento a denegare.
Sul punto non è superfluo ricordare Corte cost.n.135/2014 che, a proposito di altra questione di legittimità costituzionale sollevata sempre con riferimento alla garanzia dell’udienza pubblica- ma in ambito particolare[11]- non ha mancato di ricordare la giurisprudenza europea in tema di pubblica udienza e misure di prevenzione-“...la Corte di Strasburgo ha, quindi, ritenuto «essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone […] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello»-.
Se a ciò si aggiunge che anche con riferimento all’analoga tematica riferita ai procedimenti per ingiusta detenzione è sempre Corte cost.n.135/2014 a riconoscere che “...la Corte di Strasburgo ha ritenuto essenziale che i singoli coinvolti nella procedura fruiscano almeno della facoltà di richiedere la trattazione in forma pubblica dell’udienza innanzi la corte d’appello (competente nel merito in unico grado)”, non è peregrino affermare che il contegno neutro della parte rispetto allo svolgimento dell’udienza in fase di merito- come anche in sede di legittimità- difficilmente poteva giocare un ruolo ai fini di giustificare il semaforo rosso del giudice costituzionale rispetto alla sollevata questione di legittimità costituzionale (non consentendo la legge interna la trattazione in forma pubblica).
D’altra parte, non può nemmeno sottacersi il fatto che la giurisprudenza europea appare univoca nel riconoscere il ricorso diretto alla Corte europea – senza il previo esaurimento delle vie di ricorso interno (art.35 CEDU, sul quale si tornerà in seguito)- nei casi in cui la violazione della CEDU dipende dall’esistenza di una norma interna che rende in modo palese ed evidente il contrasto, tanto da escludere che a livello interno l’interessato possa ottenere la tutela della prerogativa allo stesso garantita-cfr.Corte dir. Uomo Costa e Pavan c. Italia, cit.-.
La prospettiva del giudice costituzionale non sembra, dunque, in sintonia con i termini della questione, rispetto alla quale in gioco è unicamente la garanzia convenzionale, nemmeno potendosi in alcun modo considerare il contegno passivo dell’interessato, al quale peraltro è inibita la possibilità di autonomamente sperimentare il controllo di costituzionalità (e che non costituisce, pertanto, elemento rilevante ai fini dell’esaurimento delle vie di ricorso interno per giurisprudenza costante del giudice europeo -Corte dir.uomo 19.12.1989, Brozicek c.Italia, [ric.n.10964/84], p.3; Corte dir.uomo, 6.3.2003, De Jorio c.Italia[ric.n.73936/01]-).
Il punto è, infatti, quello che ai fini delle garanzie convenzionali non sembra possano essere trasposte le regole relative al controllo di costituzionalità che attengono alla verifica in punto di rilevanza, almeno quando ciò determini una compressione dei diritti CEDU.
Lasciando ora da parte il tema specifico dell’udienza pubblica- che forse risulta ipervalutato a livello sovranazionale- e proiettando la riflessione su un piano generale, la circostanza che la griglia nella quale è necessario passare per caducare la norma in contrasto con la CEDU sia quella del controllo di costituzionalità non sembra potere elidere nè la specialità della fonte (convenzionale), nè la peculiarità delle regole che ne stabiliscono l’operatività (comunque esterne a quelle dell’ordinamento nazionale) nè, infine- ma non per ultimo- la circostanza che l’individuazione delle modalità di operatività della garanzia convenzionale all’interno del processo non può spettare alla Corte costituzionale, ma sembra essere riservata in via esclusiva al giudice comune.
Sembra, dunque, che il recinto fissato dalla Corte costituzionale per la verifica di convenzionalità non sia affatto neutro rispetto alla tutela dei diritti fondamentali; tutela che, anzi, subisce un filtro interno – pur se affidato alla Corte costituzionale- sulla cui opportunità è lecito ancora oggi interrogarsi.
Sulla rilevabilità ex officio del vulnus alla CEDU.
Le considerazioni appena espresse costituiscono la necessaria premessa per affrontare il nodo della rilevabilità ex officio del contrasto fra norma interna e CEDU.
Se, infatti, la doverosità di un controllo di conformità dell’ordinamento interno al diritto UE anche in Cassazione è pacifico[12], la proiezione di analogo argomentare con riguardo alla CEDU è in atto meno condivisa.
A posizioni particolarmente rigide[13]fanno da contrappeso altre opzioni astrattamente possibiliste[14] ed altre ancora apertamente favorevoli[15].
In un recente passato nella giurisprudenza della Cassazione civile si è rilevata, ex officio, l’esigenza di offrire un’interpretazione della normativa “convenzionalmente conforme” proprio per evitare condanne dell’Italia a Strasburgo[16], di fatto rivisitando l’indirizzo giurisprudenziale che giustificava l’applicazione “retroattiva” del tributo.
Ma sono alcune vicende di recente esaminate dalle sezioni civili e penali della Cassazione a confermare il trend favorevole alla rilevabilità ex officio della violazione convenzionale.
In questa stessa direzione si sono mosse Cass.pen.n.677/2015, Di Vincenzo[17] e Cass. pen.(ord. inter.) n.1782/2015,Chiarion. Anche in quest’ultimo caso la Cassazione, nel sollevare incidente di costituzionale dell’art.187 bis T.U.I. e in subordine dell’art.649 c.p.p., prende partito sulla rilevabilità per la prima volta in Cassazione- e oltre la data di deposito del ricorso- di una violazione correlata alla CEDU[18].
Nella medesima direzione la sezione quinta civile della Cassazione-Cass.n.950/2015-, sollevando questione di legittimità dell’articolo 187 ter del Tuf, ha non soltanto ammesso la produzione documentale tardiva attestante la definitività del previo procedimento penale in relazione all’innovativo indirizzo della giurisprudenza europea in tema di ne bis in idem(sent.Grande Stevens c.Italia del 4 marzo 2014) sancito dall’art.4 par.1 del Prot.n.7 annesso alla CEDU, così prospettando il vizio di cui all’art.117 1^ comma Cost. –in combinato disposto con la norma convenzionale- sulla base di un parametro normativo prospettato per la prima volta in sede di legittimità.
Esaurito il focus sullo stato della giurisprudenza della Cassazione in materia occorre, in definitiva, intendersi sul ruolo del giudice nazionale e in particolare interrogarsi se quest’ultimo è tenuto a comportarsi come una sorta di watchdog dei diritti fondamentali scolpiti dalla CEDU, ovvero se occorre assecondare l’opposta tendenza a riservare al – e riversare sul- singolo l’esigenza che la decisione del caso concreto venga resa nel rispetto dei diritti fondamentali di natura convenzionale.
Ulteriori ragioni a favore della rilevabilità ex officio del sindacato di convenzionalità.
In sostanza, a chi scrive pare che la Corte di cassazione sia tenuta ad un chiarimento definitivo circa il contenuto della CEDU come diritto delle parti o piuttosto come dovere del giudice[19].
In favore della tesi del controllo officioso di convenzionalità, anche nell’ambito del giudizio di cassazione- malgrado il suo carattere chiuso- sembrano militare le puntuali argomentazioni utilizzate dai precedenti che si sono espressi favorevolmente sulla questione.
Peraltro, occorre ricordare che l’obbligo del giudice comune di “verificare anzitutto” (Corte cost.n.113/2011) la praticabilità di un'interpretazione della legge in senso conforme alla CEDU, predicato fin dalle sentenze gemelle del 2007 a più riprese dalla Corte costituzionale sembra richiedere un controllo sulla compatibilità del sistema interno con la CEDU ben lontano da meccanismi dispositivi riconducibili in via esclusiva alle parti del processo, soprattutto quando il deficit trova la sua genesi nell’ordinamento positivo interno.
Per altro verso, le spinte che a più riprese giungono dalle Istituzioni europee verso l’implementazione del principio di sussidiarietà sembrano guardare con estremo favore alla creazione di meccanismi capaci, a livello interno, di rendere effettivo ed efficace il controllo di convenzionalità da parte delle autorità interne.
Nella medesima direzione sembra poi indirizzare la progressiva assimilazione, pur con i distinguo tuttora espressi dalla Corte costituzionale, fra disposizioni convenzionali e principi costituzionali, al cui interno si colloca la CEDU per effetto del combinato disposto di cui agli artt.2,3,10,11 e 117 1^comma Cost. Ciò che renderebbe poco comprensibile la diversità fra controllo di costituzionalità al quale il giudice comune è tenuto ex officio (pur nell’accertata rilevanza della questione) e sindacato di convenzionalità riservato, nella prospettiva disegnata dalle sentenze gemelle del 2007, al controllo accentrato della Corte costituzionale[20].
Nemmeno irrilevante pare poi essere il numero imponente di ricorsi pendenti nei confronti dell’Italia presso la Corte dei diritti umani- stimato in 11.639 all’1 Luglio 2014-[21], capace di determinare il non commendevole primato dell’Italia nella classifica dei Paesi che investono la Corte con ricorsi su questioni ripetitive. Situazione che richiede l’adozione da parte dello Stato italiano, in tutte le sue articolazioni e dunque anche nella giurisdizione, di misure capaci di ridurre drasticamente il carico dei ricorsi a Strasburgo.
Nè può sottacersi che la possibilità stessa riconosciuta al soggetto danneggiato di rivolgersi a Strasburgo saltando le vie di ricorso interno nei casi di violazione nascente direttamente dalla legge nazionale dimostra, ancora una volta, l’ineludibilità del controllo di convenzionalità all’interno del giudizio e, in definitiva, la necessità che (anche) il giudice di ultima istanza debba evitare soluzioni che si pongano in distonia con i diritti fondamentali, altrimenti esponendo lo Stato ad essere convenuto in giudizio innanzi alla Corte europea.
Del resto, proprio le vicende che originano da violazioni sistematiche dell’ordinamento interno accertate dalla Corte europea, abbiano esse dato o meno luogo a sentenze c.d. pilota, costituiscono ulteriore conferma della necessità che l’ordinamento interno sia in grado, ad ogni livello e, dunque, non soltanto sul piano normativo, di approntare misure capaci di eliminare le (accertate) violazioni prodotte da un deficit sistemico.
La diversa opzione che pure in dottrina si è proposta sul tema[22] non finisce di persuadere, nella misura in cui assume che solo il legislatore sia tenuto a conformare il sistema a CEDU e che l’eventuale inerzia di quel potere non possa trovare adeguata risposta all’interno del giudizio in cui viene in evidenza il deficit di convenzionalità. E sono state proprio le Sezioni Unite penali della Cassazione- ma anche la Corte costituzionale- ad avere dimostrato che l’inerzia del legislatore non è in grado di disinnescare il controllo di convenzionalità a livello giudiziario quando la Corte europea abbia indicato le ragioni di contrasto attraverso le sentenze c.d. pilota o anche solo attraverso decisioni dotate di valenza generale, affrontando situazioni correlate a disarmonie fra i parametri convenzionali e la legislazione interna-Corte dir.uomo, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta-[23].
Nemmeno sembra potersi dire che il ricorso del privato innanzi alla Corte di Strasburgo in caso di mancato esame della questione di convenzionalità in ambito interno darebbe sempre e comunque luogo ad una pronuncia di irricevibilità, consentendo di inferire che la rilevabilità ex officio non costituisce elemento direttamente discendente dalla CEDU[24].
E’ infatti sufficiente dare uno sguardo ai casi che hanno riguardato il contenzioso in tema di espropriazioni legittime e illegittime per accorgersi che le plurime condanne inflitte all’Italia hanno preso luogo da un procedimento giudiziario nel quale non era stata prospettata la violazione dell’art.1 Prot.n.1 alla CEDU (Cass.n.11740/1993). Ciò che non impedì affatto alla Corte europea di accertare la violazione dell’art.1 Prot.n.1 alla CEDU e di irrogare – nel prosieguo- condanne pesantissime nei confronti del nostro Paese. Il baricentro della Corte fu, in quelle come in tante altre vicende, rappresentato dalla systematic violation of human rights, attribuibile in quel caso ad una giurisprudenza nazionale zigzagante e non improntata ai canoni di accessibilità, chiarezza e prevedibilità. Situazione, quest’ultima, che rendeva inutile l’esame della violazione convenzionale in ambito interno. Del resto, proprio le vicende in tema di compatibilità della disciplina interna in tema di udienza camerale con la CEDU rispetto ai procedimenti in tema di ingiusta detenzione e per l’applicazione di misure di prevenzione e il contrasto, palese, emerso fra le Sezioni Unite penali della Cassazione e la Corte costituzionale circa la possibilità di riconoscere la garanzia convenzionale alla parte silente nel giudizio di merito costituiscono l’esempio migliore di un diritto vivente fortemente contrastato e dunque inidoneo ad offrire la tutela convenzionale[25].Ciò che costituirebbe ex se motivo idoneo a giustificare il ricorso a Strasburgo anche senza il previo esaurimento delle vie interne, in parte depotenziando l’argomento speso contro la tesi che qui si propone.
Se, in conclusione, ai fini della ricevibilità del ricorso innanzi alla Corte europea è necessario che la giurisprudenza nazionale sia sufficientemente consolidata nell’ordinamento giuridico nazionale, perdendo il ricorso ad una giurisdizione superiore il suo carattere «effettivo» a causa delle divergenze giurisprudenziali all’interno dell’ordine interno, e ciò fino a che tali divergenze continuano ad esistere[26], ancora una volta si comprende come la già ricordata possibilità di “saltare” i giudizi interni e di adire direttamente la Corte europea dei diritti umani attesta l’assoluta specificità del controllo di convenzionalità, dimostrandone il carattere prioritario rispetto ad ogni altra questione di ordine processuale interno.
La condivisione della prospettiva favorevole ad un controllo giudiziale di legalità convenzionale diffuso ed ex officio - soprattutto a livello di legittimità- oltre a rappresentare un baluardo della democrazia del quale tutte le persone, cittadine e non, hanno diritto di godere, in nome della loro irrinunciabile dignità, sembra dunque costituire piena attuazione di quell’obbligo positivo del giudice di garantire e attuare i diritti sanciti dalla Convenzione[27] come dalla Costituzione.
[1] Sulla sentenza v.G. Leo, Una questione inammissibile in tema di pubblicità delle udienze nel procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione (ancora a proposito degli effetti delle sentenze della Corte edu nell'ordinamento interno), www.penalecontemporaneo.it. Il tema è diffusamente e puntigliosamente esaminato, sia pure in una prospettiva non condivisa da chi scrive, da Petralia, Problemi sistematici tra Cassazione, Consulta e Cedu, in questa Rivista on line.
[2] Corte cost.n.93/2010 era stata chiamata a valutare la compatibilità della normativa interna, che non prevedeva nel procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione innanzi al giudice di merito l’udienza pubblica, con la giurisprudenza granitica della Corte dei diritti umani, formatasi sul caso Bocellari- Corte dir. uomo, 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia-. In quell’occasione la Corte europea dei diritti dell’Uomo aveva sancito che il rito camerale italiano per l’applicazione di misure di prevenzione, di cui all’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, si pone in contrasto con l’art. 6, par. 1 CEDU nella parte in cui non prevedeva «la possibilità di ottenere una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello». Investita della questione sotto il profilo della violazione dell’art. 117 primo comma Cost., la Corte costituzionale ha ritenuto l’illegittimità della norma, superando i dubbi autorevolmente espressi in dottrina sulla fondatezza della stessa. Dubbi che si appuntavano, in sintesi, sul carattere casistico della giurisprudenza europea, sul valore modesto che doveva attribuirsi ai principi affermati dalla Corte dei diritti umani- al cui indirizzo non si lesinavano nemmeno giudizi particolarmente critici -, sulla necessità di operare comunque un corretto bilanciamento con altri valori costituzionali posti a base delle regole del processo penale. E tuttavia, Corte cost. n. 93/2010 è stata di diverso avviso.
[3] V., la recente Corte cost.n.135/2014: “...La stessa Corte europea ha, d’altra parte, ritenuto che alcune situazioni eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare – quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso – possano giustificare che si faccia a meno di un’udienza pubblica. In ogni caso, tuttavia, l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere «strettamente imposta dalle circostanze della causa”.
[4] Per un primo commento alla sentenza, reperibile anche sul sito www.cortecostituzionale.it, v. B. Randazzo, Brevi note a margine della sentenza n.80 del 2011 della Corte Costituzionale, in http://www.giurcost.org/decisioni/index.html.
[5] G. Romeo, Alla Corte costituzionale la questione della mancanza di pubblicità nel procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, in www.penalecontemporaneo.it.
[6] Secondo le Sezioni Unite “...La pronuncia di quella Corte, infatti, nella ipotesi in cui, come nel caso L., additi e censuri, non un concreto 'difetto' di quello specifico processo, ma una carenza strutturale del quadro normativo 'domestico', di talché qualsiasi giudizio similare finirebbe ineluttabilmente per compromettere il principio convenzionale, non può non produrre una efficacia espansiva 'esterna' rispetto al caso giudicato, riverberandosi quale canone di illegittimità di ogni processo in corso di trattazione che risultasse attinto da quel difetto di tipo 'strutturale'.
[7] Sugli effetti delle sentenze resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento interno v. Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo, in Corr.giur., 2010, p. 960 ss.; Lupo, La vincolatività delle sentenze della Corte europea per il giudice interno e la svolta recente della cassazione civile e penale, in www.appinter.csm.it/incontri/relaz/14037.pdf , 2007; Marcolini, All’incrocio tra Costituzione e Cedu. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, in Cass. pen.,2007, 3492 ss.; Palombino, Gli effetti della sentenza internazionale nei giudizi interni, Napoli, 2008;Pustorino, Esecuzione delle sentenze della Corte edu e revisione dei processi penali: sviluppi nella giurisprudenza italiana, in Diritti umani e diritto internazionale, 2007, p. 678 ss.
[8] V.Petralia, Problemi sistemici nei rapporti fra Corte di Cassazione, Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo, in questa Rivista, cit.
[9]Alla decisione espressa dalla Corte costituzionale hanno poi dato seguito alcune pronunzie del giudice di legittimità-Cass. n.1538 del 22/10/2013, ritenendo che in tema di procedimento di riparazione per ingiusta detenzione, in difetto di allegazione riguardo alla proposizione da parte del ricorrente di istanza di partecipazione all'udienza camerale in sede di merito, il profilo di nullità de procedimento "non partecipato" per contrasto con il principio dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU non può essere preso in considerazione per difetto di interesse del ricorrente a dedurlo. In motivazione, la Corte ha richiamato le statuizioni di irrilevanza adottate dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 80 del 2011 e 214 del 2013 sulle questioni sollevate in tema di contrasto tra gli artt. 315 e 646 cod. proc. pen. e gli artt. 111 e 117 Cost. Cass. pen., n.24356 del 04/06/2014, Clark, nel ritenere non è manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 666, 667, comma quarto, e 676 cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 111, comma primo, e 117, comma primo, Cost. in riferimento all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, nella parte in cui non consentono che la parte possa richiedere al giudice dell'esecuzione lo svolgimento dell'udienza in forma pubblica relativamente ai procedimenti in tema di applicazione della confisca, ha dato atto in motivazione che la persona sottoposta a confisca aveva chiesto lo svolgimento dell’udienza nella forma pubblica.
[10] V. Cass., Sez. un., 28 novembre-24 dicembre 2013, n.51779 Nicosia.
[11] La questione ha riguardato gli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, davanti al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nelle forme dell’udienza pubblica.
[12] v., ex multis, Cass.n.13065/2006;Cass.civ.,20 luglio 2007 n.16130;Cass.S.U.18 dicembre 2006 n.26984-.
[13]Cfr.Cass. pen., n.51396/13, Basile e altri. In tali casi il giudice di legittimità, dichiarando di non condividere gli esiti di Cass.pen., n.28061/13- su cui v. infra- argomenta dal fatto che il ricorso a Strasburgo può essere proposto all’esito dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, dopo la consumazione di tutti i rimedi del sistema processuale domestico. Ragion per cui la questione di convenzionalità deve essere stata (necessariamente) proposta nel corso del giudizio interno dall’interessato.
[14] Cass.n.13233/14, Trupiano. In tale occasione la Corte ha ritenuto che l’eccezione relativa alla violazione dell’art.6 CEDU può essere rilevata d’ufficio, tuttavia evidenziando l’irrilevanza del tema, posto che nel caso di specie il ricorso per cassazione era inammissibile in quanto manifestamente infondato. Ciò che non consentiva il formarsi di un valido rapporto d’impugnazione e precludeva la rilevabilità ex officio della violazione CEDU.
[15] Cass.28061/13, Marchetti, nella quale la Cassazione “benchè non sia oggetto di specifico motivo di ricorso” rileva “comunque” l’esistenza di una giurisprudenza convenzionale che “...non può essere ignorata, alla stregua della pronuncia delle Sezioni Unite” -ord.n.34472/12, Ercolano- e della Corte costituzionale-sent.n.113/2011-.
[16] Cass.civ.n.1429/2013, a proposito dell’assoggettabilità a tassazione dell’indennità di espropriazione pagata tardivamente e in epoca successiva all’entrata in vigore della normativa che ha introdotto la tassazione. Secondo la Sezione tributaria della Cassazione “...Nel caso di specie, tenendo conto di tali principi, come già evidenziato e come risulta evidente dal diverso significato già attribuito alla normativa in esame da una parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, appare possibile un’interpretazione della legislazione nazionale conforme ai principi [convenzionali]”.
[17]V.Cass.n.677/2015, cit., chiamata ad affrontare il tema della riformabilità in peius di una sentenza assolutoria di primo grado in appello che, secondo la Corte dei diritti dell’uomo, è ammissibile purché l'affermazione di responsabilità, qualora determinata da una diversa valutazione di attendibilità di prove orali ritenute decisive, consegua all'esame diretto dei testimoni da parte del giudice del gravame. La Cassazione ha ritenuto che tale questione “... pur in difetto - come nel caso di specie - di doglianze difensive, sarebbe doverosamente rilevabile di ufficio (in presenza di un ricorso ammissibile), secondo quanto affermato dalla stessa Corte EDU (Sez. III, sentenza 4 giugno 2013, Hanu c. Romania, § 39, per la quale il giudice di appello ha l'obbligo di procedere alla nuova escussione dei testimoni d'ufficio, anche in assenza di richiesta della parte, perché «le Corti nazionali hanno l'obbligo di adottare misure positive a tal fine, anche se il ricorrente non ha fatto richiesta», e la mancata escussione da parte della Corte d'appello dei testimoni in prima persona e il fatto che la Suprema Corte non cerchi di porvi rimedio rinviando il caso alla Corte d'Appello per un nuovo esame degli elementi di prova, riduce sostanzialmente il diritto di difesa del ricorrente; ciò in quanto «uno dei requisiti di un processo equo è la possibilità per l'imputato di affrontare i testimoni in presenza di un giudice che deve decidere la causa, perché le osservazioni del giudice sul comportamento e la credibilità di una certa testimone possono avere conseguenze per l'imputato»).” Nella stessa circostanza il giudice di legittimità ha aggiunto che “...Alle norme della Convenzione EDU deve, invero, riconoscersi il rango di «fonti interposte», destinate ad integrare il parametro offerto dall'art. 117 della Costituzione, il cui primo comma impone al legislatore, nazionale e regionale, di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione; tuttavia, proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi. Ed è noto che «le norme della Convenzione EDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea; la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve pertanto escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali (imposto dall'art. 117, 1° co., Cost.) e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione>> (Corte cost., sent. n. 348 del 2007). Peraltro, ai sensi dell'art. 32, § 1, della Convenzione EDU, la competenza della Corte EDU «si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli che siano sottoposte a essa»21; la Corte costituzionale può, nondimeno, a sua volta interpretare la Convenzione, purché nel rispetto sostanziale della giurisprudenza europea formatasi al riguardo, ma «con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi» (sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011). L'art. 46, § 1, della Convenzione EDU impegna, inoltre, gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti dell'uomo] sulle controversie di cui sono parti»; soggiungendo, nel § 2, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne controlla l'esecuzione». E questa Corte (Sez. un., ord. n. 34472 del 2012, CED Cass. n. 252933) ha chiarito che <>. Pertanto, in presenza di una espressa indicazione in tal senso della Corte EDU, nel predetto senso, ed alla luce dei fin qui riepilogati riferimenti, non può essere condiviso il contrario orientamento che nega la rilevabilità di ufficio della questione (Sez. V, sentenza n. 51396 del 20.11.2013, CED Cass. n. 257831; orientamento, peraltro, non pacifico, poiché contrastato da Sez. fer., sentenza n. 53562 dell'Il settembre 2014, Lembo ed altri, condivisibilmente orientata nel senso della doverosa rilevabilità d'ufficio).”
[18] Cfr.p.2.1 Cass. pen.n.1785/15, cit. nel testo: “...Al riguardo, non è di ostacolo alla rilevanza delle questioni la circostanza che detta violazione sia stata dedotta per la prima volta dinanzi a questa Corte. Pur consapevole dell'esistenza di un difforme indirizzo (Sez. 4, n. 35831 del 27/06/2013 - dep. 30/08/2013, Maini, Rv. 256883; Sez. 5, n. 5099 del 11/12/2012 - dep. 31/01/2013, Bisconti, Rv. 254654; Sez. 2, n. 2662 del 15/10/2013 - dep. 21/01/2014, Galiano, Rv. 258593), il Collegio ritiene di dover aderire all'orientamento, che, come si vedrà, ha già incontrato l'avallo delle Sezioni unite, secondo cui è deducibile nel giudizio di cassazione la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, fermo restando l'onere del ricorrente di allegare la sentenza irrevocabile che la determina, atteso che la violazione del divieto del bis in idem si risolve in un error in procedendo, che, in quanto tale, consente al giudice di legittimità l'accertamento di fatto dei relativi presupposti (Sez. 6, n. 47983 del 27/11/2012 - dep. 12/12/2012, D'Alessandro, Rv. 254279; conformi: Sez. 6, n. 44632 del 31/10/2013 - dep. 05/11/2013, Pironti, Rv. 257809; Sez. 6, n. 14991 del 4 30/01/2013 - dep. 02/04/2013, Barbato e altri, Rv. 256221; Sez. 1, n. 26827 del 05/05/2011 - dep. 08/07/2011, P.C. e Santoro, Rv. 250796; Sez. 6, n. 44484 del 30/09/2009 - dep. 19/11/2009, P., Rv. 244856).”
[19] Esposito, La preminenza del diritto nel processo. il giusto processo: diritto delle parti o dovere del giudice?, in www.penalecontemporaneo.it
[20] Un cenno merita la recente presa di posizione della Sezioni Unite civili sul tema della rilevanza del principio del contraddittorio rispetto all’iscrizione ipotecaria ex art.77 dPR n.602/73. Ed infatti, Cass.S.U. n.19667/2014 (conf.Cass.S.U.n.19668/2014), dopo avere ritenuto inapplicabile l’art.50 dPR ult.cit. che prevede l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo, ha tuttavia desunto l’obbligo di previa comunicazione da un principio generale, immanente cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa. Le S.U. hanno così tratto tale principio dalla lettura coordinata e comparata delle norme costituzionali (artt.24 e 97 Cost.) ed eurounitarie (artt.47 e 48 Carta dei diritti fondamentali UE) applicando, in definitiva, ex officio un principio fondamentale /quello del contraddittorio endoprocedimentale) in assenza di una specifica richiesta da parte del contribuente, il quale aveva per contro invocato una disposizione ritenuta non pertinente da parte dello stesso giudice di legittimità. Ora, al di là delle implicazioni interne al sistema tributario che la pronunzia sopra ricordata potrà produrre(sulle quali v.Cass. ord.inter.n.527/2015) non sembra peregrino sottolineare la tendenza della Corte a fare emergere, anche per la prima volta in sede di legittimità, l’esistenza di principi fondamentali di rango costituzionale anche “a prescindere” dall’esplicito ed espresso richiamo operato dalle parti. Operazione che, del resto, ha illustri precedenti anche in campo tributario a proposito dell’abuso del diritto e che merita, anch’essa di essere adeguatamente approfondita. Essa, infatti, è incline a ritenere che il giudice ha sempre il “dovere” di porsi la domanda se la norma che si accinge ad applicare sia o no rispettosa della Costituzione (e quindi, in generale, dei diritti fondamentali).
[21]V. Rapporto del Comitato per gli affari giuridici sul futuro della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., pag.22.
[22]Cfr. Petralia, Problemi sistemici tra Cassazione, Consulta e CEDU, cit., pag.13.
[23]V.Cass.S.U. n.18821/14, Ercolano. Il giudice di legittimità, preso atto della caducazione della disposizione interna ad opera di Corte cost.n.210/13, ha riconosciuto che “il novum introdotto dalla sentenza della Corte EDU Scoppola c.Italia sulla portata del principio di legalità convenzionale...in quanto sopravvenuto al giudicato e rimasto quindi estraneo all’orizzonte valutativo del giudice della cognizione, impone alla giurisdizione- in forza dell’art.46 della CEDU e degli obblighi internazionalmente assunti dall’Italia- di riconsiderare il punto specifico dell’adottata decisione irrevocabile, proprio perchè non in linea con la norma convenzionale nella interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo...”
Affermano, ancora, le Sezioni Unite che <> Da qui la conclusione che <>. Le S.U., riprendendo un passo dell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, riconoscono che “...Spetta anzitutto al legislatore rilevare il conflitto verificatosi tra l’ordinamento nazionale e il sistema della Convenzione e rimuovere le disposizioni che lo hanno generato, privandole di effetti; se però il legislatore non interviene, sorge il problema relativo alla eliminazione degli effetti già definitivamente prodotti in fattispecie uguali a quella in cui è stata riscontrata l’illegittimità convenzionale ma che non sono state denunciate innanzi alla Corte EDU, diventando così inoppugnabili.”-p.7.3 sent.n.210/13-.
[24]Petralia, op.ult.cit., 17.
[25] In altri termini, non è sufficiente l’esistenza di un ricorso interno astrattamente idoneo ad eliminare gli effetti della violazione, occorrendo invece che il rimedio sia effettivo ed efficace. Non è dunque sufficiente che vi sia un ricorso normalmente disponibile, come il ricorso di cassazione, ma che, tenuto conto della giurisprudenza sviluppata in cause simili, risulta, nel caso di specie, inefficace (Corte dir.uomo, 27 marzo 2003, Scordino c. Italia (dec.)[ric.n. 36813/97]; Corte dir.uomo, 20 novembre 1995 , Pressos Compania Naviera S.A. e altri c. Belgio,[ric.n. 17849/91] §§ 26 e 27)).
[26] Corte dir.uomo, 13 aprile 2010- ric. nn. 46436/06 et 55676/08-Ferreira Alves c. Portogallo (n. 6) , §§ 28-29
[27] Esposito, La preminenza del diritto nel processo, cit., 14.