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Decreto-legge n. 18/2020: l’inserimento di norme sulla responsabilità sanitaria

Discussione parlamentare sulla conversione del decreto-legge n. 18/2020: le norme in materia di responsabilità professionale dei sanitari lasciano dubbi sul raggiungimento dell’obiettivo di tutela che si propongono, sia in ambito civile che in ambito penale

1.Il quadro della discussione parlamentare

È in corso al Senato la discussione sulla conversione in legge del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19).

Il decreto-legge n. 18/2020 – cosiddetto Cura Italia – nei suoi 127 articoli è intervenuto con la finalità primaria di contenere – con un primo impegno economico pari a venticinque miliardi di euro – gli effetti negativi che l’emergenza epidemiologica sta producendo sull’economia nazionale.

La discussione parlamentare è occasione per rivedere i termini di questo impegno, nell’evolvere della situazione, ma ha recato con sé la presentazione di diversi emendamenti aventi un oggetto estraneo all’impianto del decreto-legge.

Si tratta del tentativo di inserire, in sede di conversione, norme in materia di responsabilità professionale dei sanitari.

Si comprende la ragione di questa attenzione, laddove si considerino le condizioni estreme in cui infermieri e medici sono costretti a operare e l’emergere di fenomeni deprecabili di promozione pubblicitaria di taluni studi legali per l’incentivazione di denunce e cause nei confronti dei sanitari che in questo periodo stanno soccorrendo e curando i malati di COVID-19: fenomeni che hanno portato a simmetriche censure da parte di Ordini professionali dei medici e degli avvocati e dello stesso Consiglio nazionale forense.

Alcuni emendamenti prevedono clausole generali di sostanziale immunità che appaiono difficilmente compatibili con l’ordinamento: una pura e semplice “esenzione dalle responsabilità professionali” è prevista nell’emendamento Ciriani – Calandrini; una “esclusione di colpa per imperizia” e una “non punibilità” quando il soggetto “abbia agito in situazione di urgenza allo scopo di salvaguardare la vita o l’integrità del paziente” dall’emendamento Mallegni; l’emendamento Errani e altri si fonda su una valutazione ex lege di “legittimo adempimento di un dovere e in condizioni di forza maggiore e di stato di necessità” di qualsiasi condotta posta in essere da qualsiasi soggetto istituzionale, e da qualsiasi soggetto pubblico e privato.

Gli emendamenti Quagliariello e altri e Salvini e altri prevedono a loro volta una generale esclusione di “responsabilità personale di ordine penale, civile, contabile e da rivalsa” ma con una subordinazione a un parametro di necessità, individuata nel “garantire, sia pure con mezzi e modalità non sempre conformi agli standard di sicurezza, la continuità dell’assistenza sanitaria indifferibile sia in regime ospedaliero che territoriale e domiciliare”.

Si tratterebbe di una sorta di nuova esimente di portata generale che copre la “cura”, ma con confini tanto sfumati da trasmodare in un deficit di tassatività nella stessa descrizione della fattispecie legale; mentre sostanzialmente priva di possibilità di verifica in giudizio sarebbe la clausola “non sempre conformi agli standard di sicurezza”.

Tra i diversi emendamenti si segnalano come maggiormente strutturati quelli che intervengono sull’impianto della legge 8 marzo 2017, n. 24 (cd. legge Gelli-Bianco), ridefinendone i parametri applicativi con un’ulteriore estensione dell’area di immunità da conseguenze risarcitorie o penali delle condotte poste in essere da esercenti le professioni sanitarie.

Si tratta dell’emendamento Marcucci e altri, che intende introdurre nel decreto-legge un articolo 1-bis rubricato “Disposizioni in materia di responsabilità per eventi dannosi che abbinao trovato causa nella situazione di emergenza da COVID-19”; e dell’emendamento Conzatti-Comincini, che, con formulazione analoga a quello precedentemente citato, intende introdurre nel decreto-legge un articolo 16-bis rubricato “Responsabilità esercenti professioni sanitarie”.

La formulazione di questi ultimi emendamenti, tendenzialmente elaborata in maniera corretta e perspicua, lascia tuttavia margine per rilievi critici, soprattutto in punto di effettiva conformità allo scopo: si può cioè dubitare che effettivamente possa portare beneficio, in prospettiva, a medici e infermieri in futuro esposti a contenziosi indesiderati/infondati.

2. La responsabilità civile

L’emendamento Marcucci ed altri prevede quanto segue sul piano della responsabilità civile: «1.In ragione della novità ed eccezionalità dell’emergenza sanitaria determinata dal diffondersi del COVID-19, in relazione agli eventi dannosi che in essa abbiano trovato causa, la responsabilità civile delle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche o private, e degli esercenti le professioni sanitarie di cui all’articolo 7 della legge 8 marzo 2017, n. 24, è limitata ai casi in cui l’evento dannoso risulta riconducibile a condotte poste in essere con dolo o colpa grave. 2. Ai fini del comma 1, si considera colpa grave quella consistente nella palese e ingiustificata violazione dei principi basilari che disciplinano la professione sanitaria, nonché dei protocolli o programmi predisposti per fronteggiare la situazione di emergenza. La valutazione della gravità della colpa è operata tenendo in considerazione anche la situazione organizzativa e logistica della struttura in relazione alla novità ed eccezionalità del contesto emergenziale, al numero di pazienti su cui è necessario intervenire e alla gravità delle loro condizioni, alla disponibilità di attrezzature e di personale, nonché al livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore».

La disposizione preannunciata tradisce un’ingiustificata sfiducia per le potenzialità che l’ordinamento vigente contempla ai fini di una soluzione conforme a giustizia delle controversie che potranno insorgere. Un diritto civile dell’emergenza è categoria che non può essere esclusa in linea di principio. Una nuova fattispecie legale introdotta per decreto governativo in un caso straordinario di necessità e d’urgenza ha però senso quando quelli che si suole definire “gli organi respiratori” dell’ordinamento civile, e cioè le clausole generali, non consentano pur con tutta la loro elasticità e duttilità di fornire una risposta al tema inedito che l’attualità pone.

È bene avere chiaro quale è il problema pratico con cui il legislatore, o il giudice in sede di applicazione della disciplina, devono misurarsi: l’intervento sanitario imposto dalla pandemia in corso non pone di norma un problema tecnico di speciale difficoltà. Si tratta di interventi che seguono procedure vincolate, le quali possono acquistare anche il carattere della routinarietà per il tipo di patologia da trattare. Ciò che rende straordinaria ed eccezionale la portata dell’intervento è il suo contesto, la pandemia per l’appunto. L’emergenza discende non dal contenuto intrinseco della prestazione sanitaria, ma dal contesto in cui essa viene richiesta. Si tratta di prestazione resa in un ambiente nel quale può non esserci, come si leggeva in una precedente formulazione dell’emendamento in esame, «proporzione tra le risorse umane e materiali disponibili e il numero di pazienti su cui è necessario intervenire».

Dal punto di vista del diritto vigente, l’eventuale inadempimento, per quanto concerne la responsabilità contrattuale della struttura, sarebbe determinato, sulla base della valutazione del giudice caso per caso, da una causa esterna non imputabile al debitore, secondo il regime dell’art. 1218 cc. Tale causa di esonero da responsabilità riguarda non la perizia o diligenza professionale, ma la comune diligenza di cui all’art. 1176, comma 1, poiché la perizia è il contenuto stesso della prestazione, mentre la circostanza che renderebbe impossibile la prestazione di diligenza professionale va prevenuta con l’ordinaria diligenza e prudenza. Ciò che nel concreto la pandemia può avere sormontato è l’ordinaria diligenza, non la perizia, perché potrebbe essere accaduto che non vi siano state diligenza o prudenza in grado di prevenire le conseguenze derivanti dalla sproporzione fra risorse disponibili e numero di pazienti (da cui la non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione). Le medesime valutazioni dovranno soccorrere per il caso della responsabilità extracontrattuale del dipendente della struttura sanitaria. Le componenti della colpa corrispondenti alla negligenza ed imprudenza dovranno essere apprezzate in relazione al contesto della pandemia e non in assoluto, come è richiesto da una qualsiasi fattispecie di illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 cc.

L’emendamento in esame non intercetta il suo bersaglio.

A parte il riferimento al dolo, su cui è inutile indugiare, l’elemento soggettivo ulteriore di responsabilità viene identificato con la “colpa grave”, la quale nell’ambito della responsabilità professionale è relativa, secondo la giurisprudenza e la migliore dottrina, all’imperizia (cfr. art. 2236 cc) e non alla negligenza ed all’imprudenza. Gli elementi di specificazione della colpa grave, in base al contenuto dell’emendamento, sono per l’appunto inerenti alla diligenza professionale (e non a quella ordinaria), e cioè la «palese e ingiustificata violazione dei principi basilari che disciplinano la professione sanitaria, nonché dei protocolli o programmi predisposti per fronteggiare la situazione di emergenza». In tal modo non si coglie la vera natura dell’inadempimento, il quale non riposa sull’imperizia, ma sull’intervento di una causa esterna che a monte ha reso impossibile l’esecuzione della prestazione di diligenza professionale. Inoltre, e si tratta del dato più preoccupante, intervenendo sul profilo della perizia si indeboliscono le potenzialità di esimente da responsabilità risarcitoria che ha la norma di cui all’art. 1218.

Come abbiamo detto, l’intervento sanitario da infezione da COVID–19 non pone problemi tecnici di speciale difficoltà. Non ha dunque senso il richiamo alla colpa grave, la quale presuppone problemi di siffatta entità. Ciò che entra in gioco è un profilo esterno alla perizia medica, è il contesto nel quale la prestazione viene resa, rispetto al quale valgono, come criterio di giudizio, le comuni regole di diligenza e prudenza. In base al combinato disposto degli artt. 1218 e 1176, comma 1, la circostanza della pandemia ben potrebbe rilevare ai fini dell’esenzione da responsabilità risarcitoria. È vero che la disciplina dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui all’art. 1218 trova applicazione anche in presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà, operando l’art. 2236 solo al fine di stabilire se c’è l’inadempimento (ed inadempimento non vi sarebbe in caso di colpa lieve), mentre l’art. 1218 regola le conseguenze di un inadempimento che sia stato accertato. Se però all’emergenza epidemiologica COVID-19 si conferisce rilevanza in sede di criterio per determinare se vi sia stato adempimento della prestazione professionale (mediante il controllo sulla perizia), non può la medesima circostanza della pandemia tornare ad avere rilievo anche sotto il profilo della causa non imputabile di inadempimento, che costituirebbe peraltro, per quanto si è detto sopra, la sua sede propria. Quel presupposto di fatto o ha rilievo per la disciplina sull’adempimento o ha rilievo per quella sulla responsabilità del debitore, stabilendosi diversamente una contraddittorietà nell’ordinamento. I giudici quindi non potrebbero dare rilevanza al COVID-19 dal punto di vista dell’art. 1218. L’esito dell’emendamento è quello di un depotenziamento dell’esimente di cui all’art. 1218, cioè della sede nella quale la circostanza della pandemia dovrebbe essere correttamente collocata.

È appena il caso di aggiungere che anche il «livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore» troverebbe ospitalità nell’ordinamento. Esso costituisce, all’interno dell’emendamento, la vera ipotesi di problema tecnico di speciale difficoltà, dato che quest’ultima nozione non è assoluta, ma relativa, e va rapportata al livello di specializzazione del sanitario e delle strutture tecniche a sua disposizione. L’art. 2236 troverebbe dunque piena applicazione.

L’ordinamento civile è pronto a recepire la pandemia ed i giudici hanno tutti gli strumenti per fare giustizia, senza la necessità di integrazioni, quale quella in discorso, che potrebbero avere effetti diversi rispetto a quelli attesi.

Se il legislatore reputa tuttavia politicamente opportuno inserire “uno scudo giuridico” per i medici, come è stato scritto in questi giorni, si potrebbe allora immaginare la seguente disposizione: «Costituisce causa non imputabile ai sensi dell’art. 1218 del codice civile la sproporzione tra le risorse disponibili e il numero di pazienti, determinatasi nel corso dell’emergenza epidemiologica COVID-19 di cui alla delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, che abbia cagionato l’impossibilità di eseguire esattamente la prestazione sanitaria».

L’effetto di tale disposizione sarebbe quello di precostituire ex lege il giudizio di non imputabilità della causa di impossibilità della prestazione. L’esistenza del requisito soggettivo della causa di esenzione dalla responsabilità risarcitoria sarebbe dunque prevista in via astratta e generale dalla norma. Resterebbe di competenza del giudice nella singola controversia l’accertamento dell’esistenza del requisito oggettivo, e cioè se la circostanza in discorso abbia nel concreto determinato l’impossibilità di rispettare le regole di diligenza professionale. Una disposizione di questo tipo, prevista per la responsabilità contrattuale, avrebbe poi inevitabili ricadute ermeneutiche sul contenuto della colpa nella responsabilità extracontrattuale (art. 2043), che dovrebbe essere interpretata in modo omogeneo alla colpa contrattuale disciplinata dall’art. 1218.

3. Il problema del diritto penale emergenziale di favore

Ulteriori riserve sul contenuto dell’emendamento si collocano sul piano della costituzionalità, in relazione agli aspetti penalistici, nonché della percezione sociale di questo intervento frontale su una disciplina, come quella della legge 8 marzo 2017, n. 24, che già aveva istituito un regime particolare della colpa per i soli esercenti le professioni sanitarie.

Partendo da questo aspetto vi è da rilevare come la riduzione dell’area di responsabilità alle condotte dolose e a quelle colpose consistite in “palese e ingiustificata violazione dei principi basilari” della professione o dei protocolli e programmi emergenziali rischia di convalidare l’idea che sia necessario e urgente garantire un’immunità rispetto a condotte colpose diffuse: come se, insomma, si dovesse virare verso uno stato di eccezione determinato dal fatto che infermieri e medici stiano in questo momento sistematicamente commettendo degli illeciti e che vadano “coperti”, rispetto a generali colpe professionali rispetto alle quali dovrebbero essere “dichiarati impuniti” con una sorta di amnistia preventiva.

Con l’effetto di produrre, nel medio periodo, quando potranno emergere fenomeni di vexatious litigation, una guerriglia sociale nei confronti di presunti privilegiati, con un effetto complessivo opposto a quello atteso.

Sotto ogni profilo, invece, la deriva verso lo stato di eccezione deve essere evitata, in una fase delicatissima come questa per gli equilibri dell’intero ordinamento giuridico. E va ribadito invece che, come nell’ordinarietà, la condotta professionale di queste categorie, con le limitate eccezioni che la pratica giudiziaria conosce, si svolge in maniera tecnicamente corretta.

Riservando al seguito l’indicazione di un approccio alternativo, va poi rilevato che risulta di dubbia costituzionalità un intervento di diritto penale emergenziale di favore, configurato come una sospensione dei principi di responsabilità accuratamente costruiti dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (e dalla giurisprudenza civile e penale che l’ha sinora applicata).

Sulla questione la Corte Costituzionale si è ripetutamente espressa[1], affermando che il principio di legalità non esclude un giudizio di costituzionalità, anche in malam partem, delle norme penali di favore: ossia delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni.

A partire dalla sentenza n. 148/1983 la Corte ha affermato l’esigenza di evitare la creazione di “zone franche” dell’ordinamento sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali il legislatore potrebbe di fatto operare svincolato da ogni regola, stante l’assenza d’uno strumento che permetta alla Corte di riaffermare il primato della Costituzione sulla legislazione ordinaria.

Il legislatore è tenuto a rispettare i precetti costituzionali sia se effettua scelte di aggravamento del trattamento penale, sia quando dalle sue scelte deriva un trattamento più favorevole.

Il principio di legalità impedisce alla Corte di “creare” nuove norme penali ma non preclude decisioni dichiarative di illegittimità costituzionale che rimuovano dall’ordinamento norme finalizzate a sottrarre “determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo” (sentenza n. 148/1983); e ciò a prescindere (sentenza n. 394/2006) “dall’istituto o dal mezzo tecnico tramite il quale tale trattamento si realizza (previsione di una scriminante, di una causa di non punibilità, di una causa di estinzione del reato o della pena, di una circostanza attenuante o di figura autonoma di reato punita in modo più mite)”.

Secondo la Corte la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione rimane salva in quanto l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, ma è conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, ai casi oggetto della (incostituzionale) disciplina derogatoria.

Quanto all’identificazione delle norme penali di favore, la Corte distingue fra previsioni che delimitano l’area di operatività di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato; e quelle che invece sottraggono una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva.

Secondo la sentenza n. 161/2004 solo queste ultime sono vere e proprie norme penali di favore; mentre le prime costituiscono espressione di «una valutazione legislativa in termini di “meritevolezza” ovvero di “bisogno” di pena, idonea a caratterizzare una precisa scelta politico-criminale»: scelta a cui la Corte non potrebbe sovrapporre “una diversa strategia di criminalizzazione volta ad ampliare […] l’area di operatività della sanzione”.

Si tratta di approcci prudenti e articolati e tuttavia un diritto penale emergenziale di favore destinato a una categoria di soggetti professionali sulla base del postulato della necessità di loro sottrazione alle conseguenze di “tutti gli eventi avversi che si siano verificati o abbiano trovato causa durante l’emergenza epidemiologica” (emendamento Marcucci e altri) potrebbe entrare in questa valutazione di legittimità costituzionale: con conseguenze perigliose di applicazione dell’articolo 2 cp e dell’articolo 30 l. n. 87/1953: determinando, in concreto, una protratta sofferenza per infermieri e medici vittime di richieste o denunce infondate.

4. Che cosa serve alle professioni sanitarie?

Un legislatore emotivamente partecipe delle straordinarie difficoltà degli operatori della sanità non può rinunziare alla razionalità complessiva e al mantenimento della coerenza dell’ordinamento.

Il che non significa “non voler aiutare” infermieri e medici. Tutt’altro.

Non è necessario sospendere i principi giuridici della colpa professionale poiché il postulato è, invece, che infermieri e medici stiano agendo correttamente nelle condizioni date.

È da rimarcare, in questo senso, una sorta di canovaccio di sfiducia contenuto negli emendamenti esaminati quando si dice che ai fini della valutazione della colpa grave vanno anche considerati anche “la situazione organizzativa e logistica della struttura in relazione alla novità ed eccezionalità del contesto emergenziale, al numero di pazienti su cui è necessario intervenire e alla gravità delle loro condizioni, alla disponibilità di attrezzature e di personale”: perché questo altro non è che il campo di applicazione delle metodiche di triage, canoni scientifici di selezione delle priorità che gli operatori della sanità utilizzano professionalmente da sempre sia nell’emergenza sanitaria territoriale, sia nei dipartimenti ospedalieri di emergenza urgenza per l’attività tradizionalmente definita di pronto soccorso, sia nelle situazioni di grande emergenza (eventi maggiori, catastrofi)[2].

Il tema non è dunque quello di creare un coacervo di norme derogatorie che li preservino da una soccombenza o da una condanna, in casi che già alla luce dell’applicazione rigorosa delle norme attuali verrebbero giudicati con ogni probabilità a loro favore: ma di sollevarli il più possibile dal gravoso impatto prodotto su di loro non dall’esito finale bensì dalla sottoposizione a procedimenti civili o penali.

La cui lunghezza e gravosità rischia di non essere minimamente intaccata dalle norme che si vorrebbero introdurre nel decreto-legge n. 18/2020 e che potrebbero invece essere meglio contestualizzate in un provvedimento ad hoc, nel quale ci si occupasse anche di altre questioni, apparentemente di contorno ma invece di immediata utilità.

Per vero vi è un emendamento, che, al di là della valutazione della soluzione di merito proposta, affronta due di questi aspetti: è l’emendamento Lomuti e altri che ipotizza un’estensione del gratuito patrocinio a favore degli esercenti le professioni sanitarie e si occupa di eventuali procedimenti disciplinari a loro carico.

Ma sarebbe necessario agire sul sistema esistente della legge n. 24/2017, limitatamente e in maniera funzionale, per consentire a medici e infermieri che operano nell’emergenza di concentrare totalmente le loro competenze e capacità sull’assistenza ai pazienti senza necessità di forma alcuna di medicina difensiva.

Ad esempio: al fine di consentire alle strutture sanitarie e socio-sanitarie, pubbliche e private, la priorità di risposta alle attività finalizzate al contenimento e alla gestione dell’emergenza epidemiologica, potrebbe essere significativamente prorogato il termine di cui all’art. 4, comma 2, della legge 8 marzo 2017, n. 24 per la risposta a richieste (che possiamo immaginare numerose) di documentazione sanitaria.

Ed ancora: considerata la centralità della medicina dell’emergenza in questa fase, ai fini dell’applicazione dell’articolo 5 della legge n. 24/2017 le linee guida (presupposto di applicazione delle limitazioni di responsabilità già ora previste alla legge Gellli-Bianco) per le attività determinate dalle esigenze di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica, potrebbero essere proposte non solo dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche di cui all’articolo 5, comma 1 l. n. 24/2017 ma anche direttamente dal Comitato tecnico scientifico di cui all’articolo 2 dell’ordinanza del Capo del dipartimento della Protezione civile 3 febbraio 2020, n. 630.

E, sempre nel campo più sensibile, quello della medicina dell’emergenza, un decreto del Ministro della salute potrebbe da subito determinare, con riferimento alle esigenze di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica, le modalità di rispetto per l’anno 2020 degli adempimenti di cui al D.M. 2 aprile 2015 n. 70 e al dPR 27 marzo 1992 e individuare nell’ambito di tali modalità le buone pratiche assistenziali dell’emergenza (altro canone delle limitazioni di responsabilità già ora previste alla legge Gellli-Bianco).

In sintesi: una situazione straordinaria rischia di far crescere frutti avvelenati se semina eccezioni, e risponde invece stabilmente a esigenze concrete se induce a un’azione normativa razionale e dinamica.

 

 

[1] Sentenze n. 148/1983, nella quale si parlava dell’esigenza di evitare la creazione di “zone franche” dell’ordinamento, n. 826/1988, n. 124/1990, n. 167/1993, n. 194/1993, n. 25/1994, n. 161/2004, n. 394/2006; ordinanze n. 433/ 1998 e n. 95/2004.

[2] www.questionegiustizia.it/articolo/risposta-all-emergenza-sanitaria-e-triage-appunti-per-una-lettura-penalistica_26-03-2020.php .

[**] Enrico Scoditti, consigliere della Corte di cassazione
Giuseppe Battarino, magistrato collaboratore della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle ecomafie

03/04/2020
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