Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Discriminazioni per età: Cenerentola ha perso per sempre la sua scarpetta

di Federico Grillo Pasquarelli
Consigliere della Corte d'appello di Torino, Sezione Lavoro
Con l’attesa sentenza sul caso Abercrombie la Corte di giustizia Ue ha dichiarato che il contratto di lavoro intermittente – che, in base all’art. 34 d.lgs 276/2003, poteva essere concluso “in ogni caso” con soggetti di età inferiore a 25 anni – e persino la sua cessazione automatica al compimento dei 25 anni, non contrastano con la Direttiva 2000/78 e con il principio di non discriminazione per ragioni di età: la sentenza, che trascura la precedente giurisprudenza della stessa Cgue, non convince sotto vari profili

Si sapeva che l’età è il fattore Cenerentola tra i fattori di discriminazione vietata, non solo perché è l’ultimo arrivato (è comparso per la prima volta nel 1997, nell’art. 13 del Trattato Ue, e solo nel 2000 è entrato a pieno titolo nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali), ma anche perché è quello maggiormente sottoposto a limitazioni ed eccezioni, sia da parte della Direttiva 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (vds. art. 6), sia da parte delle legislazioni nazionali in tema di lavoro e di previdenza.

Ma ora, con l’attesa sentenza sul caso Abercrombie (Cgue, 19 luglio 2017, C-143/16), la Corte di giustizia dell’Unione europea sembra proprio avere scritto la parola “fine” all’elaborazione giurisprudenziale sulle discriminazioni per età, spezzando per sempre i sogni della povera Cenerentola.

La vicenda è nota: un giovane di età inferiore a 25 anni viene assunto da Abercrombie & Fitch Italia nel 2010 con contratto a chiamata a tempo determinato (cd. lavoro intermittente), poi convertito in contratto a chiamata a tempo indeterminato; il giovane lavora regolarmente per oltre un anno e mezzo, fino al compimento dei 25 anni di età, quando viene licenziato per il venir meno del requisito soggettivo dell’età.

Nella versione vigente alla data di assunzione, infatti, l’art. 34 d.lgs 276/2003 prevedeva che il contratto di lavoro intermittente potesse essere concluso non solo «per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi», ma anche «in ogni caso… con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età anche pensionati…»: all’epoca, pertanto, era possibile stipulare un contratto di lavoro intermittente, per qualunque tipo di prestazione, con l’unico requisito dell’età anagrafica (meno di 25 o più di 45 anni), e non era richiesto, ad esempio, che il giovane fosse disoccupato da un certo tempo, che fosse in cerca di prima occupazione, o in mobilità, o privo di formazione professionale etc.

Non solo. Nonostante il silenzio della norma sul punto, l’interpretazione corrente era nel senso che i contratti conclusi con lavoratori di età inferiore ai 25 anni dovessero cessare automaticamente quando il lavoratore avesse compiuto 25 anni. Tale limite è stato poi formalmente introdotto nella disciplina normativa dalla l. 92/2012, che ha espressamente previsto che «le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età».

Nel caso Abercrombie, il lavoratore “ex-giovane” (ormai ultra 25enne…) si è rivolto al Tribunale di Milano contestando la legittimità del contratto di lavoro intermittente e del successivo licenziamento, per discriminazione in ragione dell’età; il tribunale ha dichiarato improponibile il ricorso per ragioni processuali. Su gravame proposto dal lavoratore, la Corte d’appello di Milano, con sentenza 15 aprile 2014, n. 406[1], ha dichiarato la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed ha condannato Abercrombie a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno in misura pari alla retribuzione media mensile dalla data del licenziamento a quella della sentenza.

La Corte d’appello di Milano ha rilevato, anzitutto, che l’art. 34 d.lgs 276/2003 «introduce un trattamento differenziato che trova fondamento esclusivamente sull’età senza alcuna altra specificazione, non avendo richiamato alcuna ulteriore condizione soggettiva del lavoratore (per es., disoccupazione protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale)»; richiamando espressamente l’insegnamento della sentenza Cgue, 22 maggio 2005, C-144/04 – Mangold, i giudici milanesi hanno poi osservato che «il mero requisito dell’età non può giustificare l’applicazione di un contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un ordinario contratto a tempo indeterminato e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato i 25 anni non trova alcuna ragionevole ed obiettiva motivazione. Analogamente, nessuna ragionevole giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del 25° anno, il contratto debba essere risolto». Di qui, la valutazione della natura discriminatoria della norma di legge e del comportamento del datore di lavoro per avere proceduto all’assunzione del lavoratore con contratto intermittente esclusivamente sulla base della sua età anagrafica.

La società Abercrombie ha proposto ricorso per cassazione e la Corte di cassazione, con ordinanza 29 febbraio 2016, n. 3982, ha sollevato la questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE, chiedendo alla Corte di giustizia dell’Unione europea «se la normativa nazionale di cui all’art. 34 del d.lgs n. 276/2003, secondo la quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di venticinque anni di età, sia contraria al principio di non discriminazione in base all’età, di cui alla Direttiva 2000/78 e alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 21, n. 1)».

La soluzione della questione pregiudiziale appariva quasi scontata: il caso del contratto di lavoro intermittente sembrava pressoché sovrapponibile a quello affrontato dalla Corte di giustizia nella fondamentale sentenza Cgue, 22 maggio 2005, C-144/04 – Mangold, nella quale era stato esaminato un contratto a termine a causale applicabile ai soli lavoratori che avevano compiuto una certa età (52 anni). In quell’occasione la Corte aveva dichiarato contraria al principio di non discriminazione la norma nazionale (tedesca), in quanto considerava l’età del lavoratore come unico criterio giustificativo dell’assunzione a tempo determinato, «senza che sia stato dimostrato che la fissazione di un limite di età, in quanto tale, indipendentemente da ogni altra considerazione legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi ed alla situazione personale dell’interessato, sia obiettivamente necessaria per la realizzazione dell’obiettivo dell’inserimento professionale dei lavoratori anziani in disoccupazione». Analogamente, nel caso del contratto di lavoro intermittente, l’unico requisito previsto dalla legge era quello dell’età anagrafica, indipendentemente da ogni altra considerazione quale, ad esempio, lo stato di disoccupazione o la ricerca del primo impiego da parte del giovane. 

Le aspettative di una ulteriore affermazione del principio di non discriminazione in base all’età sono state alimentate anche dalle conclusioni dell’Avvocato generale (presentate il 23 marzo 2017), che ha ritenuto che l’art. 34 d.lgs 276/2003 introduceva una «evidente disparità di trattamento legata all’età», sia nell’accesso al lavoro sia per il licenziamento, ed ha segnalato come le finalità della norma indicate dal Governo italiano (promuovere la flessibilità nel mercato del lavoro al fine di aumentare il tasso di occupazione, favorire l’accesso dei giovani nel mercato del lavoro, fornire ai giovani un’opportunità di prima occupazione consentendo loro di maturare un’esperienza iniziale pur senza garantire un’occupazione stabile), pur rientrando tutte nell’elenco esemplificativo di finalità legittime contenuto nell’art. 6, par. 1, della Direttiva 2000/78, conducessero in direzioni diverse e non sempre coerenti fra loro.

La critica più puntuale mossa dall’Avvocato generale alla norma esaminata riguarda l’appropriatezza della misura di politica occupazionale ivi prevista, vale a dire l’idoneità dei mezzi scelti dal legislatore italiano per conseguire l’obiettivo: rispetto al fine generale di promuovere la flessibilità nel mercato del lavoro «non è chiaro… perché l’onere di realizzarlo dovrebbe gravare soltanto su specifiche fasce di età», con il risultato di esporre i giovani lavoratori al rischio «di restare confinati nei gruppi più precari del mercato del lavoro»; rispetto all’obiettivo di promuovere l’occupazione giovanile, poi, non appare coerente la previsione del licenziamento automatico al compimento dei 25 anni, che «sposta semplicemente il problema, rinviando la disoccupazione alla fascia di età successiva»; quanto alla finalità di fornire ai giovani un’opportunità di prima occupazione, infine, la norma risulta inefficace perché non richiede che i giovani da assumere con contratto intermittente siano privi di una pregressa esperienza professionale, ma «fa riferimento unicamente all’età».   

Ed invece, per la Corte di giustizia (Cgue, 19 luglio 2017, C-143/16) la norma va bene così: la sentenza ammette che l’art. 34 d.lgs 276/2003 «nella parte in cui prevede che un contratto di lavoro intermittente possa essere concluso “in ogni caso” con un lavoratore di età inferiore a 25 anni e cessi automaticamente quando il lavoratore compie 25 anni, introduce una disparità di trattamento basata sull’età, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della Direttiva 2000/78»; ma, subito dopo, ripete il noto refrain secondo cui «gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo».

In proposito, peraltro, la Corte dimentica di aggiungere che tale margine discrezionale «non può avere l’effetto di svuotare della sua sostanza l’attuazione del principio di non discriminazione in ragione dell’età» (così, invece, Cgue, 13 novembre 2014, C-416/13 – Vital Pérez, punto 67 e giurisprudenza ivi citata) e che, conseguentemente, «semplici affermazioni generiche, riguardanti l’attitudine di un provvedimento determinato a partecipare alla politica del lavoro, del mercato del lavoro o della formazione professionale, non sono sufficienti affinché risulti che l’obiettivo perseguito da tale provvedimento possa essere tale da giustificare una deroga al principio di non discriminazione in funzione dell’età» (Cgue, 5 marzo 2009, C-388/07 – Age Concern England, punto 51).

La Corte, dunque, trascurando i suoi stessi precedenti, non dubita che la disposizione nazionale in esame, «avendo la finalità di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, persegue una finalità legittima, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della Direttiva 2000/78». Passando, poi, a valutare l’appropriatezza dei mezzi adoperati per conseguire tale finalità, si accontenta di osservare, in poche battute, che «in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata, la situazione di un lavoratore che abbia meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro flessibile e temporaneo, quale il contratto intermittente, possa accedere al mercato del lavoro è preferibile rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non abbia e che, per tale ragione, si ritrovi disoccupato». Quanto alla risoluzione automatica del contratto al compimento dei 25 anni, infine, rileva che se i contratti di lavoro intermittente fossero dotati di stabilità «le imprese non potrebbero offrire lavoro a tutti i giovani, con la conseguenza che un numero considerevole di giovani non potrebbe accedere a tali forme di lavoro».

Date queste premesse, la conclusione è scontata: «L’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea nonché l’art. 2, par. 1, l’art. 2, par. 2, lettera a), e l’art. 6, par. 1, della Direttiva 2000/78… non ostano ad una disposizione nazionale che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno».

La sentenza, tuttavia, non prende in esame le precise osservazioni dell’Avvocato generale e non si fa carico di confutarle: semplicemente, le ignora.

Così come trascura di considerare che l’art. 6, par. 1, della Direttiva 2000/78, nell’elencare le finalità legittime di politica occupazionale che fanno sì che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione, stabilisce chiaramente che le disparità di trattamento riguardanti «la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione…, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento» possono riguardare «i giovani e i lavoratori anziani… onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi»: ciò significa che, in questo ambito, il fattore età può essere preso in considerazione dai legislatori nazionali solo allo scopo di assicurare un vantaggio ai soggetti ai quali la disposizione che introduce la disparità di trattamento si riferisce, e non per trattare questi ultimi meno favorevolmente della generalità dei lavoratori.

Davvero non si vede come possa considerarsi legittima, quantomeno, la disposizione che, allo scopo dichiarato di favorire l’occupazione giovanile, prevede il licenziamento automatico al compimento del venticinquesimo anno di età, indipendentemente da ogni considerazione di carattere economico o disciplinare: non pare contestabile che tale elemento comporti un trattamento assai meno favorevole per un gruppo di lavoratori unicamente in ragione dell’età.

Né appare convincente, d’altra parte, l’argomento utilizzato dalla Corte secondo cui la risoluzione automatica del rapporto di lavoro al compimento dei 25 anni farebbe sì che le imprese possano offrire ai giovani un numero consistente di posti di lavoro: in altre parole, una fetta di torta più piccola ad un maggior numero di persone.

In realtà, anche questo argomento è viziato da una discriminazione in base all’età: perché la torta dovrebbero ripartirsela, in fette sempre più piccole, solo i giovani al di sotto dei 25 anni di età, mentre ad altri lavoratori, appartenenti ad altre fasce di età, è servita una torta intera, o persino un pasto completo.

Se, poi, si confrontano le astratte convinzioni dei giudici di Lussemburgo con la drammatica realtà dell’occupazione giovanile nel nostro Paese, non ci si può proprio illudere che misure occupazionali come il contratto di lavoro intermittente – introdotto dal d.lgs 276/2003 ed oggi disciplinato dagli artt. 13 e ss. d.lgs 81/2015, con la quasi identica previsione che il contratto «può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno» – abbiano potuto avere qualche effetto positivo: la disoccupazione giovanile nella fascia di età dai 15 ai 24 anni (proprio la fascia di età a cui si rivolge questa tipologia contrattuale), che era al 18,2% nel marzo 2007, è più che raddoppiata nei sette anni della grande crisi economica, balzando al 44,2% del marzo 2014, ed è lentamente scesa ad un tutt’altro che rassicurante 35,5% nel luglio 2017 (dati Istat diffusi il 31 agosto 2017).

È facile prevedere che se la Corte di giustizia continuerà ad adottare un simile, e tanto timido, atteggiamento di self-restraint nel sindacato giudiziale sulle finalità di politica del lavoro dichiarate dai legislatori nazionali e sui mezzi da essi scelti per conseguirle, la lotta alle discriminazioni per età non farà passi avanti significativi e Cenerentola non incontrerà mai più il suo Principe.

 

02/10/2017
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