Ampio e vivace, e per certi versi fecondo, si è fatto il dibattito tra gli operatori del diritto sulla corretta interpretazione prima, e sulla concreta applicazione poi, della recente riforma in materia di filiazione, incluse le disposizioni sul riparto di competenze tra il giudice dei minori e quello della separazione, con correlate problematiche circa le relative funzioni del Pubblico Ministero, questione che in queste brevi riflessioni cercherò di illustrare per offrirne ulteriore occasione di discussione.
Già dall’entrata in vigore della L. 10.12.12 n. 219 (anzi ancor prima) si era registrata una certa preoccupazione da parte dei giudici minorili circa la possibilità che la tanto auspicata parificazione tra figli “legittimi” e “naturali” comportasse, nella pratica, una riduzione della effettiva tutela di soggetti vulnerabili, quali i minori, che il diritto nazionale e sovranazionale mira a garantire attraverso la previsione di un giudice specializzato.
Preoccupazioni che non sono state fugate dal D. L.vo 28.12.2013 n. 154, il quale merita certamente una attenta lettura, se non altro per il concetto di “responsabilità genitoriale” introdotto col novellato art. 316 c.c., con annessa sostituzione del termine “potestà” contenuto nelle altre numerose norme di codici e leggi speciali, argomento che comunque esula dal tema che qui intendo affrontare.
E difatti, per tornare al problema della suddivisione delle competenze, è rimasta immutata e sempre più pressante l’esigenza di verificare se ed in quali termini la infelice formula adottata dall’art. 3 della sopra citata legge (il quale, come noto, ha modificato l’art. 38 disp. Att. c.c.) valga a dirotgtare la competenza funzionalmente attribuita al T.M. relativamente ai procedimenti limitativi o ablativi della potestà (rectius responsabilità genitoriale) verso il T.O., laddove sia instaurato avanti a quest’ultima A.G. un giudizio che oggi va inquadrato tra quelli disciplinati dagli artt. 337 bis e segg. Cod. civ., quali introdotti dal D.L.vo 154/13 (con cui, in buona sostanza, sono stati assimilati i procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio a quelli di separazione, come pure a quelli instaurati ai sensi del novellato art. 316 c.c., tutti ora soggetti alla cognizione del T.O., così risolvendo i problemi posti dall’omessa previsione nel menzionato art. 38 dei procedimenti ex art. 317 bis, in passato devoluti alla competenza del T.M., il quale dovrà solo intervenire nell’ambito dei rapporti tra minori ed ascendenti).
E’ dunque scaturito un serrato confronto tra i giudici minorili e le corrispondenti Procure, che inevitabilmente, e direi finalmente, ha coinvolto sia il giudice che il P.M. presso il Tribunale ordinario, confronto reso ineluttabile da una tecnica legislativa quanto meno poco accorta, quale quella con la quale si è costruito il nuovo art. 38 disp. Att. C.c..
Non è superfluo rammentare che in detta norma è stato precisato, nel primo comma, quali siano in via generale i procedimenti funzionalmente devoluti alla competenza del T.M., con la specificazione che: “per i procedimenti di cui all’art. 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario” (art. 37 bis lett. c) D. L.vo n. 154/13: sono altresì di competenza del tribunale per i minorenni i provvedimenti contemplati dagli artt. 251 e 317 bis del codice civile).
Nel tentativo di attribuire ad una simile espressione un significato meno oscuro e quanto più aderente al principio di concentrazione dei giudizi avanti al medesimo organo, ma anche alla finalità di salvaguardare la specializzazione della tutela giurisdizionale dei minori, mi è tornato utile un lavoro di assemblaggio delle varie e disparate opinioni al riguardo comparse sulla mailing list dell’aimmf, spesso corredate dai primi provvedimenti emanati dalle differenti AA.GG. del territorio nazionale e – in taluni casi – da linee guida o protocollipredisposti ad hoc.
Le idee che sono scaturite dal confronto mi hanno allora stimolato a tradurre in questo scritto alcune considerazioni che - per quanto aperte ai contributi che verranno dagli sviluppi del dibattito negli altri distretti, e nell’attesa di verifica delle conseguenti ricadute sul piano pratico - ad oggi consentirebbero di uscire da una situazione di incertezza e disorientamento che in qualche modo ha comportato una inopportuna diversificazione dei modelli di intervento di ciascun giudice su singoli casi, ovvero, a monte, una disparità di richieste inoltrate dagli organi della Procura minorile.
Ed invero, sgombrato il campo da ogni equivoco circa il mantenimento in capo al T.M. delle competenze scaturite dalle comunicazioni dovute a norma dell’art. 609 decies c.p.(ed ovviamente di quelle attinenti l’eventuale dichiarazione dello stato di abbandono e le conseguenti procedure di adozione di minori), uno dei primi spunti di discussione all’indomani dell’entrata in vigore della L. n. 219/12 è stato quello di individuare in forza di quale criterio si sarebbe dovuto operare un “passaggio di competenze” dal T.M. al T.O., in pendenza di un giudizio di separazione, tutte le volte in cui si presenti una questione che possa determinare l’emanazione di provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità dei genitori.
Per il vero, dovendosi a mio avviso decisamente negare che possa ravvisarsi una litispendenza tra i procedimenti de potestate e le vicende giudiziarie avviate avanti al T.O. in epoca anteriore ai suddetti procedimenti (tale senso potendosi attribuire al tenore testuale dell’art. 38, che fa riferimento ad un giudizio in corso) su aspetti attinenti, oltre che la separazione, anche l’esercizio della potestà - se non altro in quanto non si tratterebbe della “stessa causa” proposta avanti a due giudici egualmente competenti, giacchè la competenza attribuita sul piano generale al T.M. gli sarebbe stata sottratta, a prima vista, proprio in virtù della vis attrattiva prevista per legge nei casi in questione – sarebbe forse più corretto parlare di continenza di cause a norma dell’art 39 c.p.c., soluzione, questa (che ad es. i giudici ordinari e minorili di Brescia hanno sostenuto nello stilare un protocollo di intesa datato 10.4.2013), ad ogni modonon del tutto pacifica, poiché anche in tal caso varrebbe l’osservazione che il medesimo art. 38 avrebbe privato il T.M. ex lege della propria competenza.
Mi è sembrato tuttavia poco utile approfondire tale aspetto, sul quale in verità in questa sede possiamo trascurare di soffermarci, altre essendo le ragioni che potrebbero indurre a condividere una interpretazione ragionevole, nei limiti di cui appresso si dirà, di una innovazione legislativa mal concepita
Intanto possiamo rammentare che, in concomitanza con l’entrata in vigore della riforma, da più parti si è ritenuto necessario muoversi sul solco di una lettura del più volte citato art. 38 assolutamente fedele al dato letterale ed alla manifesta volontà di concentrazione dei giudizi, nel senso di ritenere che in tutte le ipotesi in cui fosse stata segnalata alla Procura minorile una situazione gravemente pregiudizievole per minori i cui genitori avessero già intrapreso avanti al T.O. un giudizio di separazione etc., si dovesse riconoscere la vis attrattivadi tale A.G. preventivamente adita, sia che il pregiudizio implicasse eventuali provvedimenti limitativi sia che si profilasse l’esigenza di emanare provvedimenti ablativi della potestà.
Se infatti, secondo i fautori di tale tesi, in ipotesi siffatte anche al P.M. presso il T.O. andrebbe riconosciuta la qualità di “parte”, dotata di tutti i poteri di iniziativa, ed anche di impugnazione, attribuiti alla parte pubblica nel rito minorile (ciò in quanto le regole di cui agli artt. 69 e segg. c.p.c., circa i poteri conferiti al P.M. nel processo civile, altro non farebbero che rimandare alle disposizioni che ne consentono o ne impongono l’intervento, o che gli attribuiscono poteri di iniziativa, cosa che appunto si verificherebbe allorchè in un procedimento di separazione o divorzio o comunque di cessazione della convivenza dei genitori si inneschi una procedura azionabile ex art. 336 c.c., essendo la competenza del requirente sempre rapportata a quella del giudice presso il quale è istituito), sotto altro profilo l’infelice dizione dell’ultima parte dell’art. 38 circa “i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo” dovrebbe intendersi nel senso di comprendervi queiprovvedimenti emanati nella serie di procedimenti disciplinati dalle norme indicate nella prima parte dell’articolo di che trattasi.
In effetti però, sulla interpretazione fatta propria dai sostenitori del suddetto orientamento è legittimo sollevare non poche perplessità, in primo luogo poco convincente risultando la tesi che in ogni caso al P.M. presso il T.O. (oltretutto niente affatto attrezzato a misurarsi con le problematiche tipiche dei contesti ove opera il giudice minorile, e poco incline ad assumere un ruolo maggiormente attivo a tutela dei minori, ampliando in tale direzione la propria specializzazione ed addivenendo a protocolli di raccordo con i servizi territoriali, oltre che col P.M. minorile) possano riconoscersi le medesime prerogative attribuite all’omologo organo del T.M., soprattutto in ragione del fatto che i suoi poteri di intervento e di iniziativa costituiscono una eccezionale deroga al potere dispositivo delle parti proprio del processo civile (cfr. sul punto Cass. I, n.17764/2012).
In secondo luogo, ulteriore motivo di dubbio deriva dalla constatazione che la formulazione del richiamato art. 38 sembrerebbe delineare una forma di competenza del G.O. “a tempo”, circoscritta cioè alla durata del procedimento scaturito dall’evento separativo, decorrente dal deposito del ricorso introduttivo fino all’emanazione del provvedimento conclusivo del primo grado di giudizio (con le connesse difficoltà dovute alla carente disciplina di ciò che avverrebbe una volta definito il detto procedimento), e soprattutto dal rilievo che – quanto meno con riguardo alle pronunce di decadenza – la imprecisa dizione della norma non autorizzerebbe a riconoscervi una chiara intenzione di trasferire anche tale competenza al G.O., giacchè ove così fosse stato sarebbe bastato prevedere che per i procedimenti di cui all’art. 333, 330 etc, resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi … di giudizio di separazione etc. in luogo dell’oscura frase la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario (v. al riguardo decreto del Tribunale minorenni di Palermo dell’11.12.2013).
Ed allora, meno fragile appare altra opzione ermeneutica, che qui vengo ad illustrare, qual’è maturata seguendo il dibattito e selezionando le variegate posizioni dalle quali dottrina e giurisprudenza si sono accostate alla controversa questione.
Addentrandoci nel dettaglio di un ragionamento che in buona misura mi pare convincente, va detto preliminarmente che si deve conferire il giusto valore al primo dei presupposti indicati dal legislatore per rendere operante la vis attrattiva, vale a dire che vi sia un giudizio in corso, seguito alla cessazione della convivenza dei genitori, poiché l’utilizzo di tale locuzione non può avere altro significato se non quello che il procedimento disciplinato dagli artt. 337 bis e segg. Cod. civ. deve essere iniziato in epoca antecedente a quello volto ad incidere sulla responsabilità genitoriale (peraltro opportunamente dovendosi distinguere tra giudizio in corso e giudizio pendente, poiché ove ad es. pendessero i termini per l’impugnazione ovvero per la riassunzione, il vuoto di tutela in tal modo creatosi dovrebbe ad ogni buon conto comportare la competenza esclusiva del T.M.).
Ciò premesso, per tentare di dare un senso compiuto alle generiche indicazioni suggerite dalla norma che stiamo esaminando, pare preferibile concentrarsi dapprima sulla portata innovativa di essa rispetto a situazioni che, ai sensi dell’art. 330 c.c., possano in ipotesi implicare uno spostamento di competenza del T.M. verso il giudice deputato a trattare la vicenda separativa.
A tal proposito (con la ragionevole riserva di una massiccia opera di sensibilizzazione della magistratura ordinaria rispetto a temi tradizionalmente devoluti alla cognizione della magistratura minorile) da più parti si è fatta strada la propensione ad includere nella competenza del T.O. procedente anche quella inerente la pronuncia di decadenza, ciò in funzione dell’obiettivo di privilegiare la ratio ispiratrice della novella, vale a dire l’unicità delle tutele del minore, obiettivo, questo, coniugato alla fondata preoccupazione di evitare che le parti in causa possano strumentalizzare a piacimento la presenza di diverse AA.GG. virtualmente egualmente competenti (v. tra le altre la decisione del T.M. di Torino apparsa sulla lista aimmf, nonché quelle del T.M. di Bari del 30.3.2013 e per ultimo del T.M. di Sassari del 14.1.2014, ed inoltre le linee operative assunte in data 18.10.13 dal T.M. di Trieste)
Senza trascurare - ma tralasciando, per mera comodità espositiva, di soffermarvisi - le valide argomentazioni spese a sostegno di tale orientamento, interessa qui sottolineare come si riveli più convincente l’opinione di chi (v. decreti T.M. Catania 22.5.2013, T.M. Brescia 22.7.2013, T.M. Palermo 11.12.2013, nonché il commento di C. Padalino in affidamentocondiviso.it, ed ancora la nota di riscontro al Ministero da parte del Presidente T.M. Firenze L. laera) ha decifrato il controverso significato del nuovo art. 38, nel senso che l’inciso trascritto nel 1° comma dopo il segno punto e virgola: in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario, vada in realtà rapportato unicamente al primo periodo della seconda – e non della prima – parte della detta disposizione, in tal modo attribuendosi al giudice ordinario la cognizione dei soli procedimenti (e l’emanazione dei relativi provvedimenti) ex art. 333 c.c. e non di quelli ex art. 330 c.c. .
In altri termini – come si legge nel decreto sopra citato emanato dai giudici palermitani – è significativo l’utilizzo nel primo periodo della seconda parte del 1° comma, dell’espressione procedimenti di cui all’art. 333, contrapposta, nella seconda parte separata da un punto e virgola, all’espressione provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo.
Si tratterebbe in sostanza di adattare la lettura del dato testuale (che in modo approssimativo avrebbe definito come primo periodo quello che deve più correttamente intendersi come periodo precedente) ad una coerente interpretazione logica e sistematica, rispettosa del discrimine tra i provvedimenti volti a regolamentare le modalità di esercizio della potestà da parte di una coppia genitoriale separata, e quelli incidenti sulla spettanza della potestà, nei casi più drammatici di disgregazione familiare.
Peraltro, non pare pertinente il rilievo che così ragionando si andrebbe ad impedire una valutazione unitaria del medesimo nucleo familiare da parte di una stessa A.G., soccorrendo nella direzione qui proposta proprio quegli stessi poteri-doveri di coordinamento che i fautori della indiscriminata vis attrattiva invocano per rendere funzionante l’innovazione legislativa ed effettiva la tutela del minore.
Del resto, a sostegno dell’orientamento ora illustrato, sul quale pure si registra una certa convergenza di opinioni, milita la pur banale osservazione che qualora l’ultima parte dell’art. 38 (in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario) avesse realmente voluto rinviare al primo periodo, il riferimento in quest’ultimo all’intero comparto di materie attribuite alla competenza funzionale del T.M. si risolverebbe in una generalizzata ed ingiustificata trasmigrazione verso il G.O. di attribuzioni che nulla hanno a che vedere con l’azione esercitata innanzi a lui dai genitori.
Legando tali osservazioni all’analisi delle refluenze della novella laddove invece si presenti, nel corso di quella stessa azione, una situazione suscettibile di determinare una compressione della responsabilità genitoriale ex art. 333 c.c., mi sento di poter dire che anche in tal caso la lettura della norma non è particolarmente agevole.
Tra le poche certezze, pare non potersi seriamente dubitare che il giudice ordinario adito possa oggi in via incidentale emanare detti provvedimenti limitativi.
D’altronde, sul solco del riconoscimento, in capo al giudice della separazione, del potere di assumere anche d’ufficio ogni provvedimento utile alla prole, si era già attestata la migliore giurisprudenza di legittimità, muovendo da quelle norme (artt. 155, 155 sexies e 709 ter c.c., art. 6 L. 898/70) che tale potere esplicitamente o implicitamente gli conferivano, e giungendo a ravvisare una competenza esclusiva di quel giudice ogni qual volta si fosse resa necessaria una decisione su una domanda fondata sul comportamento pregiudizievole di un genitore (v. tra le altre l’ordinanza n. 20352/11).
Piuttosto, come peraltro fin dalla pronuncia appena ricordata era stato chiarito, la linea di demarcazione tra la competenza del G.O. e quella del T.M. andrebbe individuata con riferimento ai soggetti legittimati a proporre ricorso ex art. 333 c.c..
Ed il quadro normativo – seppure apparentemente reso più netto dall’introduzione di una deroga alla generale competenza del T.M., in pendenza di un giudizio di separazione – non muta laddove si tenga presente che ancor oggi la titolarità a ricorrere o a resistere avanti al G.O., per quanto appresso dirò, rimane a mio avviso di spettanza dei soli genitori.
Ed invero, l’attenzione va spostata a questo punto sul secondo inciso dato come presupposto dal legislatore perché operi lo spostamento di competenza al T.O., vale a dire che il giudizio colà in corso si svolga tra le stesse parti.
Ebbene, quanto alla identità soggettiva tra le parti, non si può prescindere dal rilievo che allo stato parti dei giudizi avanti al tribunale civile, salvo le disposizioni eccezionali e derogatorie di cui all’art. 70 c.p.c. (v. già citata Cass. I, 17764/2012), sono esclusivamente i soggetti privati legittimati ad agire o resistere, e nella specie unicamente i membri della coppia genitoriale, il che induce a negare che al P.M. ordinario possa, nei detti giudizi, essere implicitamente attribuita la qualità di parte.
Corollario della superiore asserzione è che il P.M. ordinario non dovrebbe poter vantare alcun potere di impulso in ordine ad eventuali provvedimenti limitativi delle prerogative connesse alla responsabilità genitoriale, essendo il suo intervento circoscritto allo svolgimento degli atti elencati dall’art. 72 c.p.c. con riferimento agli altri casi di intervento menzionati al comma 2°.
Una utile chiave di lettura in tal senso è peraltro fornita dalla considerazione che, ove così non fosse, si sarebbe resa necessaria una espressa modifica o abrogazione dei commi 3°e 4° del richiamato art. 72 c.p.c. (che inibiscono al P.M. l’impugnazione delle sentenze di separazione personale), mentre il silenzio serbato al riguardo dal legislatore non può che accrescere i seri dubbi qui prospettati circa il supposto ampliamento dei poteri del P.M. ordinario.
La rigorosa applicazione di un tale principio condurrebbe pertanto a concludere che tutte le volte in cui, nel giudizio in corso avanti al G.O. (tale intendendosi quello di cui agli artt. 316 e 337 bis e segg. c.c. apertosi col deposito del ricorso e che non si trovi in una fase di “quiescenza”), una delle parti private introduca una richiesta limitativa dell’altrui potestà, il T.M. coinvolto successivamente da una delle suddette parti dovrebbe comunque spogliarsi della competenza attribuitagli in via generale (o meglio rimettere gli atti all’ormai competente giudice della separazione), mentre altrettanto non dovrebbe avvenire qualora la richiesta promani dal P.M. minorile, ponendosi unicamente, in tal caso, un problema di raccordo tra AA.GG..
Certamente la soluzione sopra delineata potrebbe apparire alquanto semplicistica, dal momento che proprio la consolidata giurisprudenza che ha ispirato il principio della concentrazione delle tutele ha fatto perno sulla possibilità che il giudice della separazione, nonostante operi nell’alveo di un giudizio di parte, si pronunci anche ultra petita a garanzia dei figli di minore età.
Tuttavia, deve riconoscersi che la chiara scelta legislativa di dar vita ad una riforma che poco o nulla ha di organico - piuttosto che porre mano, finalmente, ad una modifica ordinamentale che ridisegni la geografia giudiziaria (inclusi gli organi della c.d. pubblica accusa) assicurando quel patrimonio di specializzazione che è dotazione irrinunciabile del T.M. - fa sì che, ancora una volta, spetti alla magistratura farsi carico di elaborare criteri quanto più precisi che possano consentire (a tutti gli operatori del diritto ma anche e soprattutto ai diretti destinatari delle decisioni) di individuare quale sia il giudice naturale cui rivolgersi.
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