1. Un’autobiografia, un romanzo, un giallo, un testo di diritto minorile: tutto questo e forse altro ancora nel bel volume di Roberto Di Bella con Monica Zapelli, Rizzoli editore, ottobre 2019.
Posso dire di conoscere bene il primo e abbastanza la seconda per immaginare la mole di lavoro documentale affrontata da Roberto e l’impegno speso nel “montaggio” da Monica. Dico subito che l’effetto finale è splendido: è straordinario pensare che il libro, riferendo la vicenda di quasi trent’anni di vita di un magistrato, con un focus sui casi reali degli ultimi nove anni, mantiene dall’inizio alla fine un ritmo serrato, proponendo racconti di storie drammatiche e avvincenti, con un linguaggio fluido ed uno sguardo attento alla complessa ricostruzione fattuale ma anche agli aspetti emotivi delle storie.
Avrei potuto, ma non l’ho fatto, interpellare gli autori sul contributo di ciascuno: mi piace pensare che Monica abbia saputo scavare nella innata riservatezza, che ben conosco, di Roberto e che si debba a lei, oltre al sapiente montaggio delle storie, la descrizione così attenta delle emozioni e dei sentimenti (uno degli aspetti più belli del libro) che il primo aveva vissuto ma avrebbe avuto remora a raccontare.
Il progetto a cui è intitolato il libro è strettamente legato alla storia professionale di Di Bella: primo incarico come giudice minorile a Reggio Calabria dove resta per una dozzina d’anni; pausa di sei anni presso il Tm di Messina; rientro a Reggio Calabria come Presidente del Tribunale per i minorenni.
2. Roberto racconta che pensava di essere troppo giovane per un ruolo direttivo e non contava che la domanda fosse accolta. Era il 15 settembre 2011: quindici giorni prima, il 20 agosto, si era (melius era stata) suicidata la donna che nel libro (in cui ai veri nomi sono stati sostituiti nomi di fantasia) Teresa (chi ha seguito le vicende sulla stampa sa che si trattava di Maria Concetta Cacciola). Maria Concetta, moglie di uno ‘ndranghetista, divenuta testimone di giustizia, era stata messa in protezione e collocata lontano dalla Calabria. Ricattata affettivamente dai nonni materni che manipolavano i tre figli, era rientrata in Calabria, era stata indotta a ritrattare tutte le accuse ed alla fine era morta a seguito dell’ingestione di un litro di acido muriatico. Tutti, in primis gli investigatori che avevano proseguito le indagini, comprensive di captazioni, avevano sottovalutato l’importanza della relazione madre-figli e di conseguenza non avevano maturato la necessità di uno stretto coordinamento con la giustizia minorile. Negli stessi giorni aveva seguito un percorso parallelo la cugina di Teresa, Antonia (nella realtà Giuseppina Pesce). Anche per lei, prima testimone-collaboratrice di giustizia, poi ritrattante, e di nuovo collaboratrice, si profilava la stessa sorte, ma questa volta investigatori, requirenti e giudici minorili erano pronti. Nel marzo 2012 con il primo provvedimento a tutela di minori di ‘ndrangheta, figli di testimoni o collaboratori di giustizia, venivano allontanati i figli di Teresa. Alla prima seguirono altre decisioni analoghe, tra cui quelle a tutela dei figli di Antonia, ben raccontate nel libro. Quello che si profilava come un filone giurisprudenziale suscitò molte reazioni, per lo più contrarie ed anche aspre: le firme dei critici sulle più importanti testate nazionali, nella prima metà di settembre 2012 erano di peso, Luigi Ferrarella, Sergio Romano, Fulvio Scaparro. Si rimproverava ai colleghi minorili reggini di voler fare giustizia etica quasi riconoscendo solo ai genitori “puri” il diritto a crescere i propri figli. Posso testimoniare che nello stesso ambiente giudiziario prevalevano nettamente le perplessità. All’epoca presiedevo il Tribunale per i minorenni di Catanzaro, competente sulle altre province calabresi. Non erano stati posti alla nostra attenzione casi analoghi a quelli reggini, ma posso dire che, dopo aver letto i provvedimenti ed essermi confrontato con Roberto, non ebbi alcun dubbio (era il 15/9/2012) ad inviare ai giornali una nota (mai pubblicata ma girata solo sulle mailing list specializzate) in cui osservavo che "i provvedimenti di Reggio Calabria, coraggiosi e ben motivati, mentre intervengono doverosamente nell’interesse dei minori coinvolti in vicende familiari francamente tragiche, propongono implicitamente anche altro. Per un verso indirizzano un netto richiamo alla politica perché sappia intervenire sulle cause profonde del degrado sociale, in primo luogo assicurando il diritto al lavoro e la dignità nello svolgerlo, promuovendo culture di legalità e comunque attribuendo le risorse ed il rilievo adeguati all’opera dei Servizi Sociali. Ma con altrettanta nettezza denunciano le carenze delle agenzie votate alla educazione e formazione dei minori (Chiesa, scuola, volontariato oltre che servizi sociali): quanto più queste risorse mancano tanto più diventano inevitabili provvedimenti “di supplenza” emessi in situazioni disperate e in contesti estremi”. E concludevo dicendo che: "non è in ballo la scelta tra Stato etico o Stato liberale, quanto piuttosto se, e quanto, sia possibile esercitare adeguatamente le delicate funzioni di giudice minorile in contesti deprivati culturalmente e afflitti da una diffusa criminalità organizzata. Direi che è in ballo piuttosto la scelta tra uno Stato presente ed attento alle particolarità del territorio e dei suoi cittadini ed uno Stato assente ed inefficiente”.
3. Insomma era inevitabile che il nostro percorso professionale di magistrati con responsabilità di coordinamento di due uffici distrettuali confinanti si avvicinasse (dal 2012 al 2018 per quasi sette anni siamo stati, per così dire “vicini di casa”): ho stimato fin da subito Roberto, l’ho ascoltato varie volte in convegni, ho letto vari provvedimenti a sua firma, ci siamo scambiati visite nei nostri rispettivi uffici. Conoscevo i dati salienti del suo lavoro. Avevo sentito da lui che il Tm di Reggio nell’ultimo quarto di secolo ha trattato più di 100 processi per reati di associazione mafiosa; più di 50 per omicidio o tentato omicidio. Tutti reati commessi da minorenni, appartenenti alle storiche ‘ndrine del territorio, che poi, divenuti maggiorenni, sono finiti al regime penitenziario duro del 41 bis, o sono stati uccisi nel corso delle faide locali o hanno la leadership della ‘ndrina di appartenenza. Più nel dettaglio, è bene sapere che il tribunale, negli anni, ha giudicato minori coinvolti nei sequestri di persona a scopo di estorsione in Aspromonte (tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90); minori utilizzati come vivandieri per latitanti anche all’estero, o che hanno trattato partite di droga, commesso estorsioni per conto dei genitori ristretti in carcere; minori coinvolti a pieno titolo (anche con il ruolo di sicari) nelle dinamiche associative e nelle faide locali. Lo stesso Tm infine ha giudicato adolescenti che si sono resi responsabili di efferati omicidi, anche di rappresentanti delle forze dell’ordine: la vicenda più eclatante è quella che si verificò a cavallo tra gli anni 93-94. Una serie di attentati ai carabinieri culminò poi nel duplice omicidio dei Carabinieri Fava e Garofalo: un minorenne, in concorso con un maggiorenne, è stato condannato a 30 anni di reclusione ed ora è diventato collaboratore di giustizia. Dopo le dichiarazioni del pentito Spatuzza, la medesima è stata riletta nell’ottica della trattativa Stato-mafia.
Valutavo con lui il diverso peso che nei nostri rispettivi uffici avevano il settore penale e quello civile. Per semplificare avrei indicato, per il mio distretto il solito rapporto tra il civile al 70%, ed il penale al 30%, a Reggio per forza di cose, l’impegno dei magistrati sul settore penale chiaramente assorbiva maggiori energie. Valutavo anche la diversa logistica dei nostri uffici: molto più funzionale quello catanzarese e molto più sacrificato quello reggino, con i noti effetti sul benessere degli operatori, e di conseguenza sulla possibilità di adottare miglioramenti organizzativi.
Insomma avevo già molte informazioni, ma in realtà è con il libro licenziato da Roberto che solo oggi sento di apprezzare meglio il lavoro dei giudici minorili reggini. Avevo ben chiaro che nel settore minorile il giudice, chiamato a giudicare i reati commessi nel suo distretto e ad attivarsi nelle procedure limitative della responsabilità genitoriale, più che in altri settori della giurisdizione deve imparare ad affrontare le specificità del territorio e adattare ad esse la sua funzione.
4. Roberto ci racconta (p. 65) come un caso gli aveva particolarmente stimolato una riflessione poco prima dell’interruzione dell’esperienza reggina: “Davide lasciò il mio studio. Lo seguii con lo sguardo, colpito per quell’incontro avvenuto quasi contro la mia volontà. Per la prima volta ero stato giudice in modo diverso. Il mio timone fino a quel momento erano sempre stati esclusivamente la legge, i codici, l’ufficialità del mio ruolo. E la mia posizione emotiva quella di un giudice che, pur dovendo giudicare di ragazzi, si muoveva in una terra in cui i soprusi sofferti dalle vittime erano così enormi, e di solito privi di risarcimento, che la mia preoccupazione era innanzitutto quella di far sentire che lo Stato c’era, che le regole andavano rispettate, che non esistevano connivenze o indulgenze di fronte a nessun cognome. Il dolore di Davide mi aveva costretto a fare un passo in più. Ad andare oltre la linea che divideva chi commetteva reati da chi li subiva, entrando in contatto con la fragilità e la disperazione dei ragazzi delle famiglie di ‘ndrangheta. Per un attimo il fotogramma che qualche anno prima si era sovrapposto alla figura di Vincenzo (uno dei fratelli di Davide, già in precedenza condannato) si era dilatato ed era diventato un altro modo di vedere la realtà. Dall’altra parte non c’erano dei criminali irrecuperabili, ma dei ragazzi che potevano essere aiutati. Erano cresciuti odiando lo Stato ma la loro infelicità era così forte che un dialogo era possibile. Bisognava solo avere il coraggio di tendere la mano”.
Il trasferimento causò la sospensione di quell’esperienza ma evidentemente non l’azzerò. Sei anni dopo, la tragica morte di “Teresa” trova un giudice minorile che, rafforzato dalla importante leva della presidenza dell’ufficio, allenato e sensibilizzato dagli anni trascorsi nella prima esperienza reggina, è pronto a raccogliere i frutti della collaborazione con la giustizia adulta ed a guidare un profondo cambiamento (p. 95). “La continuità dei destini familiari, figlio dopo figlio, in questa come nelle altre famiglie di cui mi occupavo, non faceva che dimostrare una verità elementare: la ‘ndrangheta non si sceglie, si eredita. Bastava guardare gli archivi del tribunale o anche pensare a quei primi mesi del mio ritorno in Calabria. Mi stavo occupando sempre delle stesse famiglie. Nuclei in cui i genitori, figli, nipoti, cugini, finivano per ripercorrere tutti la stessa strada, senza speranza. Pensai ad Antonia, alla sua preoccupazione per il figlio maschio a cui i parenti promettevano già una pistola in regalo. E al marito che le chiedeva, se proprio doveva andarsene, di lasciargli almeno il ragazzo. Perché era il maschio l’erede, quello che andava tirato su a modo suo. I miei pensieri cominciarono a trovare un ordine, il mio sguardo una linearità. Bisognava allontanare questi ragazzi dalla Calabria. Far conoscere loro altri mondi, altre possibilità di vita. Renderli, come era loro diritto, liberi di scegliere.”
5. I colleghi reggini non erano impermeabili alle critiche che piovevano loro addosso. Racconta Roberto (p. 99) che di alcune osservazioni “capivo le intenzioni e condividevo persino i contenuti. Ma non potevo fare a meno di pensare che purtroppo di fronte alle drammatiche urgenze che ero chiamato a fronteggiare suonavano solo come ottimi principi astratti. Il risanamento dell’ambiente, l’avvicinamento dell’Italia alla Calabria di cui parlava Scaparro richiedevano, nel più ottimistico dei calcoli, decenni, mentre la mia clessidra del tempo lavorava su giorni, al massimo mesi.
Non avevo davanti principi da difendere, ma ragazzi in carne e ossa, che andavano aiutati subito, prima di perderli. Io e i miei colleghi eravamo come chirurghi chiamati a operare nel deserto. Sapevamo che ci vogliono le sale operatorie, le camere sterili, le équipe al completo. Ma non le avevamo. Se un paziente ti sta morendo tra le mani e non hai nient’altro che te stesso, intervieni comunque, non aspetti che costruiscano l’ospedale. Perché il paziente morirebbe …"
Ma alla motivazione generale, per i giudici minorili reggini si accompagnava una fortissima spinta individuale: “C’era un’altra ragione che mi muoveva. E riguardava il significato che avevo il dovere di dare a quella che era la mia responsabilità individuale. Chi auspicava altri tipi di intervento si riferiva a un’azione corale, che potesse muovere molti soggetti, la scuola, la società civile, l’intero Paese… Ma io non avevo alcun potere di influenza su ambiti così complessi. Io mi accontentavo di rispondere ad una domanda più semplice, che mi scorreva dentro, silenziosa, da quando avevo conosciuto la situazione drammatica in cui erano costretti a crescere tanti ragazzi in Calabria: “Tu che hai fatto?”. Io, Roberto Di Bella, presidente del tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, che cosa avevo fatto? Avevo provato a muovermi nei perimetri delle azioni “tradizionali” e avevo fallito. I ragazzi che avevo giudicato avevano avuto destini crudeli e tutti già drammaticamente prevedibili. Nel rispetto dei codici e delle leggi, dovevo assumermi il rischio e la responsabilità di scoprire un’altra strada. Non si trattava di rieducare nessuno. Semplicemente di mostrare a questi ragazzi che fuori dagli spazi chiusi delle loro case esisteva un altro mondo. Non avremmo mai chiesto loro di rinnegare i padri e le madri. Solo di domandarsi se veramente volevano per il loro futuro la strada che le famiglie avevano scelto per loro. Se se la sentivano di costruire una vita che dovesse sopportare ogni giorno il peso delle perquisizioni, del carcere, della violenza. O se intendevano provare a costruire qualcos’altro.”
Pur tuttavia l’evidente coinvolgimento morale non appannava la lucidità giuridica dei colleghi. Con le stesse parole di Di Bella (intervento al congresso dei magistrati minorili 7/10/2017) può sintetizzarsi il fondamento giuridico del progetto: “Dal punto di vista giuridico, vi voglio assicurare, non siamo degli avventurieri del diritto, ma ci muoviamo nell’ambito di una cornice normativa costituzionale, internazionale, pattizia che è ben solida. Nei provvedimenti è costante il riferimento agli articoli 2 -30 -31 secondo comma 32 della Costituzione. Dal punto di vista della normativa internazionale, valore assoluto, assume la Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo (come sapete tutti è una convenzione Onu dell’89, che è stata ratificata in Italia nel 91) dalla quale possiamo estrapolare alcuni principi fondamentali degli articoli 3-9 e 29. L’articolo 3 dice: l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente in tutte le decisioni delle autorità giudiziaria, che può comportare l’allontanamento temporaneo, del fanciullo dai suoi genitori, quando lo trascurano o lo maltrattano. L’articolo 29, stabilisce un principio fondamentale, che non può essere circoscritto soltanto all’educazione scolastica e riguarda la responsabilità educativa: “L’educazione del fanciullo deve avere come finalità il rispetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali, dei principi consacrati nella carta delle Nazioni Unite …, dei valori nazionali del paese in cui vive e deve essere idonea a preparare il fanciullo ad assumere la responsabilità della vita, in una società libera, nel rispetto dei principi di uguaglianza, tolleranza, solidarietà”. In sostanza, l’educazione del minore deve tendere a farlo diventare un membro utile della società e a svilupparne il suo senso di responsabilità morale e sociale”. Come vedete tutti principi antitetici a quelli che propone il modello educativo mafioso, che invece è fonte di gravi pregiudizi per l’infanzia. Dal complesso delle norme richiamate in modo sintetico, possiamo trarre una conclusione. Il minore ha diritto a crescere all’interno della propria famiglia, ad essere educato dai suoi genitori, è un diritto fondamentale, ma non assoluto, che deve essere bilanciato e talvolta può essere temporaneamente sacrificato in favore di un altro diritto fondamentale, che è quello di ricevere un’educazione responsabile che lo preservi da quelli che sono i rischi connessi alla trasgressione dei valori condivisi. Lo strumento attuativo, di questi principi, sono i provvedimenti de potestate, che hanno una duplice funzione: servono per evitare il protrarsi del danno, ma anche per evitare in via cautelare che possa verificarsi un danno altamente probabile. Poi i provvedimenti de potestate rispondono anche ad un interesse pubblico, perché la corretta educazione e formazione della responsabilità di un minore è anche garanzia di un ordinato sviluppo della convivenza civile. In altri termini, proteggere il minore dal pregiudizio che gli deriva dalla violazione del suo diritto a ricevere un’educazione responsabile, significa tutelare l’interesse preminente del minore, ma anche quello della collettività.”
6. Per concludere vorrei spiegare perché il volume mi ha sorpreso molto consentendomi di avvicinarmi alla realtà vissuta dai colleghi minorili di Reggio.
Non è la drammaticità delle vicende di vita narrate nel libro né la complessità delle procedure, né la pur evidente capacità professionale con cui sono state affrontate, che mi hanno colpito profondamente. Conosco bene molti altri colleghi altrettanto capaci, regolarmente chiamati, ad amministrare giustizia in procedure molto complesse. È piuttosto la capacità di sostenere un peso così imponente, per molti anni, armati della sola forza della legge, senza perdere non solo l’attenzione alle garanzie ma anche il tratto compassionevole proprio del giudice minorile che, come tutti i giudici, non deve esprimere giudizi morali sulle persone giudicate, ma in più deve mantenersi in posizione di ascolto dei suoi utenti, soprattutto i più piccoli, con la modestia di chi sa di non essere infallibile.
Una delle vicende narrate da Roberto (p. 145) può chiarire meglio il mio pensiero. I genitori di Aurora, dodicenne, seconda di tre figli, sono stati entrambi arrestati per reati di criminalità organizzata: il Tm decide di inviare in una comunità in Sardegna il primogenito, mentre la più piccola di un anno era andata con la madre in carcere. Aurora, bambina molto delicata, brava a scuola, appassionata nello studio dell’inglese, avrebbe potuto restare con i nonni materni in un nucleo in cui vi erano molti pregiudicati e che appariva non sano. Il Tribunale, con una scelta molto sofferta e meditata, a giugno 2015, decise l’allontanamento e l’inserimento in una nuova famiglia per offrire alla bambina un ambiente sereno dove potesse crescere senza condizionamenti. Il racconto dell’esecuzione del provvedimento, preparata accuratamente, era stato terribile. Aurora aveva reagito con disperazione: aveva pianto per tutto il viaggio che la portava verso la sua nuova vita, raggomitolata tra le braccia dell’assistente sociale. “Tornai a casa estremamente provato. All’improvviso tutte le mie certezze erano crollate. La nostra strada era sbagliata. Non potevamo entrare nel labirinto degli affetti di questi bambini e metterci a fare ingegneria sociale. La sorte di certe famiglie è segnata e non era di sicuro un provvedimento che poteva cambiare il loro destino. Come apprendisti stregoni, convinti delle loro ragioni, avevamo aggiunto sofferenza a sofferenza, intervenendo nella quotidianità degli affetti, anche se deviati, di una bambina.” Roberto racconta che la resilienza della ragazzina e la capacità degli operatori della casa-famiglia, in poco tempo restituiscono un’immagine positiva molto diversa da quella che poteva prospettarsi all’inizio.
Ma è la descrizione di quanto accade un anno dopo che offre la chiave di quanto tento di dire. Aurora, autorizzata ad andare a visitare la madre in carcere, passa dal Tm per incontrare i suoi giudici. “Era la prima volta che la incontravo. Fu un momento molto intenso. Aurora si commosse e anche per noi non fu semplice trattenere l’emozione. Ci disse che era felice della sua nuova vita, le piaceva studiare e si trovava bene con le sue nuove amiche. Non voleva più tornare a vivere in Calabria, anche se le mancavano la madre e la sorellina. All’inizio era stata dura, ma adesso era felice. Confidai a lei e ai suoi affidatari, un’assistente sociale e uno psicologo che l’avevano accolta come una dei loro figli, quanto fosse stata difficile e lacerante anche per noi giudici la scelta di allontanarla da casa. E come fosse stato ancora più difficile dopo la sua reazione il giorno della partenza. Non avevo mai esternato a una «nostra» ragazza quello che era stato il coinvolgimento emotivo di un giudice. Di un tribunale. Per un attimo pensai che non fosse giusto mostrare delle insicurezze. Che rischiavamo di perdere autorevolezza, perché dovevamo essere noi a rassicurare. Ma i sentimenti di gratitudine che trasparivano dal sorriso di\ Aurora presto fecero scomparire ogni incertezza. Era una situazione mai provata prima. In fondo, ci rafforzavamo a vicenda. L’incontro con la madre andò molto bene. Aurora era sempre più serena e ben inserita nella nuova vita.”
Vale la pena di ricordare che il progetto Liberi di scegliere è stato oggetto di un protocollo sottoscritto dal Ministro dell’Interno, dal Ministro della Giustizia, dal Presidente della Regione Toscana e dai due Tm Calabresi il 1/7/2017; che il Csm ha approvato il 31/10/2017 una delibera dedicata a La tutela dei minori nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata (in cui è dedicata attenzione particolare al progetto reggino); che il 2/2/2018 il Ministro delle Pari Opportunità, il segretario della Cei, il Procuratore della Dna hanno sottoscritto un protocollo teso a creare una rete di accoglienza per le vittime della violenza mafiosa; e da ultimo che è intitolata al progetto l’intesa sottoscritta il 5 novembre 2019 per dare una rete di supporto alle famiglie che decidono di dissociarsi dalla vita criminale[1]. Il bel film Liberi di scegliere, prodotto da Rai fiction e andato in onda nel gennaio 2019, ha contribuito ad una più diffusa conoscenza del progetto
Come non essere d’accordo con Di Bella quando (congresso 7/1/2017 cit.) formulava “l’auspicio, che il legislatore nell’annunciata riforma del settore, non disperda una cultura consolidatasi nel corso dei decenni. Non disperda le professionalità che si sono formate nell’esperienza dei tribunali per i minorenni e mi riferisco non soltanto ai giudici togati, ma agli onorari, agli operatori specializzati. Gli uffici giudiziari minorili sono stati negli anni un presidio strategico sul territorio, un fronte avanzato per governare il disagio delle fasce sociali, spesso nelle carenze strutturali dei servizi socio-sanitari del territorio. Sono il luogo dove il passo della giustizia è calibrato su persone minori, fanciulli, adolescenti, non ancora compiutamente delineati. Sono il luogo dove lo spazio, ma anche il tempo della giustizia giocano un ruolo nella possibilità di coltivare una speranza di riscatto”.
Sono stato felice del fatto che proprio l’assise nazionale che riuniva a Catanzaro i magistrati minorili abbia potuto raccogliere la testimonianza di Roberto e di molti altri magistrati (tra questi quelli negli Uffici di Catania, Catanzaro, Napoli) che, come i colleghi reggini, si trovano ad affrontare le problematiche poste dai minorenni i cui parenti sono coinvolti nella criminalità organizzata. La sessione del congresso dedicata a questo tema ha consentito il confronto tra le metodologie di intervento adattate alle specificità di ogni territorio e, al contempo, ha confermato quanto il rapporto empatico ed emozionale sia ampiamente diffuso nella giurisdizione minorile: con Liberi di scegliere ne abbiamo una rappresentazione di straordinaria efficacia che contribuirà a farlo conoscere al più ampio pubblico.
[1] Firmato “Liberi di scegliere”, l’intesa tra Miur, Giustizia, Pari opportunità, Cei e Libera per dare una rete di supporto alle famiglie che decidono di dissociarsi dalla vita criminale. Garantire pari opportunità ai minori provenienti da contesti familiari mafiosi, fornendo loro un’occasione alternativa alla vita criminale; valorizzare le potenzialità dei minori che attuano questa scelta creando una rete che li accompagni nella nuova realtà sociale.
E ancora, individuare una rete di famiglie, case famiglia e strutture che diano supporto economico, logistico, psicologico e lavorativo alle donne e ad interi nuclei familiari che decidono di dissociarsi, a seguito dei loro figli, dai contesti‘ndranghetisti. Sono questi i punti principali del protocollo d’intesa “Liberi di scegliere” siglato dal ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, con i colleghi della Giustizia, Alfonso Bonafede, e delle Pari Opportunità, Elena Bonetti, il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, il segretario della Cei, monsignor Stefano Russo, e don Luigi Ciotti, presidente di Libera, i capi della procura e della procura per i minorenni di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri e Giuseppina Latella, il presidente del tribunale per i minorenni della stessa città, Roberto Di Bella.
Il Dipartimento della Giustizia Minorile sta dando seguito al protocollo inserendo il progetto nel Pon Legalità 2014-2020: il primo incontro è stato fissato il 19/12/2019.