1. Introduzione
In motivato dissenso con la giurisprudenza di legittimità successiva alla sentenza n. 2990/2018 delle sezioni unite della Corte di cassazione, la Corte di appello di Trento prende posizione in merito alla natura retributiva o risarcitoria degli emolumenti che i lavoratori possono esigere in caso di datore di lavoro inadempiente alla decisione giudiziale che dichiara l’illegittimità di un appalto o di un trasferimento di ramo d’azienda. Il percorso argomentativo del collegio trentino richiama l’attenzione sull’illegittimità della mancata estensione alle controversie di lavoro del meccanismo processuale dell’astreinte di origine francese, introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 614 bis cpc.
2. Quadro giurisprudenziale: Cass., sez. un. civ., n. 2990/2018 e Corte cost., n. 29/2019
Il problema messo in luce dalla sentenza della Corte di appello di Trento, noto da tempo, a cui si limitano queste riflessioni, riguarda il tema dell’enforcement delle sentenze lavoristiche e della tutela dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, esso ha assunto una rilevanza nuova alla luce della sentenza n. 2990/2018 delle sezioni unite della Corte di cassazione e della sentenza n. 29/2019 della Corte costituzionale, sulle cui vicende processuali è necessario soffermarsi.
La decisione delle sezioni unite scaturisce da un caso di appalto illegittimo per interposizione fittizia di manodopera con cui un’impresa aveva esternalizzato determinati servizi. Il giudice di primo grado, riconosciuta l’interposizione, aveva ripristinato in capo al cedente i rapporti di lavoro a tempo indeterminato dei dipendenti esternalizzati. A tale decisione, tuttavia, la società soccombente non aveva dato esecuzione immediata, lasciando quindi i lavoratori in capo all’appaltatrice (da cui avevano percepito le retribuzioni). Ciò aveva spinto i dipendenti a costituire in mora ex art. 1207 cc la società appaltante e a chiedere, contro di essa, decreti ingiuntivi per le retribuzioni maturate nel periodo di inadempimento dalla messa in mora. In secondo grado, nel giudizio di opposizione, la Corte di appello di Roma aveva, però, accolto la tesi della società escludendo la sussistenza di un’obbligazione retributiva in assenza di una prestazione lavorativa e di una esplicita previsione legislativa o contrattuale. L’organo giudicante aveva, perciò, qualificato l’obbligazione come risarcitoria e aveva scorporato dal credito, accogliendo l’eccezione di aliunde perceptum, le somme percepite a titolo di retribuzione dai lavoratori ed erogate dalla società appaltante interposta nel medesimo periodo[1].
Data l’importanza di questa materia ed essendosi ravvisato un contrasto fra sezioni semplici della Corte di cassazione, la questione era stata demandata alle sezioni unite. Queste ultime, nella loro pronuncia, sottolineavano l’inesistenza di tale contrasto giurisprudenziale dal momento che l’orientamento prevalente qualificava il poc’anzi citato credito dei lavoratori come risarcitorio (con scorporo dell’aliunde perceptum)[2]. Ciò nonostante, la Suprema Corte – ritenendo l’onere della prova del danno e l’incoercibilità della cooperazione datoriale eccessivamente penalizzanti per i diritti dei lavoratori e lesivi del principio della necessaria effettività della tutela processuale – modificava la sua precedente giurisprudenza sancendo la sussistenza dell’obbligo di reintegrazione patrimoniale, a titolo di corrispettivo e non a titolo di risarcimento del danno, in capo al datore di lavoro inadempiente all’ordine di ripristino del rapporto[3]. Più precisamente le sezioni unite – operando un’interpretazione “costituzionalmente orientata” degli artt. 1453 ss. cc alla luce degli artt. 3, 36 e 41 Cost. riletti in base alla pronuncia della Corte costituzionale n. 303/2011 – affermavano il principio per cui: «in tema di interposizione di manodopera, ove venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, salvo gli effetti […] del d.lgs. n. 276/2003, a decorrere dalla messa in mora»[4].
Consce dell’impatto della loro decisione, le sezioni unite richiamavano l’applicabilità dell’art. 27, comma 2 D.Lgs. n. 276/2003 che stabilisce che: «tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata». L’estensione di tale articolo era (ed è) finalizzata a consentire di scomputare, dal credito vantato dai lavoratori verso il datore di lavoro reale, le somme già ricevute dai dipendenti da terzi (ex art. 1180, comma 1 cc) o dal datore di lavoro fittizio, con applicazione della disciplina dell’indebito soggettivo prevista dall’art. 2036, comma 3 cc: «Quando la ripetizione non è ammessa, colui che ha pagato subentra nei diritti del creditore».
È singolare come la Corte di cassazione pervenga al medesimo risultato a cui si perverrebbe facendo applicazione dei principi generali in tema di risarcimento e al contempo introduca, in una ipotesi di inadempimento, un principio di deterrenza, che, ad eccezione delle direttive dell’Unione Europea, è estraneo al nostro ordinamento.
La seconda pronuncia fondamentale, che verte su questo tema, è l’interpretativa di rigetto della Corte costituzionale n. 29/2019. Il giudice delle leggi ha atteso per esprimersi la sentenza n. 2990/2018 delle sezioni unite e ne ha sposato la qualificazione in termini di corrispettivo e non di risarcimento dell’obbligo di reintegrazione patrimoniale, tuttavia rimettendo al giudice a quo la valutazione del diritto del lavoratore ceduto, retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente.
È da notare che sul punto la Corte costituzionale, riportando nell’esposizione in fatto le parole della società datrice di lavoro, evidenzia il vero punto focale della lunga ordinanza della Corte di appello di Roma, ossia l’incoercibilità della cooperazione datoriale nell’adempimento delle sentenze di condanna dovuta alla «mancanza di un rimedio equiparabile all’astreinte del diritto francese»[5]. Il punto fondamentale del ragionamento non è infatti la natura risarcitoria o retributiva dei crediti dei lavoratori, ma l’impossibilità, espressamente prevista dall’art. 614 bis cpc, che ha introdotto nel nostro ordinamento il rimedio dell’astreinte, di costringere il datore di lavoro inadempiente all’ordine giudiziale a collaborare, dando esecuzione alla decisione.
Sul punto è stata sicuramente più coraggiosa la Corte di cassazione la quale, volendo garantire la tutela dei diritti dei lavoratori e il principio di necessaria effettività della tutela processuale è arrivata al punto di ribaltare la propria giurisprudenza consolidata stabilendo che i crediti vantati dai lavoratori sono di natura retributiva e non risarcitoria, ciò al fine di operare una coazione psicologica sul datore di lavoro. Questo arresto giurisprudenziale, tuttavia, porta a un risultato molto problematico nel merito, dal momento che non è allineato con i principi dell’ordinamento civile e che, svolto fino alle estreme conseguenze, affermate dalla sezione semplice, porta a una possibile duplicazione di remunerazione della stessa prestazione. Lo scopo perseguito può invece essere realizzato solo attraverso una pronuncia della Corte costituzionale manipolativa della fattispecie dell’art. 614 bis cpc
3. Il mutamento della natura del credito dei lavoratori
Le sezioni unite, confermate dalla Consulta, negano la sussistenza di un «nesso sinallagmatico tra prestazione di lavoro e retribuzione» così stravolgendo la disciplina della responsabilità del creditore in mora e mutando la natura del credito dei lavoratori qualificandolo come retributivo invece che risarcitorio[6].
Una simile interpretazione è strutturalmente incompatibile con l’art. 1207 cc – la cui applicabilità ai rapporti di durata è comunque discussa dato che la mora del creditore potrebbe sussistere solo fintanto che questi non coopera accettando l’adempimento del debitore[7] dal momento che questa norma ha lo scopo di far transitare il rischio dell’impossibilità della prestazione dal debitore al creditore. Quest’ultimo, a norma dell’art. 1207, comma 2 in combinato con l’art. 1453 cc, qualora violi gli obblighi di correttezza e buona fede rifiutando di collaborare per ricevere la prestazione, patisce la normale sanzione per l’inadempimento, dovendo sia il risarcimento il danno eventualmente sofferto dal debitore della prestazione principale, sia l’adempimento[8].
La disciplina tosto descritta è quella che si ritrova in tutti i contratti di durata, a esecuzione continuata o periodica, in cui il rifiuto del creditore di cooperare per l’adempimento del debitore rende impossibile la prestazione solo fintanto che il creditore non muta il suo comportamento. In quel frangente sussiste per il debitore della prestazione principale (lavoro), se il creditore è in mora, il diritto al risarcimento del danno. Più in particolare, nei contratti di durata l’impossibilità di eseguire la prestazione cagionata dal creditore importa per costui l’obbligo di risarcire il lucro cessante. Quanto al contratto di lavoro, il lucro cessante è commisurato al corrispettivo retributivo che il lavoratore avrebbe percepito se avesse potuto svolgere la sua mansione. La retribuzione assume, in questo contesto, un significato duplice fungendo sia da corrispettivo della prestazione lavorativa, sia da parametro per la quantificazione del danno; ciò che cambia è il titolo in base al quale nascono queste due funzioni, da un lato, il contratto di lavoro e, dall’altro, l’inadempimento datoriale.
È interessante notare come le due giurisdizioni superiori motivino queste pronunce facendo riferimento alla necessità di fornire una protezione adeguata al rapporto di lavoro in virtù del suo rilievo costituzionale. Il fine principale delle sentenze, soprattutto di quella delle sezioni unite, è di indurre il datore di lavoro a cooperare nell’esecuzione delle decisioni giudiziarie in ossequio al principio di necessaria effettività della tutela processuale e della piena attuazione dei diritti del lavoratore. La particolarità sta però nell’assenza di una motivazione estensiva della lettura costituzionalmente orientata, da parte delle sezioni unite, delle norme, sostituita da un generico riferimento agli artt. 3, 36 e 41 Cost. Nessuno di questi tre articoli appare però dare immediata evidenza alle tesi delle due corti[9].
Nel sancire il principio di uguaglianza formale e sostanziale, l’art. 3 Cost. prevede anche la possibilità di adottare trattamenti diversi in caso di situazioni disomogenee[10]. Tuttavia, l’ipotesi in cui il lavoratore si trovi a dover fronteggiare il diniego datoriale a adempiere all’ordine ripristinatorio del giudice non differisce da una qualunque situazione contrattuale sinallagmatica in cui il creditore si rifiuti di ottemperare ad una sentenza e il debitore sia in condizione di debolezza nei suoi confronti. Quest’ultima situazione è di per sé comune e si realizza, per esempio, in tutti i contratti di somministrazione di beni intercorrenti fra imprese manifatturiere che lavorano per conto di grandi società e sono da esse economicamente dipendenti.
Il secondo indice chiamato in causa dalle corti è l’art. 36 Cost. il cui fine è quello di garantire al lavoratore una retribuzione proporzionata e sufficiente ad una vita dignitosa per sé e la sua famiglia. Questo articolo rileva unicamente ai fini dell’individuazione del titolo con cui viene qualificata la cessione patrimoniale proveniente dal datore di lavoro e diretta al lavoratore e commisurata alle retribuzioni contrattuali. Stabilito il titolo, non è chiaro come vi possa essere una lesione del principio di retribuzione proporzionata e sufficiente nell’ipotesi in cui esso sia risarcitorio e quindi soggetto a scorporo delle retribuzioni percepite da terzi o dall’interposto nel periodo in cui il datore di lavoro era in mora credendi. Infatti, la somma percepibile dal lavoratore non potrebbe comunque essere inferiore a ciò che questi avrebbe ricevuto se il datore di lavoro avesse dato esecuzione immediata all’ordine di reintegrazione del giudice. Il solo ed unico vero problema potrebbe essere quello dell’incapienza del patrimonio datoriale rispetto al debito da soddisfare, profilo questo che attiene all’esecuzione forzata ed è indipendente dal titolo dell’obbligazione[11].
La terza norma a cui fanno riferimento le sezioni unite è l’art. 41, comma 2 Cost. in cui il legislatore costituzionale ha sancito che l’iniziativa economica «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Sebbene si tratti di una norma cardine dell’ordinamento economico e sociale, la sua rilevanza nel contesto della controversia appare quantomeno dubbia. La violazione di questo principio si verifica ogni qual volta il datore di lavoro rifiuti di adempiere a un qualunque ordine giudiziale e più in generale in tutte quelle situazioni contrattuali in cui vi sia un forte disequilibrio economico.
La debolezza del ragionamento delle sezioni unite riguarda anche il loro appoggiarsi alla sentenza della Corte costituzionale n. 303/2011. Questa pronuncia aveva stabilito che l’art. 32, commi 5, 6 e 7 della legge n. 183/2010, che aveva introdotto la forfettizzazione del danno risarcibile al lavoratore in caso di nullità del contratto a termine, fosse legittimo se interpretato nel senso che l’indennità forfettizzata copriva soltanto il periodo intermedio fra la scadenza del termine e la sentenza che dichiarava la nullità del contratto a tempo determinato e lo convertiva. La Consulta nel 2011 aveva però preso in considerazione unicamente gli obblighi di risarcimento del danno da inadempimento, senza mai pronunciarsi sul titolo del credito. Come rilevato dalla Corte di appello di Trento: «Non vi è alcun passaggio in questa sentenza che consenta di affermare che la Corte abbia voluto andare oltre la qualificazione del titolo contenuta nell’art. 32 co. 5 L n. 183/2010 (“Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore…), ribadita anche dalle norme successive dirette a disciplinare le conseguenze della conversione del contratto a termine nullo (art. 1 comma 13 L. 92/2012, art. 28 d.lgs. 81/2015)».
La sentenza n. 2990/2018 delle sezioni unite e la sentenza n. 29/2019 della Corte costituzionale, che l’ha avallata, contrastano poi espressamente con la sentenza della Corte costituzionale n. 86/2018. Questa pronuncia aveva affrontato in modo analitico la questione del titolo dell’indennità dovuta al dipendente dal datore di lavoro inadempiente agli obblighi derivanti dalla sentenza ripristinatoria del rapporto di lavoro affermandone la natura chiaramente risarcitoria. In particolare, il giudice delle leggi aveva sottolineato come non fosse coerente con l’ordinamento sostenere la natura retributiva dell’indennità dovuta al lavoratore da parte del datore di lavoro inadempiente all’ordine di reintegra del giudice; tale condotta era infatti da considerarsi un inadempimento che cagiona danno al lavoratore e come tale risarcibile, sottostando ai principi che reggono tale rimedio.
4. L’art. 614 bis del codice di procedura civile
Il secondo principale punto critico concerne la mancata estensione del rimedio dell’astreinte previsto all’art. 614 bis cpc alle controversie di lavoro.
Gli indici costituzionali richiamati nel paragrafo che precede non sono idonei a giustificare la decisione delle sezioni unite, ma consentono, invece, di suffragare la tesi dell’illegittimità parziale dell’art. 614 bis cpc. Questo articolo è infatti in contrasto con l’art. 3 Cost. che vieta ogni disparità di trattamento ingiustificata e irragionevole. L’art. 614 bis cpc è infatti stato introdotto nell’ordinamento italiano dalla legge n. 69/2009 come misura di coercizione indiretta al fine di incentivare l’adempimento spontaneo degli obblighi di fare o non fare che non risultano facilmente coercibili. La norma prevede che il giudice, previa richiesta della parte, unitamente al provvedimento di condanna, ordini al soggetto inadempiente di pagare una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, al fine di indurre l’obbligato a adempiere spontaneamente al provvedimento. Sino a qui la norma è nella sostanza identica a quella prevista dagli artt. L131-1 – L131-4 del Code des procédures civiles d’exécution francese da cui è stata importata. Il diritto italiano però esclude l’applicazione dell’art. 614 bis cpc alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409 cpc. Questa scelta, sebbene in linea con una certa interpretazione del diritto del lavoro, non è però coerente con il principio di uguaglianza e con il principio di necessaria effettività della tutela processuale. Entrambi questi principi trovano esplicito fondamento nella Costituzione (artt. 3, 24, 103, 113 Cost.), nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (art. 6 Cedu) e nel diritto dell’Unione Europea (artt. 20-26 e 47 Carta di Nizza, artt. 9 e 19 Tue e art. 263 Tfue)[12].
La disparità di trattamento si realizza quando, in una situazione contrattuale sinallagmatica di diritto civile caratterizzata da squilibrio economico in cui il creditore si rifiuti di ottemperare ad un ordine giudiziale di condanna, il debitore potrà ottenere l’applicazione dell’astreinte al fine di costringere il creditore a adempiere, mentre nella medesima ipotesi, ma nel quadro di una controversia di lavoro, questo rimedio sarà del tutto escluso. D’altronde sia la Corte di cassazione, sia la Consulta sono perfettamente consce di questo squilibrio, come si evince dalle loro pronunce n. 2990/2018 e n. 29/2019, ma scelgono di non risolverlo in modo lineare e definitivo, bensì di adottare un “barocchismo” giuridico che contrasta con i principi dell’ordinamento civile.
Sul punto si deve aggiungere che la sentenza n. 29/2019 del giudice delle leggi richiama implicitamente, riportando le difese della società datrice di lavoro, la questione dell’estensione dell’ambito di applicazione della disciplina del 614 bis cpc; Telecom afferma infatti che: «Il rimettente lamenterebbe la mancanza di un rimedio equiparabile all’astreinte del diritto francese e demanderebbe al giudice delle leggi il compito di colmare questa lacuna, compito che, tuttavia, travalicherebbe i limiti del sindacato di costituzionalità»[13]. Con queste poche righe la società datrice di lavoro è capace di riassumere in modo lapidario il contenuto dell’ordinanza della Corte di appello di Roma. Sulla questione, tuttavia, la Consulta preferisce non esprimersi anziché porsi il problema di sollevare innanzi a sé la questione incidentale di legittimità della norma.
Sulla sua competenza e sul potere di decidere basti ricordare che a partire dall’ordinanza n. 354/1983 la Corte costituzionale si è espressamente riconosciuta la qualità di giudice a quo, mentre nella sentenza n. 122/1976 ha affermato di poter sollevare una questione davanti a sé in via incidentale «allorché […] dubiti della incostituzionalità di una norma, diversa da quella impugnata, ma che essa è chiamata necessariamente ad applicare nell'iter logico per arrivare alla decisione sulla questione che le è stata proposta»[14]. Con ordinanza n. 230/1975 il giudice delle leggi è arrivato addirittura a ritenere che qualora una questione di legittimità costituzionale abbia ad oggetto una norma non denunciata dal rimettente, ma rilevante ai fini della decisione del quesito proposto e non manifestamente infondata, ricorrono gli estremi perché la Corte attivi innanzi a sé l’incidente di costituzionalità ai sensi dell’art. 23 della legge n. 87/1953[15]. A queste prime pronunce, la Corte costituzionale ne ha fatte seguire altre dimostrando che può, se lo ritiene necessario, sollevare innanzi a sé un incidente processuale per stabilire la legittimità di una norma.
Alla luce di queste pronunce si evince come la Consulta avrebbe potuto deliberare, già nel quadro della sentenza n. 29/2019, in merito all’illegittimità dell’art. 614 bis cpc perché, benché tale norma non fosse stata denunciata dal giudice a quo, essa era necessaria ai fini della risoluzione ordinata e coerente del giudizio di legittimità costituzionale. Una pronuncia di illegittimità parziale dell’art. 614 bis cpc avrebbe infatti permesso di risolvere in senso risarcitorio la questione del titolo dei crediti dei dipendenti oggetto del giudizio principale. Far divenire l’astreinte strumento del processo del lavoro avrebbe fatto cadere i due presupposti – tutela dei diritti dei lavoratori e del principio di necessaria effettività processuale – posti a fondamento dell’interpretazione retributiva dei crediti dei lavoratori, quindi riallineando la giurisprudenza ai principi generali di diritto civile.
Sul punto, invece la Consulta decide, operando una valutazione di policy giuridica, come diceva Zagrebelsky[16], di sposare la tesi della Suprema Corte che presuppone una «torsione della funzione del risarcimento verso una logica stricto sensu punitiva, rimasta estranea – almeno sino ad un eventuale intervento del legislatore – all’ordinamento nazionale, giusto l’insegnamento delle sezioni unite n. 16601/2017»[17].
Quello che accade con questa pronuncia non è un bilanciamento fra principi fondamentali, ma un vero e proprio sbilanciamento che porta a soluzioni non lineari e altamente problematiche che si sarebbero, per altro, potute evitare.
Forse è giunto il momento che qualche difensore nelle cause di lavoro chieda l’applicazione dell’art. 614 bis cpc in modo da aprire la via diretta alla eccezione di incostituzionalità.
[1] Cass., sez. un. civ., n. 2990/2018.
[2] Sul carattere risarcitorio vds. Cass., sez. lav., n. 25933/2016; n. 4943/2003; n. 16037/2004; n. 26627/2006; mentre in tema di detraibilità dell’aliunde perceptum vds. Cass., sez. lav., n. 10772/2016; n. 10773/2016; n. 10774/2016; n. 17186/2015; n. 8514/2015; n. 20462/2014.
[3] Cass., sez. un. civ., n. 2990/2018, par. 13–15, in particolare vds. la parte in cui le sezioni unite affermano che: «nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell’interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull’effettivo datore di lavoro l’obbligo retributivo», ciò perché «dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pronuncia giudiziale, discendono, infatti, gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed, in particolare, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare la retribuzione […]» e perché «[…]nelle ipotesi in cui i lavoratori, dopo aver richiesto l’accertamento giudiziale della invalidità del contratto in violazione delle norme imperative in tema di divieto di interposizione di manodopera in un appalto di servizi, abbiano ottenuto l’ordine giudiziale di ripristino del rapporto nei confronti della reale datore di lavoro […] offrano a quest’ultima le loro prestazioni, senza essere stati riammessi in servizio, deve evitarsi […] che subiscano le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all’esecuzione dell’ordine giudiziale».
[4] Cass., sez. un. civ., n. 2990/2018, par. 17.
[5] Corsivo aggiunto; Corte cost., n. 29/2019, par. 2.
[6] Cass., sez. un. civ., n. 2990/2018, par. 15.
[7] G. Cottino, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore. Problemi generali, Giuffrè, Milano, 1955, p. 215; G. Ghezzi, La mora del creditore nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 1965, p. 219.
[8] V. Speziale, La mora del creditore nelle interpretazioni dei giuslavoristi, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 4, 144, 2014, p. 693 ss., https://doi.org/10.3280/GDL2014-144007; V. Speziale, La mora del creditore nel rapporto di lavoro di Giorgio Ghezzi, in Lavoro e Diritto, n. 3, 30, 2016, p. 521 ss., https://doi.org/10.1441/83903.
[9] Cass., sez. un. civ., n. 2990/2018, par. 15.
[10] A. Giorgis, Art. 3, 2° comma, Cost., in Commentario alla Costituzione, R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti (a cura di), UTET, Torino, 2006, p. 88 ss.
[11] M. Aimo, Garanzie dei crediti e insolvenza del datore di lavoro, in Diritto Comunitario del Lavoro, UTET, Torino, 2010, p. 745 ss.; F. M. Putaturo Donati, Fondo di garanzia tra fine sociale e vincoli di sistema, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, n. 3, 2020, p. 539 ss., https://doi.org/10.3241/98432.
[12] M. Biasi, L’esclusione lavoristica dalla misura coercitiva indiretta ex art. 614-bis c.p.c.: un opportuno ripensamento, in Lavoro Diritti Europa, n. 2, 2020, p. 2 ss., https://www.lavorodirittieuropa.it/images/marco_biasi_614bis_MB_LDE_1.pdf.
[13] Corsivo aggiunto; Corte cost., n. 29/2019, par. 2.
[14] Corte cost., n. 122/1976.
[15] Corte cost., n. 230/1975.
[16] Gustavo Zagrebelsky, Politica alla Corte costituzionale?, in Principi e voti: la corte cost. e la politica, Einaudi Torino, 2005.
[17] Corsivo nell’originale; M. Biasi, L’esclusione lavoristica dalla misura coercitiva indiretta ex art. 614-bis c.p.c.: un opportuno ripensamento, in Lavoro Diritti Europa, n. 2, 2020, p. 12 ss., https://www.lavorodirittieuropa.it/images/marco_biasi_614bis_MB_LDE_1.pdf.