Magistratura democratica
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Ergastolo ostativo, carcere duro e dintorni

di Giovanni Fiandaca
emerito di diritto penale, Università di Palermo

Il 24 marzo 2021 la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 58-ter dell’ ordinamento penitenziario nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale. Sotto la formula tecnica si nasconde la questione della legittimità dell’ergastolo ostativo. Pubblichiamo, in proposito, la riflessione di Giovanni Fiandaca. Non si tratta soltanto della recensione a E. Dolcini, F. Fiorentin, D. Galliani, R. Magi, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, Giappichelli, Torino, 2020. Il commento al volume diventa occasione per una meditazione a tutto tondo sulla pena perpetua e sul regime differenziato del 41-bis. 

1. Nel libro-inchiesta sulla colonia penale di Sachalin, che Anton Cechov scrisse dopo aver compiuto un apposito viaggio conoscitivo dall’aprile al maggio 1890, leggiamo: «(…) l’assenza di termine della condanna e la consapevolezza che ogni speranza in un futuro migliore è vana, che nel condannato il cittadino è morto per sempre e che non esiste sforzo che possa riportarlo in vita, inducono a concludere che la pena capitale, sia in Europa che da noi, non è stata abolita, bensì camuffata sotto altre vesti, meno scandalose per la sensibilità umana»; e ancora: «Sono profondamente convinto che tra cinquanta o cent’anni si guarderà al carattere perpetuo delle nostre pene con la stessa perplessità e lo stesso imbarazzo che oggi destano in noi lo strappare le narici o il tagliare un dito della mano sinistra. Ma sono altrettanto convinto che, per quanto consapevoli del fatto che l’ergastolo sia un provvedimento retrogrado e insensato, non disponiamo ancora delle forze necessarie per porre rimedio a una simile disgrazia. Per sostituirlo con un provvedimento più razionale e rispondente al senso di giustizia ci mancano sia le competenze che l’esperienza, e forse anche il coraggio; ogni tentativo incerto e unilaterale in questa direzione condurrebbe inevitabilmente a gravi errori – tale è infatti il destino di tutte le iniziative prive delle qualità di cui sopra»[1].

Confido di poter essere scusato per questa lunga citazione utilizzata come premessa introduttiva al libro oggetto di recensione. Ritengo, infatti, che sarebbe difficile rinvenire parole più adeguate di queste di Cechov sopra riportate per sintetizzare, con altrettanta efficacia, buona parte delle ragioni di fondo che – non certo, appunto, da ora – pongono in dubbio la legittimità dell’ergastolo (in sé, prima ancora dell’ergastolo cosiddetto ostativo) e, più in generale, della detenzione di lunghissima durata specie se inasprita da regimi penitenziari di accentuato rigore. A ben vedere, il grande scrittore russo anticipava in nuce punti nevralgici destinati a condizionare la successiva evoluzione dello stesso approccio costituzionale  – sul  versante sia normativo che dottrinale/giurisprudenziale – alla materia: mi riferisco, com’è intuibile, al possibile contrasto delle pene detentive perpetue col senso di umanità e alla contraddizione comunque esistente  tra la carcerazione molto protratta nel tempo e l’esigenza avvertita da ogni essere umano di poter vivere un futuro migliore (esigenza che sarebbe poi sfociata, specie ad opera delle Corti, nella elaborazione di un  “diritto alla speranza” quale diritto irrimediabilmente violato da una reclusione indefinita).

Ancora, Cechov ben evidenziava peraltro la grande difficoltà oggettiva, l’ostacolo a prima vista insormontabile che mette a tutt’oggi in fortissimo imbarazzo al momento di rispondere all’interrogativo, inevitabilmente incombente, circa la possibilità di disporre di strumenti alternativi per fronteggiare le ricorrenti minacce alla sicurezza derivanti dalle più gravi forme di criminalità individuale e collettiva. Quanti in linea di principio auspichiamo anche nel nostro paese l’abolizione dell’ergastolo, e altresì una tendenziale riduzione e mitigazione delle pene detentive, siamo già in grado di escogitare tecniche sanzionatorie di tipo nuovo potenzialmente efficaci al punto da rassicurare la pubblica opinione?

Non è certo un caso che temi come l’ergastolo ostativo o il regime del 41-bis continuino a risultare da noi assai divisivi, come è comprovato dalle nette contrapposizioni e dalle vivaci polemiche che sono solite esplodere anche in occasione di pronunce della Corte Edu e/o della nostra Corte costituzionale che hanno come effetto di ridurre progressivamente gli spazi di legittimità delle più rigorose discipline detentive riservate ai soggetti appartenenti alla criminalità organizzata. Ma si tratta di contrapposizioni o contrasti di vedute che trascendono l’arena politica e la sfera del dibattito pubblico generale, perché – ed è questo un punto che tengo a sottolineare – si manifestano in verità pure all’interno del mondo dei giuristi, che risulta di conseguenza anche in proposito tutt’altro che omogeneo negli orientamenti di fondo. Più in particolare, mentre tra gli studiosi di matrice accademica tende ormai a prevalere un atteggiamento favorevole al superamento, grazie a una più compiuta affermazione dei generali principi costituzionali e convenzionali in tema di pena, dello speciale rigorismo punitivo legislativamente concepito per il settore del crimine organizzato, un quadro più conflittuale e articolato di posizioni si registra nell’ambito della magistratura penale anche in funzione dello specifico ruolo professionale rivestito: se maggiore sintonia culturale con la dottrina accademica la manifestano i magistrati giudicanti, e in particolare i giudici di sorveglianza, reazioni di segno opposto si registrano invece nel fronte maggioritario della magistratura d’accusa, e in particolare di quella antimafia. I magistrati più impegnati nel contrasto giudiziario delle mafie tendono ancor oggi, infatti, a privilegiare l’obiettivo politico-criminale dell’efficacia preventivo-repressiva, mentre mostrano minore sensibilità verso le ragioni di principio e valoriali sottostanti al costituzionalismo garantista nazionale ed europeo[2]. Nella mia personale ottica di studioso (e, altresì, nel mio contingente ruolo aggiuntivo di garante regionale dei diritti dei detenuti), sarebbe in realtà molto auspicabile che rispetto al modo di concepire i principi di fondo della giustizia penale e della penalità si riuscisse – una buona volta – anche nel contesto italiano a raggiungere una maggiore convergenza di vedute tra i diversi attori della scena giuridica. L’affermazione del diritto è infatti, e non può non essere, una impresa collettiva, nel cui ambito nessun protagonista può pretendere in via pregiudiziale di vantare titoli di legittimazione, di tipo culturale o tecnico, tali da imporre unilateralmente la prevalenza delle proprie concezioni rispetto a quelle degli altri protagonisti. E a questo obiettivo di maggiore omogeneità di culture giurisdizionali dovrebbe contribuire, oltre a un più frequente e ravvicinato confronto con i giuristi universitari, la formazione professionale impartita dalla Scuola della magistratura, anche dedicando sempre maggiore attenzione alle questioni di fondo relative al senso e agli scopi del punire nella cornice complessiva di un diritto penale costituzionalmente orientato[3].

 

2. Il libro di cui qui discutiamo costituisce il seguito ideale di un percorso di riflessione sempre a più mani che ha preso avvio con un precedente volume dedicato all’ergastolo nell’ambito del diritto penale costituzionale[4]. Anche questa volta, il testo presenta una struttura articolata in una prima parte di riflessioni e in una seconda parte di documentazione, mentre risultano parzialmente cambiati gli autori grazie ad una maggiore presenza di magistrati. Questa compresenza di giuristi teorici e pratici bene rispecchia l’intento teorico-pratico che ispira tanto il primo quanto questo secondo volume, nella cui introduzione non a caso si premette: «Siamo convinti che ogni giurista persegua sempre uno scopo pratico, essendo pratico il sapere del quale si occupa, il diritto. Inoltre (…), rimane la scelta di base: giuristi sono i professori universitari in materie giuridiche e i magistrati, nel nostro caso, nella veste di commentatori». Anche se il discorso necessiterebbe di qualche approfondimento (che non mi è consentito in questa sede), sulla orientazione pur sempre pragmatica dell’attività del giurista anche professore tenderei in linea di massima a concordare. Comunque sia, certo è che nell’affrontare le problematiche connesse all’ergastolo ostativo e al regime penitenziario del 41-bis Dolcini, Fiorentin, Galliani, Magi e Pugiotto sono ben lungi dal dedicarsi a neutrali esercitazioni accademiche in puro stile tecnico-giuridico: lo scopo consapevolmente perseguito è al contrario di segno – per così dire – costituzionalmente militante, nel senso che ciascuno dei predetti autori contribuisce per parte sua a sviluppare analisi e commenti accomunati dal proposito di arricchire e affinare i principi del costituzionalismo penale, appunto in vista di una sempre più ampia garanzia del “diritto alla speranza” anche delle persone che sono state condannate per aver commesso delitti di particolare gravità.  

La prima parte del volume si apre – aggiungerei, molto opportunamente – con un contributo di Emilio Dolcini intitolato Pena e Costituzione, che sintetizza con chiarezza ed efficacia il quadro dei principi di fondo che concorrono a delineare il volto costituzionale della sanzione penale nel nostro ordinamento (inviolabilità della libertà personale, eguaglianza, legalità, umanità e rieducazione), letti anche alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza delle Corti. Com’è intuibile, in particolare assume un rilievo determinante l’interazione tra il principio rieducativo e il principio di umanità della pena, entrambi enunciati nel terzo comma dell’art. 27 Cost. (mentre nella Cedu è riconosciuto all’art. 3 il solo principio di umanità quale fondamento del divieto di trattamenti inumani e degradanti, e la finalità rieducativa è invece fatta oggetto di crescente valorizzazione ad opera della Corte di Strasburgo). Ben rileva Dolcini, anche nella scia ad esempio di Corte cost. n. 12/1966: «Condizione necessaria perché l’offerta di rieducazione possa essere accolta è che la pena sia conforme al senso di umanità: non superi cioè un grado di afflittività accettabile alla luce del comune modo di sentire, nell’attuale momento storico». E ancora, scrive bene l’autore: «Quanto all’obiettivo finale, (…) la pena, nel nostro ordinamento, non può aspirare a rimodellare globalmente la personalità del condannato». «Quanto al metodo, l’imperativo della rieducazione deve tradursi in un’offerta rivolta al condannato, il quale potrà accoglierla o rifiutarla. Lo Stato non può imporre al reo alcun trattamento rieducativo, né l’autore del reato è tenuto a sottostarvi». Sottoscrivo in pieno, avendo io peraltro scritto più o meno le stesse cose in un lungo commento all’art. 27, comma 3, Cost. pubblicato un trentennio fa[5].  

Come l’attento lettore potrà intuire, dalle suddette affermazioni di principio derivano già possibili implicazioni rispetto ai controversi temi non solo dell’ergastolo ostativo e del regime penitenziario differenziato, ma – prima ancora – anche dell’ergastolo tout court. Fino a che punto si tratta di istituti e di corrispondenti discipline legislative davvero compatibili col duplice principio di umanità e di rieducazione? Nell’affrontare un simile interrogativo, è comunque appropriato un atteggiamento mentale che, lungi dal pretendere di affermare con apriorismo ideologico presunte verità inoppugnabili, sia disposto a ponderare con attenzione ed equilibrio un insieme di esigenze tutte costituzionalmente rilevanti. Nella consapevolezza che gli stessi principi costituzionali di riferimento, tanto più se formulati in termini assai generici o vaghi, ammettono più di una opzione interpretativa e, nel contempo, vanno concretizzati tenendo anche conto del tipo di sensibilità collettiva che connota le differenti fasi storiche (come ad esempio è particolarmente evidente riguardo al principio, in questo senso emblematico, di umanità o umanizzazione delle pene).

Dal canto suo, Dolcini non omette di ribadire la tesi – da lui più volte sostenuta – di un insanabile contrasto tra il carattere perpetuo dell’ergastolo (pur attenuato per effetto dei temperamenti via via apportati con i diversi interventi legislativi in materia) e il principio di rieducazione, se per rieducazione deve intendersi – in conformità all’orientamento dominante – una offerta di aiuto al condannato che punta all’obiettivo di  fargli acquisire la capacità di tornare a vivere nella società rispettandone le regole legali: infatti, «l’ergastolo tende non a reinserire il condannato nella società, bensì ad escluderlo per sempre; tende a produrre la morte civile del condannato». In linea di rigoroso principio, si tratta di una conclusione ineccepibile. Ed è per questo che la tesi contraria della compatibilità, notoriamente affermata dalla Corte costituzionale, ha anche finito con l’essere etichettata come «ossimorica», ipocrita, paradossale: in quanto basata sull’assunto contraddittorio di un ergastolo al contempo illegittimo nella sua proclamazione astratta, e legittimo nella sua esecuzione concreta![6].

Più problematico è valutare la compatibilità tra la pena perpetua tout court e il principio di umanità. Se tale principio lo si concepisce in una accezione empirico-sociologica, come tale riferita al modo effettivo di sentire dei cittadini in un determinato momento storico, non si può allora trascurare il fatto che sondaggi effettuati ancora di recente confermano che la stragrande maggioranza della popolazione italiana (circa l’80 % degli intervistati) è a favore del mantenimento della reclusione a vita[7]. Ad una diversa conclusione si può invece pervenire se il senso del principio di umanità lo si coglie in una dimensione integrata da componenti normativo-assiologiche di matrice costituzionale trascendenti il concreto e contingente modo d’atteggiarsi del sentimento collettivo e intese, anzi, come volte a promuovere una evoluzione della sensibilità sociale rispetto al fenomeno del punire.  Così, non si è mancato di sostenere che l’ergastolo è in ogni caso lesivo del valore della dignità umana, perché – nella scia di una celebre obiezione kantiana – strumentalizza il singolo per scopi di utilità generale in chiave di prevenzione dei reati[8]; o che esso è inumano, in quanto contrasta altresì con i principi costituzionali di eguaglianza e proporzione (ad esempio la condanna all’ergastolo di un sessantenne non può essere equiparata a quella di un ventenne, e un premeditato omicidio aggravato viene sanzionato allo stesso modo di dieci omicidi)[9].

Si tratta di riserve critiche decisive? Certo è che fare esclusivo appello a interpretazioni del principio di umanità delle pene arricchite dal collegamento sistematico con altri principi di fondo della Costituzione, di per sé, non può bastare a convincere i decisori politici della bontà od opportunità di una scelta abolizionistica dell’ergastolo: piaccia o non piaccia, sul versante delle decisioni politiche conta assai di più il livello di evoluzione di fatto raggiunto dalla sensibilità collettiva, essendo irrealistico attendersi che dal circuito della rappresentanza democratica possano essere approvate riforme prive di consenso sociale diffuso.

 

3. Com’è comprensibile, la parte prevalente del libro di cui discutiamo è dedicata al tema più specifico e di recente venuto alla ribalta dell’ergastolo ostativo, che per certi aspetti ha riproposto in forma senz’altro aggravata i principali nodi problematici dell’ergastolo considerato più in generale. Più precisamente, il tema viene ripetutamente trattato in forma di commento alle ormai note decisioni della Corte Edu e della nostra Corte costituzionale: si tratta, più in particolare, di scritti incentrati sull’analisi rispettiva della sentenza europea Viola del giugno 2019 e della successiva sentenza costituzionale italiana n. 253/2019, viste nel loro rapporto di connessione ed esaminate anche alla stregua dei precedenti giurisprudenziali da cui esse prendono le mosse.  

Non potendo essere compito di un recensore procedere ad una illustrazione dettagliata del contenuto di ogni singolo contributo, mi limito a rilevare che i vari commentatori (Fiorentin, ancora una volta Dolcini, Galliani, Magi e Pugiotto) mostrano di condividere – come si desume sin dalla loro comune nota introduttiva al libro – la portata dirompente del riconoscimento giurisdizionale di quella esigenza profondamente umana, che una reclusione a vita priva di vie di uscita ragionevolmente accessibili invece inaccettabilmente rinnega: cioè quell’aspettativa esistenziale che – come abbiamo anticipato all’inizio – Cechov aveva definito  «la speranza in un futuro migliore», e che nel tempo presente la giurisprudenza sia europea che nazionale è meritoriamente giunta a elevare a oggetto di un diritto, appunto il diritto alla speranza. Ed è di notevole rilievo, culturale e simbolico, che questa prospettiva di apertura verso praticabili possibilità  di ritorno ad una vita futura in libertà (a prescindere dalla disponibilità alla collaborazione giudiziaria) abbia persino trovato ingresso nell’orizzonte mentale e nel vocabolario della stessa Corte di Cassazione, come emerge dalla ormai nota ordinanza del 3 giugno 2020 con la quale la prima Sezione ha sollevato l’eccezione di costituzionalità contro la preclusione legislativa dell’accesso alla liberazione condizionale da parte dei mafiosi condannati all’ergastolo non collaboranti con la giustizia – e ciò proprio sviluppando con coerenza premesse argomentative già contenute nelle due sopra menzionate pronunce della Corte di Strasburgo e della Consulta. Nella motivazione di tale ordinanza (riportata anch’essa nella parte documentale del libro qui recensito), leggiamo infatti: «L’esistenza (…) di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la rieducazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza». E, in modo conseguenziale, la catena argomentativa dei giudici di legittimità prosegue con la citazione di passi della sentenza Vinter c. Regno Unito del 2013, nella quale la Corte Edu ha sostenuto che la speranza inerisce strettamente alla persona umana e una aspettativa di migliore vita futura deve essere riconosciuta anche agli individui responsabili dei crimini più odiosi.

Dal canto mio, ho avuto occasione di prendere in esame soprattutto la sentenza costituzionale n. 253/2019 in tema di ergastolo ostativo e permessi-premio, nel contesto di una più generale riflessione sulla tematica del bilanciamento costituzionale in materia penale[10]. La possibile significatività di tale sentenza anche in una ottica più ampia è facilmente intuibile, essendo in questo caso il giudizio di ponderazione tra la tutela della sicurezza collettiva e il diritto alla rieducazione di ogni condannato non soltanto molto impegnativo in sé, ma reso ancora più complesso e delicato dalla persistenza nel nostro paese di orientamenti non poco divergenti – persino all’interno della  stessa magistratura penale, in funzione del ruolo professionale rivestito – circa il modo di contemperare, sullo specifico versante dei reati di mafia, le esigenze costituzionali in conflitto. Ora, se appare indubbia la consonanza assiologica che nella sostanza accomuna la pronuncia in questione alla precedente sentenza Viola c. Italia, al di là delle differenze relative agli specifici moduli argomentativi rispettivamente adottati dalle due Corti, rispetto più in particolare alla logica del bilanciamento rileverei questo: i nostri giudici costituzionali non solo non hanno sottovalutato il peso del bene-sicurezza, ma hanno altresì continuato a  stimarlo come interesse di importanza comunque prevalente; e ciò sino al punto di additare essi stessi, alla magistratura di sorveglianza, una procedura di verifica in concreto della mancanza di pericolosità attuale degli ergastolani mafiosi non collaboranti con la giustizia richiedenti un permesso-premio così rigorosa e impegnativa, da rasentare una vera e propria probatio diabolica. Cioè, alludo alla parte additiva della sentenza n. 253 nella quale la Corte costituzionale pretende che i giudici di sorveglianza, oltre ad acquisire la prova della piena partecipazione al processo rieducativo e di elementi concreti per escludere l’attualità dell’appartenenza al contesto associativo, si spingano altresì sino ad escludere il pericolo di un futuro ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata. E’ evidente che esigere una ragionevole certezza nell’accertare il terzo presupposto, vale a dire l’assenza del rischio di una ripresa di collegamenti, è assai poco realistico. Come in proposito assai bene si rileva nello scritto a quattro mani di Davide Galliani e Raffaello Magi, non solo rimane poco chiara «quale sia la dimensione effettuale e concreta di simile peripezia probatoria», ma la Consulta sembra anche indossare le “vesti del legislatore” come a voler anticipare le linee ispiratrici di futuri interventi legislativi volti a introdurre una nuova disciplina normativa al posto di quella dichiarata illegittima.

In ogni caso, è pur vero che accertare giudizialmente una cessata o diminuita pericolosità degli autori di reati di mafia, e l’autenticità di una loro partecipazione a credibili percorsi rieducativi, rimane un compito oggettivamente difficile. Non ultimo perché – come è anche emerso nel contesto delle polemiche politico-mediatiche e dei contrasti tra magistratura di sorveglianza e procure antimafia scoppiati in occasione  delle presunte scarcerazioni facili di boss mafiosi a causa del rischio-contagio da covid 19 nelle carceri – le fonti conoscitive a disposizione dei magistrati tenuti a pronunciarsi sulla pericolosità attuale dei detenuti mafiosi sono non di rado poco affidabili perché di natura prevalentemente cartacea (si tratta spesso di copie di sentenze e di altri atti giudiziari) e, per di più, prive di riscontri empirici desumibili da aggiornate indagini di polizia sui contesti criminali di riferimento[11].   

 Inoltre, residua un ulteriore problema che trascende il piano probatorio, ed ha un carattere più contenutistico e di fondo. In termini espliciti, si tratta di questo: cosa dobbiamo intendere per “rieducazione” dei condannati per reati di mafia, posto che quest’ultima non potrebbe venire semplicemente desunta da una eventuale sopravvenuta mancanza di pericolosità sociale attuale? La Corte costituzionale, dal canto suo, non ha toccato esplicitamente nella motivazione della sentenza n. 253 questo punto problematico, pur assumendo esso invece espresso rilievo nei provvedimenti dei giudici dell’esecuzione penale chiamati a verificare un avvenuto ravvedimento. Emblematico da questo punto di vista, ad esempio, il caso del diniego della detenzione domiciliare al noto boss pluriomicida per di più “pentito” Giovanni Brusca (condannato invero non all’ergastolo, ma a una lunga pena detentiva – ormai vicina alla scadenza – grazie ai benefici della collaborazione): mentre nell’ottica dei magistrati d’accusa la collaborazione giudiziaria è stata considerata un affidabile indice diagnostico di ravvedimento, idoneo a giustificare un parere positivo ai fini della concedibilità della sanzione extradetentiva, nella differente prospettiva del tribunale di sorveglianza di Roma la rieducazione di un efferato boss mafioso richiederebbe requisiti aggiuntivi comprovanti un mutamento profondo della personalità, una sorta di “pentimento civile” inclusivo di momenti di riparazione-riconciliazione anche simboliche nei confronti delle vittime. Orbene, un concetto di rieducazione così denso di venature anche eticheggianti in una dimensione al tempo stesso retributivo-riparativa, si mantiene nel solco di una concezione costituzionalmente orientata della rieducazione (da intendersi, secondo l’opinione fin qui dominante tra noi studiosi di diritto penale, nei termini sobri di una acquisita capacità di vivere all’esterno nel rispetto della legalità esteriore) o la trascende indebitamente?[12].

Per quanto i profili problematici direttamente o indirettamente sottesi al concetto di rieducazione – quale concetto indeterminato ai confini tra il diritto e le scienze sociali,  come tale inevitabilmente condizionato nelle sue possibili valenze da pregiudiziali di varia matrice (filosofica, etica, antropologica, pedagogica, giuridico costituzionale ecc.) lo rendano tutt’altro che facilmente definibile e specificabile[13], forse non sarebbe inopportuno che qualche parola in più la dicesse anche la Cote costituzionale nei suoi interventi futuri.

 

4. Il volume qui recensito dedica anche spazio al controverso istituto di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, fatto oggetto di due commenti rispettivi di Raffaello Magi e Davide Galliani, i quali affrontano la problematica del cosiddetto carcere duro sotto il peculiare profilo della sua compatibilità con la tutela del diritto alla salute, nei casi in cui la persona sottoposta al regime differenziato sia affetta da gravi patologie che ne compromettono anche la capacità cognitiva (come nel caso specifico, oggetto di analisi in entrambi gli scritti, del vecchio boss mafioso Bernardo Provenzano).

Aspetti di persistente conflitto o tensione problematica tra l’istituto in questione e i principi costituzionali e convenzionali sono andati emergendo o riemergendo anche di recente, e però le corrispondenti prese di posizione della Consulta non sempre appaiono – come accennerò – esenti da possibili riserve critiche. Al di là del dibattuto problema dei suoi presupposti e limiti di legittimità, qualche recente intervento mediatico ha invero altresì sollevato il duplice interrogativo se il regime penitenziario differenziato sia ancor oggi necessario applicarlo in percentuale elevata (in atto vi risulterebbero sottoposti più di 600 detenuti), e se siano ormai maturi i tempi per affidarne la competenza applicativa alla sola autorità giudiziaria[14].

In effetti, al tema della competenza fa pure riferimento Raffaello Magi nell’ultima parte del suo scritto, sollecitando anch’egli un approfondimento di riflessione scevra da preconcetti cica l’opportunità di rivedere l’attuale architettura legislativa della ripartizione dei poteri nel procedimento applicativo del regime speciale, così da potere raggiungere «assetti idonei a realizzare una più alta aderenza tra le necessarie limitazioni delle facoltà del soggetto ristretto e i diritti inalienabili della persona umana». Inoltre, lo stesso Magi rileva giustamente come la questione della competenza possa essere condizionata dall’interrogativo, che peraltro assume un rilevo preliminare, relativo alla cosiddetta natura giuridica del regime detentivo speciale. Ora, dal momento che esso dal punto di vista della ratio  tende (più che a incrementare l’afflittività sanzionatoria) a realizzare una tutela anticipata e rafforzata del bene-sicurezza inibendo la possibilità che il mafioso detenuto possa continuare anche dal carcere a mantenere collegamenti col gruppo criminale di appartenenza, l’alternativa qualificatoria che si prospetta è se il carcere duro integri una misura specialpreventiva appartenente alla famiglia delle misure di sicurezza o a quella delle misure di prevenzione: ad avviso di Magi, si tratta più verosimilmente – sulla scorta di  alcuni precedenti giurisprudenziali – di una misura di prevenzione atipica, anche considerando che il regime rigoristico è altresì applicabile al soggetto raggiunto da gravi indizi di colpevolezza e sottoposto a restrizione cautelare.  Certo, il tema è complesso e denso di implicazioni sotto vari profili, per cui sarebbero senz’altro opportuni ulteriori approfondimenti.

Quanto poi ai più recenti interventi della Corte costituzionale, ho avuto occasione di dedicarvi uno sguardo d’insieme in una precedente sede[15]. In sintesi, è andato com’ è noto affermandosi nella giurisprudenza della Consulta un approccio argomentativo, secondo cui il regime penitenziario speciale va incontro a limiti invalicabili posti a salvaguardia di diritti, valori ed esigenze che vanno costituzionalmente bilanciati con la tutela della sicurezza collettiva e con gli obiettivi perseguiti mediante l’azione di contrasto della criminalità organizzata: il primo limite, collegato all’art. 3 Cost., si riferisce alla congruità o funzionalità della specifica misura restrittiva in questione rispetto agli scopi del circuito detentivo differenziato; il secondo, connesso all’art. 27, comma 3 Cost., deriva dall’esigenza di non vanificare completamente il fine rieducativo della pena e di non violare il divieto di trattamenti contrari al senso i umanità. Si tratta di un orientamento decisorio, in larga misura somigliante a quello adottato dalla Cote di Strasburgo per vagliare la compatibilità convenzionale dei regimi detentivi speciali, che la Corte ha ribadito nelle sentenze di accoglimento ad esempio a proposito della restrizione del numero dei colloqui con i difensori (sent. n. 143/2013), del divieto di cottura di cibi (sent. n. 186/2018) e, più di recente, del divieto assoluto di scambio di oggetti (costituiti nel caso di specie da generi alimentari) (sent. n. 97/2020). Mi sia consentito spendere qualche parola su quest’ultima sentenza perché essa, se appare condivisibile  nella parte in cui ha bocciato l’assolutezza del divieto di scambio di oggetti, può ben essere considerata per altro verso abbastanza sintomatica di un eccesso di prudenza nel prospettare esigenze di bilanciamento in concreto con eventuali esigenze contingenti di sicurezza, la cui valutazione rimane in effetti pur sempre rimessa ad un amplissimo potere discrezionale dell’amministrazione penitenziaria. Insomma, ritengo che sussistano giustificate ragioni per porre in forse sia la legittimità che l’’opportunità di una delega di bilanciamento in concreto che la Corte conferisce ad un organo dell’applicazione a carattere amministrativo, sottovalutando che si tratta in questo caso di un organo che è in realtà parte in causa in quanto istituzionalmente e pregiudizialmente vocato alla tutela privilegiata del bene-sicurezza, per cui esso difficilmente può garantire un bilanciamento imparziale (e lo rilevo anche grazie alla mia attuale esperienza di garante regionale dei diritti dei detenuti)[16].   

 

5. Comunque sia e come ho rilevato in precedenza, esistono due fronti che – a dispetto di un  atteggiamento abbastanza prudente della Corte – continuano a guardare con netto sfavore ai progressivi temperamenti che la giurisprudenza costituzionale apporta al rigore detentivo riservato ai soggetti appartenenti alla criminalità organizzata,  paventandosi il rischio concreto di un indebolimento dell’azione di contrasto alle mafie: fronti costituiti – lo ribadisco – dalla maggior parte delle procure antimafia, ancora ideologicamente riluttanti a rinunciare  alla pretesa di dare una prevalenza assoluta all’obiettivo di debellare la criminalità mafiosa, e da alcuni settori oltranzisti dell’antimafia politico-sociale più radicale, che difendono il carcere duro anche nella sua dimensione simbolica come una sorta di istituzione sacralizzata  attraverso il sacrificio di non pochi magistrati e di tante altre vittime del terrorismo mafioso. Pur con tutto il rispetto delle motivazioni morali e delle comprensibili reazioni emotive sottostanti a questa visione simil-religiosa, ritengo che un giurista (sia teorico sia pratico) fedele ai principi di fondo dell’attuale ordinamento sia tenuto a interiorizzare una concezione laica del diritto, alla cui stregua la moralità giuridica vincolante è quella che costituisce il riflesso di un contemperamento il più equilibrato possibile dei valori costituzionali in gioco. Ciò ribadito, penso anche che all’ interno dell’ordine giudiziario possa risultare davvero proficua una pluralità di orientamenti che si mantenga nei limiti di un pluralismo moderato e ragionevole, mentre mi sembra dannoso – e non poco disorientante agli occhi dei cittadini –  un pluralismo sfociante in contrapposizioni tra culture giudiziali così agli antipodi da risultare inconciliabili.

Proprio nella auspicabile prospettiva di promuovere una maggiore omogeneità di vedute circa il modo di intendere i principi della penalità nel quadro dell’attuale costituzionalismo "multilivello", il volume con gli scritti di Dolcini, Fiorentin, Galliani, Magi e Pugiotto può fornire un rilevante contributo grazie alla persuasività e anche all’apprezzabile equilibrio delle tesi e delle argomentazioni che vi sono prospettate e sviluppate. Nel contempo, vi è da augurarsi che questi stessi autori, proseguendo il loro viaggio nella direzione culturale e scientifica che li accomuna, ci regalino in futuro altri prodotti preziosi del loro nobile e utile impegno in vista di una esecuzione penale sempre più conforme a principi di giustizia e umanità.       


 
[1] A. Cechov, L’isola di Sachalin, a cura di V. Parisi, Adelphi, 2017, p. 34.

[2] Per ulteriori rilievi in proposito, concernenti altresì le (invero, non inoppugnabili) pregiudiziali di carattere socio-criminologico e antropologico che stanno alla base delle obiezioni che l’antimafia giudiziaria continua ad opporre al superamento della originaria disciplina dell’ergastolo ostativo rinvio a G. Fiandaca, Ergastolo ostativo: buttare la chiave o riflettere?, Intervista a cura di R.G. Conti, in giustiziainsieme.it, 19 novembre 2019.  

[3] In effetti, un apprezzabile ritorno di attenzione e interesse verso il tema della penalità considerato anche nei suoi aspetti più generali e di fondo lo testimoniano, direttamente o indirettamente, alcuni corsi di formazione tenuti o programmati nel biennio 2019/2021.

[4] E. Dolcini, E. Fassone, D. Galliani, P. Pinto De Albuquerque, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, Giappichelli, 2019.

[5] G. Fiandaca, Commento all’art. 27, comma 3 Cost., in Commentario alla Costituzione, diretto da G. Branca e A. Pizzorusso, Zanichelli, Bologna, 1991, 222 ss.

[6] Cosi’ G.M. Flick, Contraddizioni e acrobazie, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2017, 1505 ss.; in precedenza, cfr. ad esempio L. Risicato, La pena perpetua tra crisi della finalità rieducativa e tradimento del senso di umanità, ivi, 2015, 1238 ss. Tendenzialmente più favorevole rispetto alla soluzione compromissoria adottata dalla Consulta, nell’ambito della letteratura più recente, cfr. ad esempio D. Pulitano’, Il penale tra teoria e politica, in Sistema penale online, 9 novembre 2020.

[7] Lo riconosce lo stesso E. Dolcini, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano. Appunti e riflessioni, saggio incluso nel precedente volume collettaneo Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale, cit., 34.

[8] Ad esempio, L. Risicato, La pena perpetua, cit., 1254.

[9] Per obiezioni di questo tipo cfr., tra altri, K. Luederssen, Il declino del diritto penale, a cura di L. Eusebi, Giuffrè, Milano, 2005, 85 ss; e, più di recente, D. Galliani, Pena di morte e pena perpetua: e il senso di umanità?, in giustiziainsieme.it, 30 gennaio 2021.

[10] G. Fiandaca, Intorno al bilanciamento in ambito penale, tra legislazione e giurisdizione, in AA.VV., Bilanciamento e sistema delle fonti, a cura di L. Di Carlo, Giappichelli, Torino, 2020, p. 77 ss. (in particolare, 83 ss.).

[11] Più diffusamente, in proposito, G. Fiandaca, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in Sistema penale online, 19 maggio 2020.

[12] Si tratta di un tipo di interrogativo che ho sollevato in precedenza nell’ambito dell’intervista richiamata supra, nota 2. Sulle possibili connessioni tra rieducazioni e riparazione, finora non tutte a mio avviso adeguatamente esplorate, rinvio a G. Fiandaca, Note su punizione, riparazione e scienza penalistica, in Sistema penale online, 28 novembre 2020.

[13] E’ altresì da rilevare che è purtroppo mancata, nel corso degli ultimi decenni, una riflessione approfondita e continua sulla rieducazione in carcere, sui suoi criteri e i suoi metodi, sviluppabile alla stregua dell’evoluzione teorico-scientifica delle discipline sia psicologiche che pedagogiche (segnalo in proposito il breve ma stimolante intervento di F. Papana, Le parole più antipedagogiche usate per rieducare le persone detenute, in Ristretti orizzonti, n. 2/2020, 43 ss.). In effetti, la lacuna andrebbe colmata, senza dare con pessimistica rassegnazione per dimostrata un’assoluta inidoneità del sistema carcerario italiano a sortire possibili effetti rieducativi.

[14] Emblematici in proposito l’intervento di H.J. Woodcock, I detenuti al 41 bis sono troppi?, ne Il fatto, 6 novembre 2020, e l’intervista a R. De Vito, “Sì cari giornalisti, sulle scarcerazioni non siamo pentiti”, ne Il riformista, 7 novembre 2020. Contro un allentamento del carcere duro, pur riconoscendosi tuttavia che oggi può essere ragionevole ridurre il numero dei soggetti che vi sono sottoposti, cfr. G. Pignatone, Se il boss comanda anche dal carcere, ne la Repubblica, 22 febbraio 2021.

[15] G. Fiandaca, Ergastolo ostativo e 41 bis ord. pen. L’interazione virtuosa tra giudici ordinari e Corte costituzionale, Intervista a cura di R.G. Conti, in giustiziainsieme.it, 4 luglio 2020.

[16] Si tratta di riserve critiche che avevo già avanzato nell’intervista pubblicata in giustiziainsieme.it citata alla nota precedente. Successivamente, per critiche di analogo tenore ma più ampiamente sviluppate cfr. A. Tesauro, La “disciplina del minuscolo”: la Corte costituzionale alle prese con la ragionevolezza del divieto assoluto di scambiare oggetti per detenuti al 41 bis, in corso di pubblicazione in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2021. 

09/03/2021
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