1. Un salto di qualità che non è stato tentato
Le profonde riforme processuali attuate con i decreti legislativi Cartabia e il complessivo intervento di supporto messo in campo con l’«Ufficio per il processo» e con il PON Governance hanno fatto emergere in modo evidente il forte deficit di governance del sistema giustizia.
Gli interventi messi in campo con il PNRR si articolano su diverse direttrici, con obiettivi oltremodo ambiziosi. Le riforme dei riti avrebbero voluto razionalizzare il sistema e tagliare i tempi processuali. Questo percorso avrebbe dovuto essere supportato dall’ufficio per il processo, concretizzato nella prevista assunzione di 8754 laureati con la qualifica di funzionari, accompagnato dal PON Governance, che vede un intervento a sostegno e implementazione da parte di consorzi di università che mettono a disposizione assegnisti, contrattisti e professori universitari. Parallelamente, è stata prevista l’assunzione a tempo determinato di 5410 unità di personale tecnico (tecnici informatici, contabili, tecnici edili, operatori, statistici, tecnici di amministrazione, analisti di organizzazione, operatori di data entry) e l’assunzione a tempo indeterminato di funzionari e di operatori.
Come si vede, una manovra complessiva con due forti elementi di novità rispetto al passato: da un lato, si abbandona la finzione delle riforme a costo zero investendo in un progetto dedicato alla giustizia, con una significativa assunzione di personale qualificato; dall’altro, per la prima volta viene assicurata al giudice un'assistenza di livello. Questa novità rappresenta anche una grande occasione di sperimentare e indurre nuovi moduli organizzativi con il magistrato al centro come motore di un team che lavora per lui.
Ma proprio l’istituzione dell’ufficio per il processo, che include i nuovi assunti come funzionari, inquadrandoli come personale amministrativo, destinandoli però al diretto supporto della giurisdizione, richiedeva una nuova mentalità e un salto di qualità nella gestione. Un personale ibrido, gestito e direttamente dipendente dalla dirigenza amministrativa dell’ufficio giudiziario e dal Ministero della giustizia, ma destinato all’ausilio e alla collaborazione diretta col magistrato.
Quello che sarebbe stato necessario sotto il profilo della formazione e della gestione era un salto di qualità di cultura e governance, che doveva interessare più livelli e più soggetti: superare le ambiguità del d.lgs n. 240, istitutivo della cd. doppia dirigenza, per realizzare una vera direzione integrata tra magistrato capo dell’ufficio e dirigente amministrativo che creasse comunanza di intenti, sinergia e valorizzazione dei ruoli; creare una fortissima collaborazione tra Ministero, Csm e Scuola superiore della magistratura per realizzare una formazione adeguata dei nuovi funzionari e per darsi una struttura di monitoraggio, coordinamento, ausilio.
Doveva esserci la consapevolezza della portata della sfida che si era accettata, che avrebbe comportato una radicale innovazione organizzativa e che rendeva necessario un salto di qualità.
Nulla di tutto ciò è avvenuto. La dirigenza amministrativa, la cui presenza è ormai episodica, data la fortissima scopertura di organico (più di metà degli uffici sono privi di dirigente amministrativo) è stata scarsamente coinvolta, salvo ovviamente che a livello locale. Gli uffici giudiziari, se si escludono alcune iniziative apprezzabili (come i preziosissimi kit statistici, un primo monitoraggio generale da parte del Ministero e un questionario di riscontro con interviste a campione svolto dalla Scuola superiore) delle diverse istituzioni nazionali, sono stati lasciati soli. La formazione è stata gestita fondamentalmente solo dal Ministero, con inevitabili carenze, mentre manca un monitoraggio condiviso e qualsiasi coordinamento.
La logica è rimasta quella della rivendicazione delle proprie competenze, con scarsi momenti di coordinamento (un protocollo stipulato tra Ministero e Scuola superiore della magistratura sulla formazione, il comitato paritetico tra Ministero della giustizia e Csm sull’organizzazione) e compartimenti stagni, con il Ministero che si dovrebbe occupare della gestione e formazione del personale amministrativo e, quindi, anche dei nuovi funzionari, il Consiglio che ha competenza sull’amministrazione e organizzazione della giurisdizione, la Scuola cui spetta la formazione iniziale e permanente dei magistrati.
Un’occasione persa, anche per ristrutturare a livello centrale e negli uffici giudiziari un nuovo modello di direzione e di collaborazione, che realizzi quel principio di «leale collaborazione» più volte indicato dalla Corte costituzionale ed essenziale per la stessa funzionalità ed efficienza del sistema giustizia.
Poteva essere di aiuto il PON Governance, intervento posto in atto da consorzi di università con lo scopo di accompagnare il cambiamento organizzativo dato dall’ufficio per il processo aiutando una riorganizzazione degli uffici, che però si è scontrato con i tempi estremamente ristretti (complessivamente 18 mesi, di cui quasi 12 già trascorsi) e con l’inevitabile impreparazione delle università, che hanno potuto bandire i posti per assegnisti e contrattisti solo a progetto in fase di partenza, o addirittura già partito. Mancano, inoltre, un coordinamento nazionale e momenti di scambio di comunicazioni e esperienze.
2. Le difficoltà di comunicazione e coerenza tra le diverse strutture ministeriali
Ma le riforme processuali entrate in vigore hanno anche fatto emergere una realtà, a dire il vero non nuova, ma eclatante, ovvero l’esistenza di strutture ministeriali che non comunicano tra di loro e che si muovono senza coordinamento e in modo disordinato. Un problema cui hanno cercato di porre rimedio senza successo le modifiche del regolamento di organizzazione del Ministero della giustizia (ora dpcm 15 giugno 2015, n. 84, recentemente modificato con dpcm 22 aprile 2022, n. 54), ma che nel caso risulta quanto mai evidente.
L’Ufficio legislativo non si è in alcun modo coordinato con il Dipartimento organizzazione giudiziaria e così abbiamo riforme, forse entusiasmanti sotto il profilo dell’astratta armonia normativa, ma di difficile praticabilità e delle quali, comunque, non è stata fatta alcuna valutazione d'impatto.
Ciò risulta evidente dalla Relazione ministeriale sulla riforma del rito civile laddove istituisce il nuovo «Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie» (p. 194), che evidenzia testualmente come la rivisitazione delle piante organiche necessaria per lo stesso avvio del nuovo tribunale risulti attualmente impossibile:
«dall’interlocuzione avuta con il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi è infatti emerso che la soluzione predicata dalla legge numero 206 del 2021 è scarsamente praticabile, in quanto – considerato che nella maggior parte dei tribunali il medesimo giudice svolge funzioni sia in materia di famiglia che in altre materie civili e a volte penali – sottrarre risorse ai tribunali ordinari potrebbe portare questi alla paralisi; cosa tanto più inaccettabile in considerazione del fatto che, com’è noto, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza impone il raggiungimento, entro il 2024, di sensibili percentuali di riduzione del numero di procedimenti arretrati. D’altro lato, la previsione di piante organiche con una dotazione di personale aggiuntiva rispetto all’attuale dotazione complessiva, che, come si è detto, è condizione necessaria per assicurare la funzionalità tanto del nuovo tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie quanto dell’esistente tribunale ordinario, presuppone necessariamente che prima vengano stanziate le risorse necessarie. Il mancato inserimento del termine per l’adozione delle nuove piante organiche è quindi finalizzato a far sì che l’amministrazione possa disporre di un congruo lasso di tempo per ottenere i necessari stanziamenti».
Questo vuol dire semplicemente che la decisione politica e legislativa non si è confrontata prima con la struttura ministeriale deputata a verificarne la realizzabilità e a concretizzarla, e che il problema è solo successivamente emerso in modo tale da dover ammettere la sua impraticabilità in un atto ufficiale che accompagna il decreto legislativo.
Ma la difficoltà di comunicazione e di sinergia tra le varie articolazioni ministeriali, a dire il vero non nuova, emerge altresì nei costanti ritardi (verificatisi per l’attuale decreto legislativo come per le riforme processuali precedenti) di adeguare il processo civile telematico alle modifiche normative introdotte, con norme che restano sostanzialmente inattuate, anche per lungo tempo, e altre per cui occorre trovare soluzioni temporanee. La sensazione che si trae dall’esterno è che la struttura tecnica ministeriale (nel caso, la Dgsia) sia messa davanti al fatto compiuto o che, comunque, non venga interpellata sui tempi realistici che ha una modifica normativa per essere concretizzata a livello informatico.
Perché oggi, piaccia o no, l’informatica prevale sulle astratte previsioni normative.
3. La digitalizzazione come nuova governance
La digitalizzazione, oggi, è il formante della giurisdizione che incide sulle modalità quotidiane di lavoro e che sempre più determina le decisioni e gli stessi ambienti lavorativi. E sempre più sta diventando il decisore e il gestore occulto che costringe i soggetti che vi operano, i codici e la stessa organizzazione ad adeguarsi. Le tecnologie stanno sempre più plasmando il nostro contesto lavorativo, facendo prevalere le loro esigenze “tecniche” sulle esigenze lavorative di chi vi opera. La digitalizzazione, peraltro necessaria e inevitabile, non è neutra e frutto di pura tecnica, e non si possono ignorare le profonde implicazioni politiche di scelte apparentemente tecniche. Una prima conseguenza è che l’informatica, che, per motivi del tutto da condividersi, è monopolio del Ministero della giustizia, viene ad essere sottratta istituzionalmente a interlocuzioni, confronti e controlli. La fisiologica e benefica dialettica che deve esistere tra Ministero, Csm e uffici giudiziari, coinvolgendo anche l’avvocatura, viene in questo modo del tutto superata. Ci si trova così di fronte a decisioni apparentemente “tecniche”, che però impongono e determinano modalità lavorative e riorganizzazioni. L'informatica è oggi in mano a un Ministero della giustizia e a una sua direzione tecnica (la Dgsia) che agisce secondo un suo progetto, senza un costante canale di comunicazione con uffici giudiziari e avvocatura e senza che siano noti obiettivi e tempi. Non vi è una sufficiente trasparenza sulle priorità, sui progetti e sui tempi per realizzarli. Non vi è quell’indispensabile coinvolgimento di magistrati, dirigenti, avvocati, funzionari, tecnici che possa aiutare nella realizzazione di programmi e progetti che risultino nel contempo efficienti, fruibili e appetibili.
Questo nuovo contesto, in realtà, produce un fortissimo mutamento non dichiarato, ma non meno preoccupante, della governance della giustizia e dello stesso assetto costituzionale.
Il monopolio ministeriale e governativo dell’informatica supera ed evita la dialettica voluta dal costituente tra Ministero (art. 110 Costituzione) e Csm (art. 105 Costituzione) e, semplicemente, impone il quadro in cui si opera e non consente discussioni su decisioni prese – tra l’altro – formalmente da una struttura tecnica. Non solo, ma accentua una tendenza già in atto e che sembra prevalente, ovvero quella di una totale centralizzazione, che fa divenire gli uffici giudiziari (che, ricordiamo, sono entità autonome sotto il profilo giuridico e costituzionale) strutture decentrate del Ministero della giustizia.
Quadro ancora più preoccupante, in quanto formalmente verrà determinato e creato dal Ministero della giustizia, ma tale per cui di fatto saremo in mano, senza possibilità di controlli adeguati, a grandi società private, che una volta vinti gli appalti determineranno le scelte, tra l’altro in modo sotterraneo e senza apparire direttamente.
Questa falsa primazia della tecnica sulle esigenze della giustizia è ben espressa dalla creazione di un nuovo Dipartimento per la transizione digitale separato e autonomo da quello per l’organizzazione giudiziaria. Creazione che tutti hanno salutato come un segnale di modernità, ma che francamente non può che lasciare perplessi e preoccupati. Oggi l’organizzazione degli uffici passa necessariamente per due snodi: da un lato dati, statistiche e monitoraggi, e dall’altro l’applicazione delle tecnologie, ovvero proprio le materie e le relative Direzioni sottratte al Dipartimento per l’organizzazione giudiziaria per passare al nuovo Dipartimento. Questa sottrazione significa ridurre il Dog a ufficio del personale e impedire quella visione complessiva, oggi più che mai necessaria. Dato vieppiù preoccupante in un quadro come quello ministeriale, in cui, come abbiamo visto, vi sono ampi problemi di coordinamento e sinergia che un nuovo Dipartimento autonomo (e conflittuale) non può che enfatizzare. Inoltre, non è casuale che per la prima volta a capo sia della Dgsia sia del nuovo Dipartimento per la transizione digitale del Ministero siano due ingegneri. Ovviamente non può esservi nessuna preclusione per tecnici e ingegneri di alto livello, anzi la capacità di unire diverse competenze e la multidisciplinarietà sono feconde e fondamentali; ma ciò deve unirsi alla conoscenza approfondita delle norme processuali, degli ambienti lavorativi, delle esigenze (spesso diverse e a volte conflittuali) dei diversi soggetti attori del mondo della giustizia (magistrati, dirigenti, personale amministrativo, avvocati). Ed è difficile che questo possa aversi, quanto meno in tempi brevi, da persone che non conoscono il settore e che non hanno mai frequentato le aule giudiziarie.
Non si tratta ovviamente di ripudiare le tecnologie, che ci possono consentire di lavorare meglio e in modo più comodo, con un risparmio di tempo e con maggiore qualità, ma di non diventare succubi di esse, di governarle e di non subirle. Per questo, è necessario rivendicare che le scelte di digitalizzazione non siano patrimonio unicamente della struttura tecnica del Ministero (una Dgsia che, peraltro, deve sempre più confrontarsi con la penuria di personale e di competenze), ma che siano scelte complessive di tutte le strutture ministeriali e, soprattutto, che emergano dal confronto e dalle esperienze con gli uffici giudiziari, con l’avvocatura, con il Csm e con il Cnf.
E per questo occorre evitare in tutti i modi di diventare schiavi di una governance fintamente tecnica data da chi governa le tecnologie, tanto effettiva quanto occulta, che silenziosamente si sta già affermando.
4. Una nuova ipotesi di governance: «Giustizia 2030» e i poli territoriali
Le considerazioni che precedono fanno tornare di attualità alcune riflessioni che, nel 2021, avevamo avanzato nel documento «Giustizia 2030». Si partiva dalla consapevolezza dei limiti della configurazione del sistema giustizia come basato su due centri (Ministero e Csm) assorbenti e totalizzanti, con evidenti difficoltà di rapporti interni e tra di loro. Centralizzazione che, da un lato, faceva apparire queste istituzioni come lontane e, dall’altro, non consentiva loro di utilizzare la ricchezza di risorse umane e materiali e di intelligenze che nei territori si coltivano e sviluppano.
«Pensare di continuare a gestire un mondo complesso e variegato come quello della giustizia unicamente con strutture nazionali centralizzate, tra l’altro spesso denotate da difficoltà di comunicazione tra le diverse articolazioni e prive di una visione condivisa, è illusorio ed impossibile. Non si tratta di modificare la Costituzione e i compiti da essa affidata a Ministero della giustizia (art. 110) e C.S.M. (art.105), ma puntare su di un allargamento della governance in un’ottica complementare di collaborazione capace di valorizzare i territori. Si tratta sia di assicurare una forte governance locale che dia fondamento e ricchezza alla governance nazionale, sia di poter coinvolgere e “utilizzare” il rapporto con l’avvocatura, gli enti locali, l’economia del territorio. Occorre superare una visione solo centralizzata per puntare su poli territoriali con autonomia decisionale e forte responsabilizzazione in rapporto complementare e di sinergia con il Centro (Ministero della Giustizia e C.S.M.). Non è un nuovo federalismo, ma una valorizzazione dei territori che arricchisca la governance con risorse e strutture responsabilizzate e (parzialmente) autonome come valore aggiunto, nel contempo evitando il sovraccarico di oneri di governo e di gestione, e dia a Ministero e C.S.M. un nuovo forte ruolo di propulsione, regolazione, coordinamento, supporto e diffusione. Il Ministero deve essere il centro nazionale di governo delle tecnologie. Ma nel contempo i poli territoriali (attualmente identificati in linea di massima con i distretti) significano apertura ai territori, responsabilità e rendicontazione con un’attenzione particolare alle possibilità di finanziamento derivante dalla riallocazione di somme derivanti dal contributo unificato e dalle sanzioni pecuniarie. Con l’idea di semplicità di accesso e di garantire una ricchezza di servizi ai cittadini».
Una prospettiva che proprio l’evoluzione del sistema dimostrerebbe sempre più attuale.
La digitalizzazione la renderebbe ancora più possibile e praticabile, consentendo una trasparenza nella ripartizione di competenze, nelle scelte e nei rapporti reciproci. A ciò dovrebbe essere unito un sistema stabile di sinergia e coordinamento (la «leale collaborazione» appunto) tra Ministero, Csm, Ssm e Cnf che eviti o superi i contrasti per concordare gli interventi e, se possibile, per maturare una visione condivisa e complessiva, oggi in larga parte carente.
Il presente contributo costituisce anticipazione del numero 1/2023 di Questione Giustizia trimestrale, di prossima pubblicazione.