L’ambizione al progresso verso un diritto penale minimo, in cui la pena – effettivamente, razionalmente e rapidamente irrogata ed eseguita - sia il rimedio estremo alla lesione di beni individuali e collettivi rilevanti per la salvaguardia delle persone e la difesa della convivenza civile, si scontra con la ricorrente deriva verso il diritto penale simbolico.
Una deriva che nasce dall’ansia politica di produzione o conferma nel corpo sociale di giudizi di disvalore mediante l'incriminazione di condotte la cui pericolosità si vuole far percepire in modo “forte”; ovvero con l’ansia di far percepire al corpo sociale che i decisori politici si interessano in maniera “forte” di condotte diffusamente considerate come pericolose (anche a prescindere dalla effettività del pericolo o della sua crescita: ciò che conta è il sentiment).
Ciò si traduce nella criminalizzazione di nuove condotte, ovvero nella ridefinizione di condotte penalmente rilevanti mediante l’aggiunta di elementi caratterizzanti, in genere in funzione aggravatrice.
E’ di per sé evidente il rischio di contraddire la funzione del diritto penale, costituzionalmente fondata, di semplice tutela di beni giuridici primari.
Il rischio è percepito non soltanto dai giuristi ma anche dai più avveduti commentatori: Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera del 25 luglio 2013, a proposito delle norme penali sul voto di scambio ha parlato di leggi-photopportunity, cioè di norme-manifesto fatte solo per “dare un segnale”.
Il decreto legge 10 dicembre 2013 n. 136 è intitolato “Disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate”.
Non costituisce di per sé elemento di drammatizzazione la scelta del decreto legge, laddove se ne consideri la funzione, recentemente assunta a livello di Costituzione materiale, di strumento di gestione dei lavori parlamentari nella duplice funzione di modalità di calendarizzazione straordinaria di temi di interesse governativo e di whipping esterno sui gruppi parlamentari di maggioranza.
Si dichiara, in premessa, di dover immediatamente intervenire “considerata la estrema gravità sanitaria, ambientale, economica e della legalità in cui versano alcune aree della regione Campania” e la straordinaria necessità e urgenza di “incisiva repressione delle condotte di illecita combustione dei rifiuti”.
Premessa questa urgenza – compresa una singolare “gravità della legalità” - l’art. 3 del D.L. introduce nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 l’art. 256-bis, contenente una nuova fattispecie incriminatrice, rubricata “Combustione illecita di rifiuti”.
Prescindiamo in questa sede – anche confidando in interventi utili nella fase di conversione – dal discutere alcune strettoie interpretative per limitarci a evidenziare alcuni sintomi di simbolismo penale.
A fronte di un sistema penale sostanziale fortemente strutturato e (già) connotato da una moltiplicazione di fattispecie, la semantica marginale degli elementi descrittivi di fattispecie pare assolvere alla funzione di dare segnali e non a quella di tutelare beni definiti.
Così è a dirsi dell’elemento descrittivo “appiccare il fuoco”: rispetto a cui ci si deve chiedere qual è la soglia di tipicità e di effettiva lesività; e quale il rapporto con la complessa elaborazione giurisprudenziale sull’”incendio” di cui agli artt. 423, 423-bis, 424, 449 c.pen. .
In una sorta di crescendo di allarme, il comma successivo parla di “combustione illecita di rifiuti” abbandonati (il riferimento è al comportamento, sanzionato amministrativamente, di cui all’art. 255, primo comma, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152).
La “combustione” copre altra area semantica marginale e ancora diversa rispetto all’ordinario “incendio”, che potrà assumere connotati di tassatività solo attraverso una rigorosa interpretazione giurisprudenziale.
Ma che intanto assolve al compito di evocare cupe “terre dei fuochi” mentre, in concreto, espone a sanzione comportamenti minimi, usuali nelle campagne o nei giardini.
Nel terzo comma si prevede un aumento di pena (in misura fissa di un terzo) se il delitto sia commesso “nell’ambito dell’attività di un’impresa o comunque di un’attività organizzata”.
Mentre il concetto di “impresa” è consolidato, il riferimento a una “attività organizzata” sembra voler rassicurare sull’attenzione posta dal legislatore governativo a organizzazioni criminali e non, e persino a coacervi occasionali di soggetti agenti.
Ma l’”attività organizzata” che può intimorire il buon cittadino non copre nulla di giuridicamente qualificabile come nuovo, bensì tutto ciò che è già riconducibile all’associazione per delinquere piuttosto che al concorso di persone nel reato: anzi, non è imprudente affermare che qualsiasi delitto doloso – salvo in qualche caso concreto di dolo d’impeto – derivi da un’attività umana “organizzata”.
L’approccio simbolico si associa talora allo stigma: che può consistere in una forte sottolineatura terminologica, in una connotazione pregiudizialmente negativa per categorie di soggetti, o, nel caso del D.L. 10 dicembre 2013 n. 136, in uno “stigma territoriale”.
Già in passato si è compiuta la scelta – foriera di rilevanti questioni interpretative – di una legislazione penale emergenziale-territoriale, in particolare con ile le norme incriminatrici di cui all’art. 6 D.L. 6 novembre 2008 n. 172, convertito in L. 30 dicembre 2008 n. 210.
Nello stesso solco si pone la disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 3 del D.L. 136/2013: collocazione significativa, poiché si tratta dello stesso articolo che introduce la nuova norma penale: “i Prefetti delle province della regione Campania, nell’ambito delle operazioni di sicurezza e di controllo del territorio prioritariamente finalizzate alla prevenzione dei delitti di criminalità organizzata e ambientale, sono autorizzati ad avvalersi, nell’ambito delle risorse finanziarie disponibili, di personale militare delle Forze armate”.
In Campania, dunque, l’art. 55 c.p.p., che disegna le funzioni della polizia giudiziaria, ha bisogno, secondo il legislatore governativo, di essere “rafforzato” simbolicamente con una dichiarazione che alternativamente può essere letta come dichiarazione di guerra, combattuta dall’Esercito, o dichiarazione di impotenza delle polizie giudiziarie impegnate sul territorio.
Ci si può legittimamente chiedere se un diritto penale territoriale, una volta assolta la sua funzione simbolica immediata, non lasci un sedimento di sfiducia nella capacità delle istituzioni di elevare in maniera omogenea la condizione di tutti i cittadini – come l’art 3 della Costituzione, in entrambi i commi, esige – piuttosto che dare per acquisite le disomogeneità.
Vi è poi un versante processuale, complementare al diritto penale simbolico: le regole vengono derogate in pejus perché si ritiene che quella fattispecie-simbolo ne meriti di diverse da quelle processuali ordinarie: e così, nel D.L. 136/2013, vengono previste confische in deroga peggiorativa dell’art. 240 c.pen. e dell’art. 444 c.p.p. .
Tuttavia, se si ritiene che un reato ambientale meriti una maggiore incisività di provvedimenti cautelari reali o di sanzioni accessorie incidenti su determinati beni, sembra inconferente – e per certi versi diseducativa in termini di prevenzione generale - una parcellizzazione degli interventi.
Una certa forma di “impazienza della politica” suggerisce o impone l’introduzione di fattispecie-simbolo che non solo possono produrre criticità rispetto a un sistema di diritto penale costituzionalmente orientato ma che rischiano di contraddire una prospettiva riformatrice alta, che dotrebbe essere caratterizzata dal buon uso del tempo del legislatore come garanzia di tecnicità giuridica ma anche di condivisione democratica.