Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

I motivi per un Sì

di Valerio Onida
professore emerito di diritto costituzionale, Università degli studi di Milano

È possibile che il varo definitivo di questa piccolissima riforma induca il Parlamento a mettere seriamente allo studio nuove norme regolamentari e revisioni di prassi parlamentari allo scopo di far funzionare meglio le Camere

Prima sembrava che il referendum confermativo della legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, già indetto per il 29 marzo e successivamente rinviato al 20 settembre per via dell’emergenza sanitaria, suscitasse assai poca attenzione tra gli elettori e nell’opinione pubblica: e ciò poteva apparire coerente con la limitata portata del tema, che non implicava e non implica un coinvolgimento o la messa in discussione di rilevanti valori costituzionali. Assemblee parlamentari meno numerose, ma elette allo stesso modo di prima e dotate degli stessi poteri e delle stesse attribuzioni, in un assetto costituzionale immutato, non significano di per sé alcun rilevante cambiamento istituzionale.

Ma poi, fissata la nuova data, ha cominciato a infittirsi il dibattito, e in particolare sono comparse molte decise prese di posizione favorevoli al “no”.  E le regole sulla par condicio nei mezzi di informazione hanno spinto sempre più nella direzione della presentazione di posizioni contrapposte e di argomenti “ultimativi” – difendere il Parlamento, difendere la Costituzione, assicurare il carattere rappresentativo delle Camere, e simili – in dibattiti in cui il “sì” e il “no” sembrano destinati a fronteggiarsi come scelte radicalmente alternative e tali da implicare insanabili contrapposizioni.

Non sembra davvero giustificato né utile favorire una simile evoluzione del dibattito, che tende ad assolutizzare le posizioni e a far passare motivazioni inattendibili.

Per quanto mi riguarda, mi limiterei dunque, da un lato, a offrire una riflessione sul ruolo che questo tipo di referendum ha nel nostro sistema costituzionale, e dall’altro a dire perché non mi sembrano affatto convincenti certe argomentazioni che vengono addotte in favore del “no”, ma talora anche altre argomentazioni addotte in favore del ”sì”, che pure, come elettore, è la scelta che faccio. Non mi pare infatti opportuna né una scelta di non voto (che potrebbe, astrattamente, favorire la vittoria non di un’opinione maggioritaria, ma di una minoranza combattiva, in un referendum in cui non è richiesto alcun quorum), né una scelta di astensione, nel senso di votare scheda bianca (che ancora un volta potrebbe favorire le prevalenza di una minoranza).

Questo è un referendum di tipo “confermativo” o “oppositivo”. Il corpo elettorale cioè non è chiamato a pronunciarsi in senso positivo o negativo su una proposta proveniente dal di fuori delle istituzioni e destinata, se approvata, a modificare l’assetto esistente (come accade nel referendum abrogativo o in quelli propositivi, oggi da noi sconosciuti a livello statale). I promotori del referendum non sono portatori di una loro proposta: chiedono solo che gli elettori votino per eventualmente opporsi alla legge costituzionale approvata dal Parlamento. Le Camere hanno approvato la legge due volte, la seconda delle quali necessariamente a maggioranza assoluta, come prescritto dall’art. 138 della Costituzione, Se entrambe le Camere avessero approvato la legge in seconda deliberazione con la maggioranza di due terzi dei loro componenti, la legge sarebbe stata senz’altro promulgata senza possibilità di referendum. Poiché invece nella seconda deliberazione del Senato si è raggiunta la maggioranza assoluta ma non quella di due terzi, come invece accaduto nella seconda deliberazione della Camera, si è aperto lo spazio temporale entro il quale cinquecentomila elettori, cinque consigli regionali o un quinto dei componenti di una Camera potevano chiedere il referendum confermativo. Questo è stato chiesto da 71 senatori (non vi è stata alcuna altra richiesta).

Le quattro deliberazioni delle Camere, ricordiamolo, sono le seguenti. Approvata dal Senato la prima  volta il 7 febbraio 2019, con 185 voti a favore (più della maggioranza assoluta), 54 contrari e 4 astenuti su 243 votanti; dalla Camera la prima volta il 9 maggio 2019, sfiorando la maggioranza assoluta con 310 voti a favore, 107 contrari e 5 astenuti su 417 votanti; dal Senato la seconda volta l’11 luglio 2019, con 180 voti a favore (maggioranza assoluta), 50 contrari, nessun astenuto,  su 230 votanti; dalla Camera la seconda volta l’8 ottobre 2019 con 553 voti a favore su 567 votanti (più di due terzi, e precisamente il 97,5% dei votanti e l’87,7 per cento dei deputati), 14 contrari e due astenuti.

Dunque la Camera nell’ultima deliberazione ha raggiunto praticamente l’unanimità dell’assemblea e delle forze politiche in essa rappresentate.  Come si sa, nel frattempo è cambiata la maggioranza, le forze che prima stavano all’opposizione hanno dato vita alla nuova maggioranza con il Movimento Cinque Stelle, e le due maggioranze si sono “fuse”, concordi, nell’ultimo voto di questa legge costituzionale.  

Il dato non è irrilevante, perché trattandosi di modificare la Costituzione il voto concorde delle diverse forze politiche, di maggioranza e di opposizione, rappresentate in Parlamento dovrebbe di massima essere la regola o comunque essere altamente desiderabile, specie in tempi di forti e aspre contrapposizioni politiche, in  cui la Costituzione dovrebbe più che mai restare terreno comune di intesa e di concordia.

In una situazione di questo genere, smentire con il voto popolare il voto, si può dire, della totalità delle forze politiche rappresentate nelle Camere equivarrebbe a “sfiduciare” il Parlamento e l’intero sistema politico.

Per arrivare a una simile determinazione occorrerebbe disporre di solidi motivi di opposizione al merito della legge costituzionale: motivi che non  mi pare siano stati addotti in modo convincente.

Tale non può essere l’"incompletezza" della riforma, che non affronta altri aspetti del sistema costituzionale e nemmeno dell’assetto del Parlamento. Anzi, in occasione di altri precedenti referendum costituzionali ad oggetto assai più ampio si è giustamente lamentato il fatto che nella legge sottoposta al voto confluivano aspetti non solo diversi ma estranei l’uno all’altro, tal che si impediva all’elettore di condividerne alcuni e non altri, dovendo esprimere un solo “sì” o un solo “no”. L’aspetto qui affrontato – il  numero dei componenti delle due  Camere – è largamente indipendente da altri aspetti più controversi, e soprattutto dalle prospettive di ripensamento del bicameralismo paritario, che non viene in alcun modo intaccato.

Anzi, anche alcuni dei “ritocchi” che taluno reputa necessariamente da accompagnare a questa riforma non sono affatto, a mio avviso, desiderabili. In Parlamento si è cominciato a discutere di alcuni di questi. L’unico che condividerei è l’equiparazione dei requisiti di elettorato attivo e passivo nelle due Camere, oggi differenziati (votano per il Senato solo gli ultraventicinquenni e sono eleggibili solo gli ultraquarantenni): infatti la sottostante prospettiva di un Senato come “Camera degli anziani” non si è mai sviluppata né pare sensata. Invece l’elezione del Senato «a base regionale» – che comporta già oggi un diverso criterio di rappresentanza dell’elettorato  - penso non sia da abbandonare, nella prospettiva di fare del Senato, in un sistema bicamerale, sempre  più il luogo di espressione e di rappresentanza delle popolazioni delle diverse Regioni. Abbandonare questo criterio vorrebbe dire parificare sempre più le due Camere anche come tipo di rappresentanza, e quindi accentuare la caratteristica di “doppione” del Senato. 

Così pure non sono dell’avviso che andrebbe proporzionalmente ridotto, nell’Assemblea comune di Camera e Senato che è chiamata ad eleggere il Presidente della Repubblica, il numero dei delegati regionali, oggi tre per Regione. Infatti questo numero non ha nulla a che fare con il numero dei senatori e dei deputati, tanto è vero che esso fu fissato dalla Costituente a prescindere dal numero dei componenti delle due Camere, che all’origine non era fisso; e neppure è proporzionale alla popolazione delle diverse Regioni:  trattandosi ancora una volta, in occasione dell’elezione di colui che rappresenta l’unità nazionale e del Presidente della Repubblica «una e indivisibile», di dare voce alla rappresentanza delle articolazioni regionali del Paese, con criteri rispettosi dell’esigenza di dare voce anche alle minoranze di ciascuna delle Regioni, piccole  e grandi.

Parimenti infondata mi pare la tesi di una “perdita di rappresentatività” delle Camere divenute meno numerose

La rappresentatività delle Camere non è legata al numero di elettori che corrisponde ad ogni eletto (numero comunque destinato ad essere assai ampio, in un Paese di 60 milioni abitanti, e in regime di suffragio universale), ma semmai al modo in cui essi vengono eletti (sistema elettorale) e al funzionamento degli strumenti di raccordo fra cittadini e istituzioni, vale a dire i partiti politici e le grandi organizzazioni sociali. In un tempo in cui la comunicazione politica anche fra singoli elettori si avvale sempre più degli strumenti della rete, non è pensabile che il rapporto fra deputati ed elettori del “collegio” si configuri alla stregua di un rapporto “personale” in senso proprio. Né gli elettori sono chiamati ad affidare agli eletti il compito di rappresentare e promuovere i loro eventuali microinteressi di gruppo o al limite personali (che in Parlamento non dovrebbero trovare rappresentanza né udienza), senza dire che i legittimi microinteressi locali trovano migliore espressione ai livelli inferiori della rappresentanza elettiva (Regioni Province, Comuni), o quando i cittadini vengono chiamati a partecipare  a forme di “dibattito pubblico” a livello locale. I parlamentari dovrebbero piuttosto essere scelti fra coloro che interpretano nel modo più adeguato gli orientamenti politici  generali che nel Paese si confrontano, o  che, nel Senato,  rappresentano al meglio gli interessi generali che si esprimono a livello dei territori regionali.

Certo, più si riduce il numero degli eletti più si alza la “soglia implicita” dei voti necessari perché una formazione politica di piccolissime dimensioni possa entrare in Parlamento. Ma davvero si ritiene positivo che in sede di elezione debbano poter trovare rappresentanza politica in Parlamento anche forze politiche che esprimono al limite lo 0,25 per cento, cioè un quattrocentesimo degli elettori totali e del totale dei votanti?  

Come si sa, al contrario, la ricerca dell’equilibrio fra i due principi di rappresentatività e di cosiddetta governabilità induce spesso a cercare, attraverso i meccanismi elettorali, di alzare la soglia minima dei voti necessari per conseguire un seggio anche in un sistema interamente proporzionale, ad esempio attraverso le “clausole di sbarramento” o la distribuzione dei seggi a livello circoscrizionale senza recupero dei resti a livello nazionale.

Certo, non c’è nessuna garanzia che questa riduzione del numero produca di per sé un miglioramento della funzionalità del Parlamento, poiché il problema fondamentale è quello della qualità dei parlamentari e della funzionalità dei partiti politici e delle altre grandi organizzazioni sociali che costituiscono i necessari intermediari fra cittadini e istituzioni. Ma è possibile che il varo definitivo di questa piccolissima riforma induca il Parlamento a mettere seriamente allo studio nuove norme regolamentari e revisioni di prassi parlamentari allo scopo di far funzionare meglio le Camere. Faccio qualche  esempio: ridurre i tempi dei dibattiti, spesso sterili di confronti e ricchi solo di invettive reciproche; ridurre l’assenteismo parlamentare per cui di frequente partecipano ai lavori e al voto solo una parte dei componenti delle camere; sviluppare il ricorso a commissioni bicamerali (quella per le questioni regionali, prevista dalla Costituzione, ma che non è mai stata integrata da rappresentanti delle Regioni, come previsto dalla riforma del 2001) per  consentire una migliore collaborazione fra le due assemblee.

Questa legge contiene infine un dettaglio non privo di senso: chiarisce che i senatori a vita nominati dai Presidenti della Repubblica non possono superare il numero complessivo di cinque, così definitivamente precludendo un’interpretazione e una prassi, nel passato adottate da alcuni Presidenti, secondo cui ogni Capo dello Stato potrebbe nominarne cinque.

In conclusione: una riforma di dettaglio, che non mette in gioco valori costituzionali, e la cui definitiva approvazione non farebbe che confermare una deliberazione legislativa già ripetutamente approvata dalle Camere, l’ultima volta quasi all’unanimità; che non provoca danni, e potrebbe favorire anzi l’adozione di norme e di prassi che migliorino il funzionamento – oggi certo non ottimale – delle Camere.

14/09/2020
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