(articolo tratto dal n.4/2015 della rivista trimestrale / SCARICA IL NUMERO)
Questione Giustizia anche in questa occasione intende contribuire al confronto sempre aperto sulla giustizia civile, partecipando al dibattito sulle riforme processuali in corso d’opera a partire dalle convulse iniziative “competitive” per entrare nel merito del disegno di legge delega del Governo (Atto Camera 2953/XVII) attualmente all’esame della Commissione giustizia della Camera dei deputati.
Il non volersi sottrarre a questo impegno obbliga a non dimenticare che, per la massima parte, le soluzioni ai problemi attuali della giustizia civile esorbitano del tutto dall’ambito delle modifiche normative del rito e dei riti. A prescindere dalle valutazioni di merito che pure gli interventi che abbiamo raccolto nell’obiettivo contengono.
È significativo, in proposito, ricordare che il Gruppo di lavoro sulle riforme istituito il 30 marzo 2013 dal presidente della Repubblica[1] con riferimento alla giustizia civile ha proposto: a) l’instaurazione effettiva di sistemi alternativi (non giudiziari) di risoluzione delle controversie, specie di minore entità; b) il potenziamento delle strutture giudiziarie soprattutto per quanto attiene al personale amministrativo e paragiudiziario, sgravando i magistrati da compiti di giustizia “minore”; c) la istituzione del cd ufficio del processo; d) il potenziamento delle banche dati e della informatizzazione degli uffici; e) l’adozione in tutti gli uffici delle “buone pratiche” messe in atto da quelli più efficienti; f) la revisione in un quadro unitario dell’ordinamento, del reclutamento e della formazione dei giudici di pace e degli altri magistrati onorari, anche al fine di ampliarne le funzioni.
Ambiti questi sui quali la Rivista è già intervenuta[2] o interverrà ancora nei prossimi numeri, ma sui quali il Governo, ad eccezione del campo dei sistemi di risoluzione non giudiziari delle liti, ha prodotto e soprattutto realizzato troppo poco, anche quando ha individuato la giusta direzione di intervento, come nel campo dell’ufficio per il processo ed in quello della riforma della magistratura onoraria.
Ma, tornando alle riforme processuali, non è un caso che la commissione dei saggi nulla proponeva in materia di riforme dei riti.
È noto infatti che non è il giudice che attende il maturare del singolo processo (di cui erroneamente nel ddl si ritiene necessario accelerare i tempi di progressione) ma è, invece, il processo che attende il giudice, oggi ingolfato non dalle modalità di trattazione (dei pochi ed ormai abbastanza flessibili segmenti) del singolo processo, ma dal complesso di attività decisorie interinali o finali, ma pur sempre ineliminabili che gravano sul giudicante.
Emblematici i commenti introduttivi proposti, nei rispettivi interventi sul giudizio di primo e di secondo grado, da Elena Riva Crugnola e da Giulio Cataldi critici dell’ottica scelta dal Governo nella propria relazione di presentazione del disegno di legge delega. Nella quale obiettivamente si percepisce la presa d’atto e quasi la resa al peggio dell’esistente, verso un modello ritenuto inidoneo ad introdurre strumenti di valorizzazione delle migliori pratiche.
La scelta di ritenere immodificabili le prassi peggiori non è la più realistica, come invece viene presentata dal Governo.
Non lo è perché per un verso nessun modello o assetto processuale è in grado di difendersi dalle distorsioni prodotte dalla trascuratezza del lavoro dei suoi protagonisti, dal degrado organizzativo degli uffici giudiziari, dal formalismo insensibile ai diritti in gioco.
Per altro verso la presa a riferimento, da parte del legislatore, delle situazioni deteriori e non dei suggerimenti provenienti dalle migliori prassi, lo schiera sul lato sbagliato della trincea, nell’accesa dialettica culturale tra processo dialogato con il giudice e processo trattato dalle parti in assenza del giudice.
Dunque se il processo è un momento essenziale della formazione del giudice e dell’avvocato di esso si deve valorizzare la dimensione comunicativa orale e dialogata .
Val la pena tornare a ricordare che i poteri direttivi del giudice senza il dialogo processuale diretto, vivo e serrato corrono il rischio di apparire ed esser strumenti autoritari idonei solo a produrre reazioni difensive ed impugnazioni .
Non è un fuor d’opera ricordarlo anche alla luce del precettivo impegno richiesto ai giudici dal Ministro con il progetto Strasburgo 2 per la definizione dell’arretrato.
Nasce dunque da una necessità pratica e non da riflessioni elitarie l’opportunità di ricordare che il case management deve marciare di pari passo con la formazione progressiva della decisione e che essa può maturare solo grazie alla paziente ed informata attività maieutica, perciò non solitaria, del giudice.
Negli interventi raccolti nell’obiettivo, come verificherà il lettore, l’analisi di fondo delle proposte di riforma operata dalla dottrina non è distante da quella dei giudici (con cui l’abbiamo messa a confronto): segno di una sempre maggiore convergenza della riflessione politica e culturale sul tema.
In questo obiettivo l’articolo di Remo Caponi torna a disegnare i tratti essenziali, i punti cardinali, dei modelli di processo di cognizione, anche con riferimento alle soluzioni adottate in altri Paesi: pensiamo che questo intervento sia molto utile per verificare, oggi e domani, nel corso dei lavori parlamentari la coerenza sistematica dell’intervento che si annuncia di voler attuare sul processo di cognizione di primo grado.
In questo intervento Caponi evidenzia che la tendenza prevalente a livello europeo è quella che muove verso una disciplina elastica del processo a cognizione piena che affida lo svolgimento preferibile alle determinazioni discrezionali del giudice. In questa direzione l’Autore mette in rilievo il portato della recente introduzione dell’art. 183bis cpc (convertibilità in sommario del rito ordinario) e la centralità della prima udienza secondo il modello annunciato dal Governo.
Elena Riva Crugnola nella prima parte del suo intervento, muovendo dalla negativa esperienza dell’abrogato rito societario solleva argomentate critiche, non soltanto al disegno di legge delega che in materia di processo di cognizione in primo grado si presenta obiettivamente del tutto generico, ma alle argomentazioni ed alle soluzioni contenute nella relazione di accompagnamento dalla quale si ricava una percezione non veritiera delle prassi e delle difficoltà attuali della giustizia civile di cognizione, con l’appiattimento sul peggio dell’esistente. Mentre nella seconda parte dell’articolo l’autrice si sofferma invece sulle specifiche problematiche tecniche della delega, questa sì dettagliata, nella parte in cui ha ad oggetto l’integrazione della disciplina del tribunale delle imprese.
Annamaria Casadonte propone alcune riflessioni sulla portata innovativa che dovrebbe avere la legge delega in materia di famiglia e mette in luce che il ddl istituisce, presso i tribunali ordinari, la sezione specializzata per la famiglia e la persona, cui vengono accorpate una serie di competenze già devolute al tribunale ordinario in materia di stato e capacità delle persone, ma opta per il mantenimento di alcune competenze civili in capo al tribunale per i minorenni, a discapito del principio di concentrazione delle tutele che pure il legislatore delegante si prefigge.
Domenico Dalfino, ricostruito il dibattito sulla funzione del giudizio di appello nel nostro sistema, enunciati i profili di analisi economica che dovrebbero contribuire ad orientare razionalmente le scelte del legislatore, analizza gli strumenti proposti per perseguire l’obiettivo, enunciato nel disegno di legge, del potenziamento del carattere impugnatorio dell’appello, a suo avviso da rendere «a critica vincolata fondata sui seguenti motivi: a) violazione di una norma di diritto sostanziale o processuale; b) errore manifesto di valutazione dei fatti» attraverso le due strade indicate: «la codificazione degli orientamenti giurisprudenziali» e «la tipizzazione dei motivi di gravame». Perciò propone di optare per un modello di revisio selettiva, con apertura, però, ai nova giustificati dallo sviluppo del processo in primo grado.
Giulio Cataldi sottolinea come sarebbe stato necessario, prima di proporre una nuova modifica del giudizio di appello, verificare in concreto come la riforma del 2012 stia incidendo sul complessivo andamento dei giudizi in appello con attenzione alle differenti prassi adottate nelle Corti. E nel merito della proposta evidenzia come la ulteriore chiusura di ogni spazio di rivisitazione del materiale esaminato in primo grado possa determinare un eccessivo sacrificio delle aspirazioni di giustizia sostanziale che sottendono ad ogni processo civile.
Infine riscontra una ulteriore discrasia tra legge delega e relazione laddove in entrambe si opta per la soppressione dell’inammissibilità fondata sulla mancanza di ragionevole probabilità dell’accoglimento dell’appello, ma nel ddl nulla si dice in tema di ampliamento della decisione con ordinanza.
Sulla medesima rima Piero Curzio mette in rilievo il notevole iato tra la relazione di accompagnamento e il contenuto della delega con particolare riferimento alla parte in cui si prospettano «interventi normativi per risolvere discrasie funzionali e strutturali». La sua analisi puntuale della delega segnala che le questioni poste non trovano riscontro nel testo del disegno di legge che omette di indicare principi e criteri direttivi per la loro soluzione.
Nel merito delle uniche quattro proposte di delega, queste sì dettagliate, Piero Curzio si sofferma criticamente sulle modifiche demolitive del procedimento camerale per poi suggerire l’area e le linee di intervento sulle quali concentrare gli sforzi organizzativi e, soprattutto, quelli normativi funzionali ai primi.
Giorgio Costantino, criticata la frenesia legislativa anche con riferimento al giudizio di cassazione, auspica che la disciplina del procedimento innanzi alla Corte di cassazione diventi sempre più quello che la stessa Corte determina nell’ambito dei confini segnati dalle norme generali ed astratte. Suggerisce che un contributo potrebbe essere fornito dalla previsione di un provvedimento legislativo che, annualmente, recepisca (o rifiuti) le indicazioni della giurisprudenza della Corte nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, al pari di quanto avviene con la legge europea, secondo il modello delle Rules of Civil Procedure nel processo federale americano.
Torna anche nell’intervento di Giorgio Costantino il puntuale richiamo al fatto che una prospettiva seria e realistica non possa prescindere, dai profili organizzativi del lavoro della Corte e dalle delicate questioni relative alla tecnica di redazione dei provvedimenti.
L’obiettivo ospita poi due incisivi interventi sulle riforme che hanno scosso i processi esecutivi e sulle prospettive di intervento, o non intervento, future.
Francesco Vigorito nel suo intervento ricorda che l’Italia è da sempre negli ultimi posti in Europa per l’efficacia e la durata delle procedure esecutive ma che in questo settore il legislatore, pur commettendo alcuni errori ed omissioni, ha scelto di diffondere con legge le“buone prassi” nate in alcuni uffici a legislazione invariata.
Ne è derivato un mutamento molto significativo della espropriazione immobiliare che ha raggiunto un modello processuale certamente attento alla efficacia delle procedure pur garantendo, comunque, al debitore gli strumenti per consentire un controllo sulla regolarità del processo. Nel suo intervento Vigorito individua ed analizza le criticità attuali della espropriazione immobiliare, con particolare riferimento alla vendita a prezzo ridotto ed all’assegnazione del bene al creditore.
Ma conclude affermando che la possibilità di definire una espropriazione immobiliare che abbia tempi competitivi con gli altri Paesi è legata non ad ulteriori interventi sul procedimento ma alla possibilità di utilizzare in maniera intensiva gli strumenti telematici di acquisizione di atti e documenti, di pubblicità, di alienazione dei beni. Unitamente alla necessità del sistema di garantire un più diffuso accesso al credito. In ordine alla espropriazione presso terzi Vigorito individua ed analizza le questioni controverse, in punto di competenza per territorio, di riconoscimento tacito del credito, di accertamento dell’obbligo del terzo, di pignorabilità di stipendi e pensioni, di espropriazione per “microcrediti” (in relazione alla quale propone un intervento legislativo in un ambito molto significativo per le finanze pubbliche). Mentre in ordine alla espropriazione mobiliare Vigorito suggerisce che nella realtà contemporanea essa mantiene un senso solo per beni di significativo valore economico, mentre per gli altri beni espone il creditore a spese superiori al ricavato.
Anche Vigorito auspica infine una fase di «stasi dell’intervento legislativo che consenta di mettere alla prova e di sperimentare le misure adottate, permettendo agli operatori di testarne gli esiti ed agli interpreti di placare la “perenne” ricerca di nuove letture» pur individuando analiticamente le necessità di una migliore razionalizzazione di alcuni istituti.
Sulla stessa lunghezza d’onda Bruno Capponi ricorda come dal 2005 ad oggi il processo esecutivo sia entrato in una girandola di riforme che inducono gli interpreti a temere la veemenza del legislatore. E sottolinea che non è questione solo di metodo se il Governo scegliendo il decreto-legge o la relativa legge di conversione, o ancora la legge di stabilità, opta per provvedimenti che, per il loro serrato corso parlamentare, non consentono un esame approfondito dei contenuti.
Nel merito l’articolo di Bruno Capponi da una parte si sofferma, definendoli una complicazione travestita da semplificazione, sui ripetuti interventi in materia di espropriazione presso terzi all’esito dei quali la parte che si intendeva favorire, il creditore procedente, assume una posizione processuale di gran lunga più gravosa d’un tempo.
Dall’altra si preoccupa del fatto che l’esecuzione si presenta come un groviglio indistinguibile di cognizione ed esecuzione, dove sempre più il g.e. è chiamato a utilizzare, nella sua attività “esecutiva”, i dispositivi appresi nell’esercizio della giurisdizione dichiarativa. E avverte il rischio che il giudice dell’esecuzione si senta «agente dell’esecuzione soltanto preoccupato della tutela competitiva del credito» e non anche interprete, attento alle garanzie del processo.
Chiudono l’obiettivo di Questione Giustizia sulle riforme processuali civili due articoli sul Processo civile telematico.
Si tratta di una scelta che vuole raccordare la riflessione sul modello di processo, inteso come modello di trattazione e decisione della causa, a quella sul modello di gestione, attraverso strumenti informatici e telematici, dei flussi di dati tra i soggetti che operano nel processo. Un raccordo tra strumenti tecnologici (ed ancor prima tra strumenti di organizzazione del processo) e modello di processo del tutto mancato nella riflessione del legislatore del processo civile.
De Santis evidenzia in particolare le connessioni correnti tra le modalità di formazione degli atti di parte e dei provvedimenti, le forme di trasmissione e acquisizione della conoscenza legale di atti e provvedimenti e si sofferma sulla criticità che presenta il sistema delle fonti del PCT che nascono in particolare dal difficile connubio tra regola processuale e regola tecnica che ha prodotto talvolta interpretazioni tese ad affermare nuove e sconosciute forme di inammissibilità/nullità degli atti o del procedimento a fronte dell’inosservanza di regole contenute nelle specifiche tecniche.
Con il rischio paradossale della creazione di un sistema «meno efficiente di quello basato sulla carta, perché soggetto ad incagliarsi nella risoluzione di questioni procedurali generate dal cd neo-formalismo processual-tecnologico». Cui si aggiunge il rischio di disomogeneo sviluppo del PCT, dimostrato anche dall’eterogeneità delle soluzioni fornite nella prassi. De Santis spiega anche come il modello del PCT sia individuato dal legislatore e dal Governo come paradigma dell’impulso alla innovazione tecnologica del processo penale, contabile ed amministrativo.
Infine merita particolare attenzione la riflessione di De Santis in relazione al disegno di legge delega per la parte concernente il PCT, in particolare in relazione alla semplificazione di atti e provvedimenti, non «come semplice riconsiderazione della lunghezza dell’atto». Così come la merita il monito finale ad adeguare gli strumenti di sostegno organizzativo (al giudice ed alle cancellerie) a tale faticoso ed ambizioso progetto di innovazione: importante, ma inadeguato all’obiettivo anche per De Santis, deve ritenersi l’apporto fornito attualmente dagli stages formativi.
È proprio la visione, ambiziosa e realistica insieme, di Pasquale Liccardo il modo migliore per concludere la riflessione dell’obiettivo .
Nel suo intervento il nesso tra innovazione tecnologica e processi reali che investono il diritto nel mondo contemporaneo è rappresentato chiaramente come biunivoco.
Per un verso, infatti Liccardo mette in luce come attraverso la sedimentazione tecnologica della nuova esperienza giurisprudenziale e più in generale giuridica, si può meglio perseguire il «ritorno del diritto al fatto»che nell’epoca dell’incertezza rischia di non venir più riconosciuto dalla disposizione normativa; questo è il ruolo «di veicolo cognitivo dinamico» che il processo civile telematico può assumere.
Per altro verso le tecnologie del processo telematico assumono una loro propria rilevanza per la capacità che dimostrano di stabilire una più forte interazione dei valori costituzionali in funzione dell’ampliamento dei confini della tutela dei diritti .
In questo percorso Liccardo rappresenta le differenti stagioni del processo telematico: la prima quella dell’”analogismo tecnologico”, meramente riproduttiva delle relazioni processuali definite dal codice e dalle regole d’organizzazione sottostanti. Di questa epoca, di cui il legislatore è stato protagonista e vittima Liccardo individua puntualmente i gravi limiti nel deperimento del valore sociale di attività essenziali della relazione processuale e organizzativa tra i protagonisti del sistema: oggi il fascicolo ma domani, aggiungiamo noi, l’udienza.
Una seconda fase in cui la potenza di calcolo è valorizzata in termini economici e quantitativi: i risparmi, i rendimenti e così via, in cui la ragione finale si disperde in una serie di obiettivi economici privi di senso unitario.
E poi una terza, quella di fronte a noi, in cui l’espansione della potenzialità cognitiva delle tecnologie, producendo la diffusione rapidissima delle conoscenze insieme ad una elevata tempestività di riflessione, anche organizzativa, di ciascuna struttura realizza una diversa qualità ed effettività del risultato del sistema. Attraverso modalità che consentirebbero la costante rappresentazione, anche all’esterno, degli orientamenti assunti dagli uffici giudiziari, la conoscenza e lo studio anche dei precedenti occulti, il superamento della superiorità tra sentenze motivate in diritto e sentenze motivate in fatto, lo studio multidisciplinare della litigiosità con strumenti di lettura ben più sofisticati di quelli attuali e così via .
Strumenti in grado di attrezzare nuovamente il dialogo processuale e l’udienza che di esso può tornare ad essere la sede principale
Strumenti in grado di rendere, nell’epoca dell’incertezza, i passi della giurisdizione più consapevolmente orientati, ma non meno liberi di cogliere il cambiamento promosso dalla nostra inesauribile Carta costituzionale.
L’intero obiettivo ci pare indicare la strada per integrare e correggere l’impostazione del Governo nel solco dei principi costituzionali che orientano la disciplina del processo ma, ancor prima, verso l’espansione non la riduzione della tutela dei diritti.
Riqualificare la domanda e la risposta della giurisdizione civile è ancora possibile ed in parte già in atto.
Due binari di intervento sono ancora indietro: la riorganizzazione e le risorse necessarie ad essa in primo luogo, ma anche gli interventi di politica del diritto e le scelte di diritto sostanziale per eliminare lacune e ridondanze del sistema.
(articolo tratto dal n.4/2015 della rivista trimestrale / SCARICA IL NUMERO)
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[1] Relazione finale del Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali, nominato il 30 marzo 2013 dal presidente della Repubblica, composto da Mario Mauro, Valerio Onida, Gaetano Quagliariello, Luciano Violante
[2] In questa Rivista n.1/2015, Obiettivo 3: La risoluzione amichevole dei conflitti, in http://www.questionegiustizia.it/rivista/2015-1.php.