Magistratura democratica
Diritti senza confini

Il radicamento in Italia come prova del bisogno di protezione e come impedimento al rimpatrio

di Paolo Morozzo della Rocca
ordinario di diritto privato, Università per stranieri di Perugia

Ancora un commento a Cass., Sez. Unite, n. 24413/2021: protezione umanitaria e diritto alla vita privata

1. La vicenda

Alla base della decisione in commento v’è il ricorso del Ministero dell’Interno per la cassazione della sentenza con cui la Corte d'appello di Milano aveva riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria a un richiedente asilo già denegato.

La corte d'appello aveva in effetti ritenuto che il rimpatrio del ricorrente nel Paese d'origine avrebbe comportato la perdita di «opportunità apprezzabili sotto un profilo etico-giuridico» in quanto l'appellante aveva dimostrato una buona capacità di inserimento anche lavorativo in Italia mentre in caso di rimpatrio non avrebbe potuto godere di «apprezzabili prospettive di vita» e ciò lo avrebbe esposto a «trauma emozionale» e a un forte rischio di «estrema vulnerabilità».

La difesa erariale ha dedotto, in particolare, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 32 e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, - nel testo, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche poi recate dal decreto L. 4 ottobre 2018, n. 113, perché il riconoscimento della protezione complementare sarebbe avvenuto sulla base di presupposti non contemplati dalla disciplina della materia, quali l'inserimento sociale e lavorativo raggiunto in Italia e la possibilità di godere di prospettive di vita migliori rispetto a quelle realizzabili nel Paese di origine[1]. Nel fare ciò il giudice dell’appello avrebbe dunque mancato di «accertare in concreto e puntualmente la situazione oggettiva e soggettiva dello specifico richiedente nel Paese di origine» al fine di verificare se davvero il suo eventuale rimpatrio avrebbe comportato una privazione del nucleo ineliminabile dei diritti umani. 

Nel rimettere la questione alle Sezioni unite l’ordinanza chiede di valutare se, sulla base della disciplina all’epoca applicabile, l’accertamento dell’effettivo radicamento giustificasse la protezione dal rimpatrio in ragione di un giudizio prognostico riguardo alla probabile vulnerabilità dovuta alla compromissione del diritto alla vita privata e/o familiare ex art. 8 CEDU che si sarebbe potuta venire a creare con l’allontanamento dall’Italia, ponendo in secondo piano, nello svolgimento della valutazione comparativa, il quadro più generale della situazione del paese di origine.

Sembrano intrecciarsi nel ragionamento complessivamente svolto dal Ministero dell’Interno ricorrente due questioni: una prima questione, per così dire, di diritto intertemporale; e una seconda questione riguardante l’interpretazione della norma applicabile alla fattispecie ratione temporis. 

Già di primo acchito pare tuttavia a chi scrive che la seconda questione finisca con l’oscurare la prima in quanto (messa da parte la perniciosa parentesi costituita dal periodo di vigenza del d.l. n.113/2018) ad avere innovato l’istituto della protezione umanitaria, cui poi è succeduta la “protezione speciale” è stata soprattutto l’interpretazione fattane dalla giurisprudenza, ancor prima delle successive e pur rilevanti modifiche apportate dal legislatore nel dicembre 2020, il cui principale merito è quello di avere restituito almeno in parte alla sua perduta ampiezza di “catalogo aperto”, sia pure con alcune significative modifiche, la preesistente protezione complementare. 

 

2. L’interpretazione giurisprudenziale del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6

Come è noto, respingendo l’opinione secondo cui la valutazione del giudice dovesse cristallizzarsi sulle ragioni della domanda di protezione (ed avere quindi riguardo solo alla precedente biografia del richiedente asilo) la giurisprudenza ha invece ritenuto rilevante la sua condizione di vita e dunque il suo bisogno attuale di protezione nel momento dello scrutinio da parte del giudice.

È dunque riguardo a questo successivo momento che il giudice deve valutare se tra il contesto di vita attuale del richiedente e quello che lo attenderebbe nel Paese di origine vi sia una tale sproporzione da dover considerare il suo eventuale rimpatrio incompatibile con il mantenimento di una vita dignitosa o se comunque vi sia un rischio grave che ciò accada in relazione alle sue attuali o prevedibili vulnerabilità[2]. Tale comparazione non riguarda dunque le condizioni generali di vita nel Paese di origine ma le condizioni nelle quali si verrebbe a trovare il richiedente una volta rimpatriato[3].

Considerati i due termini della comparazione non in bilanciamento dinamico tra loro, ma come due requisiti concorrenti ed entrambi necessari per il riconoscimento della protezione complementare, alcune pronunce in passato hanno talvolta sminuito il fatto dell’ottima integrazione raggiunta a causa della indimostrata vulnerabilità nel Paese d'origine, senza però adeguatamente considerare quanto la sproporzione tra l’attuale condizione di vita e quella alla quale il rimpatriato sarebbe destinato costituisca un sopraggiunto fattore di vulnerabilità[4]

È andato tuttavia prevalendo un diverso orientamento (cui pure la sentenza in commento appartiene rafforzandolo) fondato sul principio della cosiddetta "comparazione attenuata", alla cui stregua se maggiore è la vulnerabilità del richiedente, minore sarà il rigore col quale andrà valutata la situazione oggettiva del Paese di rimpatrio[5]

Va ancora più in là l’ordinanza di rimessione che ha portato alla decisione in commento, ivi sostenendosi che la vulnerabilità non dovrebbe neppure essere oggetto di una prognosi comparativa, sia pure attenuata, dovendola ravvisare in re ipsa nella «compromissione del diritto alla vita privata e/o familiare ex art. 8 CEDU derivante dallo sradicamento dello straniero che dimostri di essersi qui radicato», a nulla più rilevando la situazione che egli troverebbe nel suo Paese di origine[6].

 

3. La risposta delle Sezioni unite

Le Sezioni unite, esclusa l’applicabilità alla fattispecie dell’ultima disciplina sopraggiunta, escludono anche di dovere rivisitare l’istituto previgente della protezione umanitaria «alla stregua di una interpretazione storico-evolutiva basata sulla disciplina recata dal D.L. n. 130 del 2020». 

Ciò consente loro di ribadire il principio già espresso nel 2019, secondo cui non deve essere considerato, isolatamente e astrattamente, il livello di integrazione raggiunto in Italia dal richiedente, né tanto meno il diritto alla protezione complementare «può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza»[7].

Posti questi primi punti fermi, la decisione in commento ripercorre poi le ragioni poste a fondamento dell’ineliminabile criterio della comparazione, delineando i tratti cui questa deve attenersi, ma forse anche preconizzando una pur parziale e tuttavia persistente validità di tale criterio nel nuovo e più favorevole quadro disciplinare aperto dal d.l. n.130/2020[8].

Notano infatti le Sezioni unite che il fine della comparazione risiede nel rispetto dei diritti fondamentali sanciti dalle Carte sovranazionali e dalla Costituzione, il che conduce tra l’altro a valorizzare, come poi esplicitato normativamente dal d.l. n. 130 del 2020, il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all'art. 8 CEDU, quale prerequisito di una vita dignitosa, vale a dire di quel diritto alla dignità umana e sociale che la stessa Costituzione, segnatamente agli articoli 2 e 3 Cost. tutela con un’efficacia attestata anche di recente da importanti decisioni della Consulta[9].

Si tratta di un passaggio rilevante perché collocato là dove si confrontano due itinerari interpretativi diversi, il primo dei quali muove da una concezione molto ampliata del diritto alla vita privata rispetto a quella accolta dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; e ciò al fine di sottrarre la decisione sulla protezione speciale di cui al d.l. n.130/2020 alla valutazione comparativa tra le condizioni di vita in Italia e quelle attese nel paese dell’eventuale rimpatrio, sostenendo che «una volta ravvisata l’esistenza di un rischio di violazione della vita privata o familiare del richiedente in seguito all’allontanamento, la vulnerabilità è in re ipsa e non deve (più) essere accertata attraverso quel giudizio comparativo che, invece, era necessario quando, in assenza della previsione ex lege, trovava applicazione la protezione atipica»[10].

L’itinerario a questo alternativo è invece quello di mantenere una più marcata distinzione tra la valorizzazione del processo d integrazione avviato dal richiedente asilo – tale da costituire comunque un elemento di peso nel procedimento di comparazione attenuata – e la tutela della vita privata e familiare, pur nella consapevolezza che la vita privata non è un bene acquisibile di colpo al termine di una sedimentazione nel tempo (similmente al maturarsi dell’usucapione) bensì una dimensione già progressivamente rilevante nel procedimento di comparazione attenuata richiesto al giudice.

In questo secondo ordine di cose pare collocarsi l’utile rilettura che la sentenza in commento fa dell’integrazione sociale realizzata dal richiedente, sottolineando come questa non costituisca «una condicio sine qua non della protezione umanitaria, bensì uno dei possibili fatti costitutivi del diritto a tale protezione»; e ciò all’esito di un procedimento di comparazione a proporzionalità inversa.

A questo riguardo le Sezioni unite, ai paragrafi 46 e 47, delineano a loro volta due possibili itinerari entrambi espressivi di tale procedimento ma riguardanti fattispecie concrete tra loro diverse.

Secondo un primo itinerario, tanto più il contesto personale nel paese di origine si rivela oppressivo (per la deprivazione dei diritti fondamentali e la mancanza delle condizioni minime per poter soddisfare i bisogni e esigenze ineludibili della vita personale, tra cui il sostentamento e il raggiungimento dei livelli minimi per un'esistenza dignitosa) tanto meno vi sarà uno scrutinio esigente del «grado di integrazione del richiedente in Italia», sino addirittura al punto di non attribuirgli alcuna rilevanza a fronte di una gravità del contesto tale da richiedere comunque una protezione sulla base di altri riferimenti normativi (che le Sezioni unite non qualificano ma che potrebbe essere quella della protezione internazionale o quella prevista nei permessi di soggiorno per casi speciali, come nel caso del permesso di soggiorno per calamità).

Un diverso scenario si compone seguendo il secondo itinerario proposto dalla giurisprudenza e ben riaffermato dalla sentenza in commento. Qui accade infatti che più il richiedente ha maturato un livello elevato d'integrazione nel nostro Paese (lavoro, abitazione, integrazione scolastica dei figli, vita associativa, ecc.), meno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine assumeranno importanza. 

In tal modo le Sezioni unite non intendono affatto evitare il bilanciamento tra i due contesti di vita, in Italia e nell’eventuale Paese di rimpatrio ma, con grande ragionevolezza, dinamizzano detto bilanciamento sulla base sia dell’effettivo godimento delle libertà e dei diritti fondamentali da parte del richiedente sia delle possibilità di preservare tali diritti e libertà nel Paese di origine.

Potrebbe quest’ultima situazione apparire come una versione giurisdizionale della parabola evangelica dei talenti (a chi più ha, più sarà dato… A chi non ha sarà tolto anche quello che ha). Ma l’analogia tra la narrazione giuridica e quella evangelica, per quanto suggestiva e non del tutto irrealistica, va in realtà presa con cautela, rammentando che gli itinerari proposti dalla giurisprudenza di legittimità e ribaditi ora dalle sezioni unite nello svolgimento del bilanciamento dinamico di cui si è detto si muovono su una corda tenuta tesa dai suoi due capi, tra i quali possono quindi darsi diversi punti di equilibrio.

Sembra ad esempio collocarsi in una posizione mediana tra detti capi quella riguardante i portatori di particolari fragilità personali di partenza, in ragione delle quali per un verso è giustificabile un minore livello di integrazione già acquisita (anche se, piuttosto, andrebbe valutato un diverso modello di integrazione adeguato alle possibilità reali della persona fragile) e per altro verso è però più elevato il rischio di un pregiudizio alla dignità della persona in caso di rientro nel paese. 

Parliamo qui di possibili fragilità di partenza del richiedente asilo e non di quella maggiore vulnerabilità che conseguirebbe all’eventualità del rimpatrio del soggetto che abbia ormai acquisito un certo grado di inserimento sociale grazie certamente al proprio impegno, ma anche, evidentemente, al possesso di abilità e competenze di base nel frattempo emerse (una sorta quindi di vulnerabilità prodotta dalla virtù dell’interessato)[11]

Si pensi, ad esempio, ai casi nei quali l’attuale disciplina del permesso di soggiorno per cure mediche (rilasciabile per la durata di sei mesi – un anno) non riesce a dare adeguato riconoscimento all’attaccamento territoriale – quindi al bene della vita privata – dell’interessato. 

Il tema travalica quello delle richieste di asilo, potendo trovare conferma anche in situazioni di più lungo soggiorno in Italia. È da chiedersi, ad esempio, quali “indici duri” di integrazione da bilanciare con la situazione nel Paese di origine possa dimostrare un cittadino marocchino (Paese considerato “democratico”) affetto da grave disagio psichico che ne abbia comportato la progressiva emarginazione dal mercato del lavoro. 

Potrebbe il sostegno offertogli in loco e la sua adesione a tale sostegno valergli il riconoscimento della protezione complementare a fronte del danno grave che comporterebbe il suo rimpatrio in Marocco a causa della sua accentuata vulnerabilità e della perdita dei suoi riferimenti di cura e di sussistenza? 

Una risposta positiva sembra resa possibile dalla decisione in commento, alla cui stregua, come è stato osservato, il radicamento sul territorio non è rilevante solo in termini di integrazione lavorativa ma comprende le diverse dimensioni della vita privata[12].

 

4. Quanto è rilevante l’individuazione della norma applicabile ratione temporis?

Benché sapientemente esaminata dalle sezioni unite, la questione della norma applicabile ratione temporis sembra poter essere relativizzata, non certo riguardo all’ovvia esigenza di individuare la norma applicabile alla fattispecie, ma con riferimento al concreto impatto di detta individuazione sulla effettiva ratio decidendi fatta propria dal giudice del merito. E ciò in ragione del modo in cui si reputa che, riguardo alla norma previgente al d.l. n.113/2018, debba svolgersi il bilanciamento dinamico tra i due possibili contesti di vita del richiedente, dato che a fronte di una integrazione riuscita nella società italiana il contesto di vita atteso in caso di rimpatrio, che il ricorrente avrà cura di ben rappresentare al giudice, difficilmente assumerà un prevalente e opposto peso nel bilanciamento da compiere, a meno che quel paese non risulti adeguatamente rispettoso della dignità umana e sociale del richiedente protezione, secondo gli standard desumibili dalle Carte dei diritti e dalla Costituzione; standard però irraggiungibili in molti dei paesi di provenienza e nella maggior parte dei più soggettivi destini in loco dei richiedenti.

D’altra parte l’esigenza di operare un bilanciamento riguardo ai due possibili futuri contesti vitali del ricorrente si pone anche nel caso della protezione sociale di nuovo conio. 

Merita in effetti osservare che la principale novità - costituita dal formale e dunque esplicito ingresso tra i diritti tutelati della vita privata, oltre che familiare, del richiedente la protezione speciale - dà luogo essa stessa, per sua propria esigenza costitutiva, ad una inevitabile procedura di bilanciamento, trattandosi di un diritto da apprezzare sula base della proporzionalità dell’interferenza nella sfera della vita privata riguardo alle legittime finalità perseguite dalle pubbliche autorità.

Ciò basterebbe forse a suggerire di considerare il modello di “comparazione a proporzionalità invertita” ricostruito dalle sezioni unite come un utensile da non relegare ai soli rimanenti casi ancora ricadenti nella normativa previgente al d.l. n.113/2018, senza con ciò volerlo imporre in ogni situazione. 

Vi sono in effetti casi che, richiedendo la tutela dei diritti alla vita privata e alla vita familiare, spesso tra loro intrecciati, rifuggono da qualsiasi possibilità di una effettiva comparazione con il contesto di vita nel Paese di origine, se non nel senso di dovere osservare che il richiedente non ha con esso alcun legame comparabile con quello che lo riferisce all’Italia.

Ed è forse proprio riguardo a tali casi che la nuova disciplina della protezione speciale, se per un verso risulta teoricamente meno ampia nelle sue potenzialità rispetto alla “vecchia” figura della protezione umanitaria sino alla sua cancellazione da parte del d.l. n.113/2018, per altro verso consente tuttavia una maggiore agibilità in via amministrativa, fermo restando che una corretta esegesi della normativa previgente al d.l. n.113/2018 avrebbe portato almeno ai medesimi risultati sia per via dell’immanenza anche in tale disciplina, in ragione del richiamo agli obblighi derivanti dalla Costituzione, del diritto alla vita privata, sia per le possibilità di utilizzo di una formula non traslata nel nuovo e attuale conio della protezione speciale: parliamo del riferimento «ai seri motivi in particolare di carattere umanitario»[13]

Solo per citare una vicenda realmente postasi, è questa la situazione di una giovane straniera ventisettenne, proveniente da un paese democratico e sufficientemente sicuro, nel quale però non ha mai vissuto a seguito del suo arrivo in Italia all’età di cinque anni. 

Perduta la regolarità del soggiorno a causa del mancato rinnovo del permesso di soggiorno per studio, sotto la vigenza del d.l. n.113/2018 questa giovane donna avrebbe solo potuto chiedere la protezione internazionale, abborracciando un’improbabile narrazione e predisponendosi (a causa dell’abolizione della clausola aperta sulla protezione umanitaria) a far valere in giudizio il suo diritto al rispetto della vita privata dopo avere ricevuto l’inevitabile (almeno in teoria) diniego della protezione internazionale. 

Oggi invece questa giovane donna cresciuta in Italia può chiedere direttamente al Questore il rilascio del permesso per protezione speciale (ove invece non voglia comunque rivolgersi alla Commissione per l’asilo) allegando la documentazione del suo lungo soggiorno in Italia. 

 

5. Sul distacco dello scrutinio giurisdizionale dalla fondatezza o meno del diniego adottato dall’autorità amministrativa

Non v’è dubbio, a mio parere, che il diritto alla protezione internazionale, così come il diritto alla protezione complementare, preesista al suo riconoscimento da parte dell’autorità preposta (amministrativa o giudiziaria) il quale ha dunque natura accertativa e non costitutiva.

Tuttavia, riguardo in particolare alla sorte della richiesta presentata alla Commissione per il riconoscimento dello status di protezione internazionale e da quest’ultima considerata infondata, il fatto generatore del diritto alla protezione potrebbe inverarsi anche successivamente allo scrutinio svolto in via amministrativa, legittimando una nuova domanda meritevole di essere accolta sulla base della valutazione dei nuovi elementi.

Più di frequente accade però che detti elementi siano invece posti direttamente all’attenzione del giudice da parte dell’interessato ricorrendo contro il diniego amministrativo della protezione. 

Il tribunale civile infatti non è giudice dell’impugnazione dell’atto e dunque non deve limitarsi a valutarne la legittimità o l’illegittimità, ma è giudice dello status e può quindi valutare gli elementi successivi al provvedimento sfavorevole. Ed in effetti è piuttosto frequente il riconoscimento giudiziale della protezione complementare all’esito di un giudizio di comparazione i cui elementi sono per lo più formati da comportamenti e fatti successivi al diniego della protezione da parte della Commissione preposta, delineando il buon livello di integrazione nel frattempo raggiunto dal ricorrente. 

Ne consegue che il tribunale è giudice sia dello status preesistente alla domanda di riconoscimento in via amministrativa sia dello status di titolare di protezione speciale venuto in essere successivamente al suo accertamento negativo, sempre in via amministrativa.

Proprio questo è il punto su cui altri hanno talvolta espresso riserve, sottolineando il rischio che in tal modo si generi una dinamica degenerativa dei procedimenti per il riconoscimento dello status di protezione internazionale, rendendone desiderabile la lentezza dal punto di vista del richiedente asilo giunto in Italia senza avere i requisiti per l’eleggibilità della sua domanda di protezione. 

Infatti più la filiera procedimentale si mostrerà inefficiente, dilatando i tempi della risposta in via amministrativa e successivamente in via giurisdizionale, più egli avrà tempo (e quindi modo) di inserirsi in Italia e dunque di sanare l’originaria infondatezza della domanda in virtù di meriti acquisiti successivamente[14].

Tali riserve muovono da un’osservazione esatta (e persino banale) della realtà. È infatti evidente che nella pur irrealistica ipotesi che l’intera filiera dello scrutinio amministrativo e giurisdizionale fosse ridotta a poche settimane e i richiedenti asilo in quel breve tempo fossero trattenuti dal sistema di accoglienza ai margini della società, sarebbe difficile valorizzare la loro volontà e capacità di integrazione, sicché il giudice potrebbe limitarsi a valutare le sole vicende e vulnerabilità intervenute prima dell’arrivo in Italia così come esse gli vengono riferite e (sia pure con un onere probatorio attenuato e con la doverosa cooperazione dello stesso giudicante) dimostrate.

Tuttavia – anche a prescindere dai gravi rischi di violazione dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo che tale ipotetico scenario porrebbe se davvero si avverasse[15] - le riferite riserve possono essere comprese ma non certo condivise per due ordini di ragioni: perché sfugge loro la molteplicità delle fattispecie concrete sussumibili nella fattispecie astratta della “protezione speciale” e soprattutto perché sembrano travisare il senso della valorizzazione giurisprudenziale – ed infine anche legislativa – dell’integrazione sociale realizzata dal richiedente asilo successivamente alla sua domanda.  

Riguardo alla prima obiezione, l’interprete deve a mio parere guardarsi dal ridurre la protezione speciale alla platea, pur numerosa, dei richiedenti asilo meritevoli di protezione internazionale. Infatti sino all’entrata in vigore del d.l. n.113/2018 la protezione umanitaria, ai sensi del vecchio testo dell’art.5, comma 6, t.u.i., poteva anche essere richiesta direttamente al Questore per motivi vari e diversi, benché agli interessati convenisse comunque formularne la domanda direttamente (e impropriamente) alla Commissione per il riconoscimento dello status di protezione internazionale (avendo così accesso ad un permesso di soggiorno di due anni anziché di uno e sottraendosi alla valutazione, spesso meno attenta e meno benevola, del questore).  

Ma ora anche nell’attuale cornice disciplinare la protezione speciale, pur costituendo un’unica figura di protezione, può essere attivata seguendo i due diversi percorsi della richiesta diretta al questore e della domanda di asilo. 

Ciò è coerente, a mio parere, con il carattere “uno e trino” che la protezione speciale (termine che, al pari del resto dell’aggettivo “complementare”, pare inidoneo a riassumere la molteplicità delle sue possibili applicazioni) indubbiamente eredita dalla “vecchia” protezione umanitaria[16]

Accade dunque abbastanza spesso che l’intervenuta integrazione in Italia e l’esigenza di evitare lo sradicamento dal nostro Paese violando il diritto alla vita privata e familiare dello straniero si atteggino come fatti precedenti e non già successivi alla domanda di protezione (speciale oggi, umanitaria ieri).

Riguardo invece a coloro che chiedono asilo subito dopo essere giunti in Italia (i quali rappresentano, da sempre, solo una parte del totale dei richiedenti) è opportuno distinguere il caso di coloro che chiedono di vedere riconosciuti i loro diritti e libertà fondamentali così come vengono assicurati dalla nostra Costituzione (art.10, comma 3, Cost.) o come risultano dalle Carte del diritto sovranazionale e internazionale, dalla diversa posizione di chi invece chiede il rispetto della vita privata e familiare.

A mio parere, benché ciò non risulti sempre evidente nel diritto vivente, solo per i primi l’integrazione in Italia (il cui contenuto è ben più variegato del solo reperimento di un lavoro) potrebbe essere considerata, alla stregua di altri possibili riscontri probatori, quale indice del fatto che la negazione (di diritto o di fatto) nel Paese di origine di uno o più tra i diritti sopra richiamati sia tale da incidere in concreto sulla personalità del richiedente negandogli quella dignità sociale di cui quest’ultimo chiede il riconoscimento.

Una prova, se si vuole, necessariamente prodottasi dopo la formulazione della domanda di protezione ma comunque capace di conferirle, sia pure ex post, una maggiore credibilità.

Come è noto, infatti, la provenienza da un paese che calpesta i diritti umani (e mutatis mutandis ciò vale anche riguardo a tutti i diritti e le libertà cui fa riferimento, per relationem, l’art.10, comma 3, Cost) non comporta di per sé stessa il sorgere di un autentico bisogno di protezione internazionale, occorrendo che il richiedente sia stato vittima o corra in concreto il rischio di essere vittima di tali violazioni, o comunque di correre un grave rischio di danno grave alla sua persona.

Analogamente, quindi, si potrebbe affermare che il fatto che nel paese di provenienza non sia assicurata una vita degna non porti automaticamente al riconoscimento della protezione speciale se il richiedente in concreto non aspiri a una vita degna e non dia qualche dimostrazione in tal senso, almeno fornendone apprezzabili indizi. 

Ebbene, avere affermato con il proprio comportamento in Italia il desiderio di una vita degna pare un comportamento probante la concreta vittimizzazione dello straniero nel caso del suo rientro in un paese dove tale desiderio in concreto, data la sua particolare condizione, non sarebbe più realizzabile.

Diversa è invece la posizione di coloro che chiedano direttamente il rispetto della loro via privata, per i quali il radicamento in Italia costituisce già di per sé il bene di cui si chiede protezione e riguardo al quale la valutazione comparativa descritta dall’art.19, comma 1.1. non è altro che un momento di verifica della sussistenza del diritto di cui si chiede la protezione: non può infatti ritenersi lesa la vita familiare dello straniero se questi ha mantenuto i suoi prevalenti affetti nel Paese del rimpatrio, così come non è lesa la sua vita privata se il soggiorno in Italia è stato relativamente breve e povero di attaccamento sociale.   

 

6. Lo scrutinio sulla protezione speciale come valutazione sulla legittimità del rimpatrio

V’è però un’ulteriore e decisiva ragione per la quale il vissuto in Italia, successivamente alla richiesta di protezione, assume rilievo, in quanto il giudice, nel valutare se lo status di protezione sussista oppure no, deve in realtà valutarne le possibilità di rientro nel paese di origine. Sembra quindi essere quest’ultimo, in fin dei conti, il vero orizzonte di senso della cosiddetta “comparazione a proporzionalità invertita” su cui anche la sentenza in commento si concentra. 

Il giudice della protezione complementare infatti anticipa e talvolta evita con il suo giudizio l’eventuale successiva procedura di espulsione. 

L’indissolubile nesso tra il diritto di soggiorno derivante dal riconoscimento della protezione complementare e la protezione dal rimpatrio lesivo del diritto a una vita degna (secondo la formulazione di sintesi, decisamente suggestiva, suggerita dalla sentenza) risulta del resto, sia pure in autonomia rispetto alla sua restaurata collocazione all’art.5, comma 6[17], dalla stessa collocazione e dalla formulazione dell’istituto della protezione speciale all’interno dell’art.19, t.u.i, (Divieti di espulsione e di respingimento. Disposizioni in materia di categorie vulnerabili) ove al comma 1.1. detta protezione è riferita agli stranieri dei quali è inammissibile il «respingimento o l’espulsione o l’estradizione»[18]

Ne consegue a mio parere che il giudice oggi non potrebbe negare la protezione speciale sulla base del fatto che la domanda di protezione umanitaria sia stata presentata nel vigore di una precedente e meno favorevole disciplina, dato che la richiesta comprende in sé l’accertamento dell’inammissibilità del rimpatrio, il quale non potrebbe che essere operato sulla base della disciplina successivamente entrata in vigore in quanto disciplina ratione temporis del provvedimento di rimpatrio.

Un ragionamento questo che vale anche nel caso in cui la richiesta formulata al giudice, con riguardo ai casi ricadenti nella disciplina introdotta dal d.l. n.113/2018[19], dovesse essere quella del riconoscimento diretto dell’asilo costituzionale di cui all’art.10, comma 3 Cost.[20]

In virtù di questa stessa logica, ma con effetti opposti, potrebbe invece accadere - guardando ad un ipotetico e non auspicabile futuro – che ad essere più favorevole tra le discipline succedutesi nel tempo possa un giorno essere quella previgente (in quanto in vigore al tempo della domanda). In tale caso, diversamente che in quelli poc’anzi ipotizzati, la domanda alla quale il giudice dovrà fornire risposta non potrà essere quella relativa alla legittimità o meno del rimpatrio ma quella relativa alla legittimità o meno del diniego della protezione valutata ora per allora (cioè riguardo alla norma applicabile al momento del provvedimento di diniego). 

Dunque sarebbe la mancata o erronea applicazione al caso di specie della normativa precedente a determinare ora per allora il riconoscimento dello status richiesto, salvo valutare successivamente in via amministrativa l’eventuale sua revoca ex nunc, cui potrebbe seguire il mutamento del titolo che legittimi la permanenza dello straniero in Italia, ad esempio perché regolarmente occupato, oppure il suo allontanamento, spontaneo o forzato.

 

7. Dopo le Sezioni unite

La sentenza in commento offre all’interprete spunti di riflessione interessanti riguardo all’attuazione nell’ordinamento dell’asilo degli articoli 2; 3, comma 1; e 10, comma 3, Cost. 

Parrebbe in particolare dover rimanere centrale, nello scrutinio riguardante il riconoscimento o meno della protezione speciale, il criterio della cosiddetta comparazione attenuata, la quale non smetterà, anche nel vigore dell’attuale disciplina, di svolgere la sua funzione di specificazione dei beneficiari della protezione, assicurandola a coloro che non solo provengono da un paese irrispettoso dei diritti umani e delle libertà democratiche ma ne hanno in concreto sofferto la privazione o comunque ne soffrirebbero troppo gravemente in caso di rimpatrio a causa della loro personalità, della loro particolare vulnerabilità o dello stile di vita ormai assunto.

L’esplicito richiamo da parte della norma alla tutela della vita privata e familiare rafforza però la consapevolezza nell’interprete che la protezione speciale è dotata di un ambito di applicazione ben più ampio di quello riguardante i soli richiedenti asilo. Specie tra coloro che si trovano già in Italia da lungo tempo, la protezione speciale sembrerà poter fare a meno del procedimento comparativo sin qui descritto, in quanto la loro lunga biografia italiana li candida al riconoscimento del loro diritto di soggiorno in quanto essenziale al rispetto del diritto alla vita privata e familiare.

Ma a ben vedere anche il diritto alla vita privata – essa pure situazione giuridica soggettiva a compasso largo - richiede per la sua concreta tutela comparazioni e bilanciamenti, sia pure in un senso diverso. 

Tale necessità non appare certo evidente in casi come quello già poc’anzi segnalato della giovane donna venuta bambina in Italia; ma riemerge con più forza nella valutazione di casi più ordinari. 

Riterrei ad esempio che un quarantenne giunto in Italia a vent’anni possa anch’egli vantare un diritto alla vita privata incompatibile con il suo rimpatrio a fronte di scarse o nulle possibilità di reinserimento nell’eventuale Paese di rimpatrio (un dato questo, per sua natura comparativo) dovendo però l’interprete stabilire se questo suo diritto debba soccombere oppure no di fronte all’applicazione delle norme sul permesso di soggiorno e all’esigenza di assicurare l’ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini (realizzandosi qui un bilanciamento tra interessi di tipo conformativo del diritto alla vita privata). 

Potrebbe ad esempio prevalere il diritto alla vita privata se all’ovvia condizione di marginalità derivante dalla mancanza dell’autorizzazione al soggiorno (perduta o mai acquisita) corrisponda però una rete di sostegno e una buona adesione ad essa da parte dell’interessato. Il diritto alla vita privata potrebbe invece soccombere là dove sussistano fondate preoccupazioni sulle modalità di sostentamento o sul comportamento penalmente illecito tenuto dall’interessato.

L’interprete potrebbe legittimamente scorgere una linea di continuità – ma anche un significativo e utile ampliamento del medesimo principio ivi declinatovi – di queste ipotesi di applicazione della protezione speciale con l’art.5, comma 5, t.u.i., ove è disposto che «nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese di origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio». Norma, quest’ultima, da leggere ovviamente alla luce della più ampia applicazione imposta dalla Consulta[21]

Il legame sociale, la cui rilevanza nell’art.5, comma 5, t.u.i. pare subordinata all’esigenza di tutelare legami familiari qualificati, trova nella protezione speciale autonoma rilevanza e un ben più largo campo di applicazione, tale da poter dare soluzione alla deteriore condizione di non pochi residenti di lungo periodo privi (o a suo tempo privati) dell’autorizzazione al soggiorno.


 
[1] Per una ricognizione attenta della normativa precedente e nel vigore del d.l. n.113/2018 cfr. M. Acierno, La protezione umanitaria prima e dopo il decreto legge n. 113 del 2018, in M. Giovannetti e N. Zorzella, Jus Migrandi, Franco Angeli, Milano, 2020, p.805 ss., nonché, in più ampia prospettiva ordinamentale, P. Bonetti, L’evoluzione delle norme e delle politiche del diritto di asilo in Italia e in Europa tra protezione internazionale e asilo costituzionale, in M. Giovannetti e N. Zorzella, Jus, cit., p.751 ss.

[2] Cass., S.u., n. 29459/2019.

[3] Cass n. 4455/18; Cass. S.u. n. 29459/2019.

[4] Cass. n. 17072/2018; Cass. n. 11110/2019.

[5] Così Cass. n. 1104/2020 e Cass. n. 20894/2020. Detto orientamento giurisprudenziale è commentato da F. G. Del Rosso, Protezione internazionale ed umanitaria, diritti autodeterminati, principio del beneficio del dubbio e comparazione attenuata, in Foro it., I, 2020, c. 3564 ss.

[6] Considerazioni non dissimili sono state svolte in dottrina, con un ampio apparato argomentativo, da M. Ferri, La tutela della vita privata quale limite all’allontanamento: l’attuazione (e l’ampliamento) degli obblighi sovranazionali attraverso la nuova protezione speciale per integrazione sociale, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 2021, 2, p.84 ss.

[7] Cass. S.u. n. 29459/2019.

[8] E del resto, come osserva M. Ferri, op.cit., p.122, nella relazione illustrativa del d.l. 130/2020 si afferma che la modifica apportata è «coerente» con la sentenza 4455/2018.

[9] Il riferimento più ravvicinato è costituito da Corte Cost., 9 luglio 2020, n.186.

[10] Così M. Ferri, op.cit., p. 123.

[11] Riguardo a tale specificazione semantica della “vulnerabilità” è peraltro da chiedersi se non abbia ragione N. Zorzella, La nuova protezione speciale introdotta dal d.l. 130/2020. Tra principio di flessibilità, resistenze amministrative e problematiche applicative, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 2021, 2, p. 154, secondo la quale «la qualificazione di vulnerabilità è ambigua, perché rischia di inferiorizzare la persona, collocandola in una categoria giuridicamente subalterna perché caratterizzata da debolezza, mentre le persone alle quali quei diritti appartengono sono state “semplicemente” privati di essi. Non di soggetti vulnerabili si tratta ma di soggetti portatori di diritti fondamentali».

[12] Ricostruisce esattamente la questione A. Di Florio, Protezione umanitaria e protezione speciale. La “vulnerabilità” dopo Cass. SU n.24413/2021, in Questione Giustizia Online, https://www.questionegiustizia.it/articolo/protezione-umanitaria-e-protezione-speciale

[13] Sottolinea criticamente il mancato recupero di tale clausola N. Morandi, La protezione speciale nell’ambito del procedimento di protezione internazionale. La relazione tra la “vecchia” protezione umanitaria e la nuova protezione speciale nei giudizi pendenti, in M. Giovannetti e N. Zorzella, Immigrazione, protezione internazionale e misure penali, Pacini Giuridica, Pisa, 2021, p.61 ss. Ritiene invece irrilevante il mancato recupero della formula N. Zorzella, La nuova protezione speciale introdotta dal d.l. 130/2020. Tra principio di flessibilità, resistenze amministrative e problematiche applicative, in Diritto immigrazione e cittadinanza, 2021, 2, p.148, «sia per l’indeterminatezza che ne caratterizzava originariamente l’individuazione, sia perché ogni seria ragione umanitaria può e deve trovare collocazione in uno degli obblighi costituzionali o internazionali oggi nuovamente richiamati dall’art. 5, co. 6 TU».

[14] Così A. Sgroi, La protezione speciale e l’inserimento sociale dopo il D.L. 21/10/2020, n. 130, in Immigrazione.it, postato il 15.12.2020.

[15] Il quale purtroppo in parte è già presente, sia pure limitatamente alle procedure alla frontiera e alle procedure cosiddette accelerate.

[16] Su cui sia consentito il rinvio a P. Morozzo della Rocca, Protezione umanitaria una e trina, in Questione Giustizia, 2018, 2, p.108 ss., https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/protezione-umanitaria-una-e-trina_537.php

[17] Autonomia ai fini degli effetti (volti al rilascio del permesso di soggiorno nell’art.5, e ad evitare invece il rimpatrio nell’art.19) ma non certo ai fine del contenuto. Sul punto cfr. N. Zorzella, Le nuove ipotesi di protezione speciale al di fuori del sistema di protezione internazionale: gli artt. 5, co. 6 e 19, commi 1.1. e 1.2 TU, D.lgs 286/98, in M. Giovannetti e N. Zorzella, Immigrazione, cit., spec. 53 ss.

[18] Un nesso certamente rafforzato ad opera del d.l. 130/2020, ma già molto stretto nel vigore della disciplina precedente al d.l. n.113/2018, col quale – come è stato esattamente osservato - i motivi umanitari erano stati degradati dal poter costituire titolo per risiedere in Italia a mera protezione dall’allontanamento. Sul punto, cfr. F. Di Salvo, Protezione umanitaria e rapporti giuridici pendenti. Un caso di interpretazione sistematica nella giurisprudenza di legittimità, in Fam. dir. pers., .2020, 3, p.. 785 ss., nt. 49.

[19] Cfr. M.L. Lepore e F. Fanizzi, La protezione umanitaria ancora al vaglio delle Sezioni Unite. Commento all’ordinanza interlocutoria n. 28316/2020, in Questione Giustizia Online, 17 maggio 2021, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-protezione-umanitaria-ancora-al-vaglio-delle-sezioni-unite, le quali rammentano che, in relazione ai giudizi di cassazione pendenti alla data del d.l. n. 130/2020, occorre avere riguardo alla data di presentazione della domanda amministrativa che, se anteriore al 5 ottobre 2018, comporta l’applicazione, ratione temporis, dell’art. 32 d.lgs. n. 25/2008 e dell’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286/1998; mentre, «se proposta nel periodo ricompreso tra il 5.10.2018 e il 21.10.2020, determinerà l’applicazione del d.l. n. 113/2018».

[20] Come nota la sentenza in commento al paragrafo 21, citando Cass. n. 23604/2017, Cass. n. 28990/2018, e Cass. n. 30658/2018, il diritto al permesso di soggiorno umanitario è considerato, al pari delle forme di protezione maggiore, rispetto alle quali risulta complementare, manifestazione attuativa del diritto di asilo di cui all'art. 10 Cost., comma 3. Sicché non resterebbe all’interprete che affermare la prevalenza e la diretta applicabilità della norma costituzionale riguardo alle fattispecie rette dalla normativa di cui al d.l. n.113/2018. Riguardo al dibattito su tale cruciale questione: P. Bonetti, Articolo 10, in La Costituzione italiana, a cura di F. Clementi et al., Bologna, 2018, p.77; M. Benvenuti, Il dito e la luna. La protezione delle esigenze di carattere umanitario degli stranieri prima e dopo il decreto Salvini, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 2019, 1, p.37 ss. C. Favilli, Il Re è morto, lunga vita al Re! Brevi note sull’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in Riv. dir. intern., n. 1.2019, pp. 164; M. De Angelis, La protezione umanitaria: espressione del diritto di asilo costituzionale, in Giurisprudenza italiana, 2020, 11, p.2410 ss.

[21] C. Cost., 18 luglio 2013, n. 202, che ha dichiarato incostituzionale la norma nella parte in cui prevede che la valutazione di particolare attenzione ai legami familiari in relazione all’adozione del provvedimento di rifiuto, revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno si applichi solo allo straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o al familiare ricongiunto, e non anche allo straniero che abbia legami familiari nel territorio dello Stato indipendentemente dal tipo di permesso di soggiorno di cui disponga.

02/12/2021
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