1. Il sequestro al largo di Lampedusa della nave Iuventa, disposto dalla Procura di Trapani per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è intervenuto quando per altre vie stava prendendo piede una narrazione secondo cui (potenzialmente tutte) le Ong sono tassiste dei migranti clandestini quando non conniventi esse stesse con chi lucra sulla loro disperazione, ed ha avuto, purtroppo, la conseguenza indiretta di alimentarla.
La semplificazione mediatica ha diffuso l’opinione che sia in atto una prova di forza contro le Ong e un tentativo di introdurre surrettiziamente il reato di aiuto umanitario.
Niente di tutto ciò nell’operato dei magistrati di Trapani. La visibilità della vicenda ha avuto, però, una grave conseguenza: quella di portare in secondo piano le gravi responsabilità dell’Europa e dei Paesi europei per non aver saputo e voluto, sino a oggi, elaborare una politica di gestione del fenomeno migratorio all’altezza delle sfide e del nuovo ordine mondiale, così com’è stato osservato[1].
L’azione del volontariato rappresenta troppo spesso l’unica risorsa e l’unico servizio disponibile in Italia. Anche nel campo dei salvataggi è stata lasciata mano libera all’iniziativa generosa delle Ong, attribuendo ad esse un’ampia delega di fatto, senza che la loro azione fosse regolata e coordinata in modo sistematico da chi ne aveva la responsabilità ultima, e cioè l’Italia.
Il procedimento penale può essere l’occasione per fare chiarezza, anche nel mondo delle Ong, su come si declinino i principi umanitari dell’accoglienza e del soccorso in mare e su come sia necessario mantenerli – nell’interesse degli stessi migranti – nella cornice di legalità con cui l’Italia, per una volta sostenuta dall’Europa, sta provando a definire un perimetro che tenga insieme diritti e doveri dell’accoglienza.
2. Dal 2012 a oggi la distanza dalle coste libiche dei punti di intercetto dei soccorritori è diminuita, arrivando fino al limite delle acque territoriali libiche.
I trafficanti hanno, infatti, mutato strategia, rispetto ai primi tempi, quando le imbarcazioni cariche di migranti arrivavano fino al largo di Lampedusa: ora il soccorso avviene di regola in alto mare. Prima che – proprio in questi giorni – la Libia istituisse la propria zona Search and Rescue, sospingendo all’indietro di 180 chilometri tutte le attività di soccorso, i gommoni erano spesso intercettati a ridosso delle acque territoriali libiche. Ciò aveva il vantaggio di rendere più agevole il soccorso e quindi aumentare le probabilità di sopravvivenza dei migranti. Costoro erano spesso trasbordati su almeno due imbarcazioni (la prima, più piccola, delle Ong, la seconda della capitaneria di porto) prima di approdare in Sicilia.
L’accusa mossa all’equipaggio della Iuventa è di essersi spinti al di là dell’operazione di salvataggio in mare dei migranti, mettendo in opera vere e proprie “consegne concordate” con i trafficanti libici.
In più di un’occasione, i migranti, provenienti dalle acque territoriali libiche, sarebbero stati consegnati alla Iuventa direttamente dai trafficanti, che dopo il trasbordo si sarebbero diretti nuovamente verso la Libia, sulle stesse imbarcazioni. In altri casi, l’equipaggio della Iuventa avrebbe restituito ai trafficanti libici le imbarcazioni utilizzate dai migranti e/o il motore delle stesse.
Da cui l’apertura di un procedimento per i reati previsti dagli artt. 12, comma 3, lett a), d) e 3 bis d.lgs 286/98 ed il successivo sequestro.
Varie sono le questioni di diritto che possono astrattamente porsi riguardo al caso della Iuventa: anzitutto di giurisdizione e d’immunità; poi di corretto esercizio di poteri coercitivi; infine d’integrazione del reato contestato e di scriminanti, con specifico riferimento all’esercizio del dovere.
3. La giurisdizione della bandiera
Nei primi procedimenti contro i trafficanti si era posto un problema generale di giurisdizione per i casi, che oggi sono la regola, in cui i migranti fossero stati soccorsi quando erano in alto mare.
Com’è noto, sul punto si è oramai da tempo pronunciata la Cassazione[2], con giurisprudenza consolidata, nel senso che sussiste la giurisdizione territoriale italiana. La Corte è ricorsa ad argomenti che da un lato rinviano alla figura dell’“autore mediato” con riferimento all’opera dei soccorritori, e dall’altro lato attribuiscono alla richiesta di soccorso in mare la caratteristica di strumento previsto e voluto dai trafficanti per conseguire il risultato prefisso dello sbarco sulle coste italiane.
La Cassazione non ha dovuto porsi, invece, di recente, un problema di “giurisdizione della bandiera”, e quindi di immunità internazionale, perché nei casi sottoposti alla sua attenzione, a partire dai casi Al Bahlawan e Hamada, i trafficanti di persone non issavano bandiere sulle loro imbarcazioni o, al più, ne issavano una di comodo.
Nella stessa sentenza Hamada vi è, peraltro, un richiamo a una pronuncia risalente al 1969[3], che aveva recepito il principio della bandiera e la conseguente immunità. Il principio, d’altra parte, trova una sua disciplina positiva per le navi italiane nell’art. 4, comma 2 cp.
Il principio consuetudinario della giurisdizione della bandiera è stato per la prima volta recepito dalla Convenzione di Montego Bay, o UNCLOS, che quindi riconosce, in relazione a condotte poste in essere in alto mare, forme di immunità anche penale dalla giurisdizione (artt. 92-97)[4]. Le navi sono sottoposte alla giurisdizione esclusiva della Stato di bandiera o, in certi casi, a quella dello Stato di cittadinanza dei membri dell’equipaggio.
La questione si pone rispetto alla Iuventa, perché essa, a differenza di quanto normalmente avviene per i trafficanti, era dotata di bandiera, nella specie olandese. La condotta contestata, d’altra parte, sarebbe stata attuata a ridosso delle acque territoriali libiche, e quindi in alto mare. I membri dell’equipaggio erano, inoltre, di nazionalità tedesca.
La questione – che avrebbe meritato l’attenzione dei magistrati di Trapani – sembra peraltro agevolmente risolvibile.
Il problema non si porrebbe neppure ove si ritenesse che la Convenzione UNCLOS, non chiara sul punto, si riferisca non al luogo in cui si è svolta la condotta, ma al luogo di consumazione del reato: in tal caso l’immunità non sarebbe operante, perché il reato, secondo la nostra giurisprudenza, si sarebbe consumato in Italia, e non in alto mare[5].
Ma anche a voler ritenere che la UNCLOS si riferisca – come è plausibile – al luogo in cui si è svolta la condotta, a prescindere dal luogo di consumazione del reato, a ben vedere la Convenzione di Montego Bay non vieta, in casi analoghi a quello di specie, l’esercizio della giurisdizione da parte di Stati diversi da quello della bandiera.
Le uniche imbarcazioni cui, dalla Convenzione di Montego Bay, è riconosciuta, in acque internazionali, l’immunità assoluta dalla giurisdizione di Stati diversi da quello della bandiera, sono le navi da guerra (art. 95) e le navi comunque di proprietà o al servizio di uno Stato (art. 96).
Le navi private, commerciali o equiparate – categoria in cui rientra la Iuventa – fornite di bandiera sono, invece, immuni dalla giurisdizione solo «in caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare, che implichi la responsabilità penale del comandante della nave o di qualunque altro membro dell’equipaggio» (art. 97). Nei confronti di costoro «non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza».
Quindi, per le navi private, l’immunità è limitata ai casi d’incidenti di navigazione, fra cui non rientrano certo reati come il favoreggiamento dell’immigrazione, ma neanche l’omicidio: come si ricorderà, fu precisamente in base a questo argomento[6] che, nel caso dei marò, la richiesta italiana di riconoscimento dell’immunità ai due imputati fu, con qualche fondamento, disattesa dalle A. G. indiane.
La condotta ascritta all’equipaggio della Iuventa nel procedimento di Trapani non rientra nella categoria degli incidenti di navigazione. Non è, quindi, astrattamente configurabile alcuna immunità.
4. Misure coercitive: il sequestro
Quando la condotta si è svolta, come nel presente caso, in acque extraterritoriali, lo Stato costiero potrà adottare misure coercitive nei confronti del natante solo una volta che esso abbia risolto, escludendone la rilevanza, la questione dell’eventuale immunità dell’equipaggio. In caso contrario, naturalmente, difettando la stessa giurisdizione, il sequestro non potrebbe disporsi né in alto mare, né nelle acque territoriali, né in quelle interne.
Ciò premesso, occorre vedere cosa preveda la normativa internazionale in casi analoghi a quello di specie, e cioè in tema di sequestro di nave privata battente bandiera straniera, al cui equipaggio non vada riconosciuta alcuna immunità ai sensi della normativa internazionale.
4.1. L’UNCLOS
La Convenzione di Montego Bay, all’art. 97 (Giurisdizione penale in materia di abbordi o di qualunque altro incidente di navigazione), dopo aver disposto, al primo comma, in tema d’immunità per le navi private, stabilisce, al terzo comma, che è vietato il sequestro della nave da parte di Stati diversi da quello della bandiera anche se la misura è adottata «come misura cautelare nel corso dell’istruttoria».
L’ambito di applicazione della norma non è chiarissimo, ma dal contesto sembra desumersi:
1) che la norma riguarda le navi private (essendo collocata nell’art. 97);
2) che il divieto riguarda il solo sequestro in alto mare, perché sui sequestri nelle acque territoriali e nelle acque interne provvede l’art. 27.5 della Convenzione;
3) che la disposizione è concepita per le navi non coperte da immunità, o, quantomeno, solo per esse ha un senso, perché nei confronti delle navi immuni è vietato, in modo assorbente, lo stesso esercizio della giurisdizione.
Quindi la UNCLOS vieta il sequestro in alto mare di navi private battenti bandiera straniera, anche se esse non sono coperte da immunità.
L’art. 27.5 dell’UNCLOS contempla un caso diverso: quello del sequestro, da parte dello Stato costiero, di nave straniera che si trova nelle proprie acque territoriali. Se lo Stato intende procedere al sequestro della nave, deve aspettare che essa «entri nelle acque interne». A rigore, ciò vale solo se la nave proviene «da un porto straniero». Se, invece, l’imbarcazione proviene da un porto nazionale, il comma 2 consente il sequestro anche nelle acque territoriali.
Si ignora se la Iuventa provenisse da un porto straniero o nazionale. Ad ogni buon conto, il gip ha giustamente adottato la cautela di far eseguire il sequestro nelle acque interne italiane.
In conclusione, dalle disposizioni della Convenzione UNCLOS sembra doversi desumere:
1) che il sequestro di una nave battente bandiera straniera è vietato, in alto mare, allo Stato costiero, ovunque il reato sia stato commesso (in alto mare, nelle acque interne…);
2) che nelle acque territoriali il sequestro è parimenti vietato, se il natante è partito da un porto straniero prima di entrare nelle acque territoriali;
3) che il sequestro è, invece, consentito nelle acque territoriali, ove la nave provenga dalle acque interne;
4) che il sequestro è sempre consentito nelle acque interne.
4.2. Il Protocollo ONU contro il traffico di persone
Tanto premesso, sembra potersi affermare che le disposizioni della Convenzione di Montego Bay in tema di misure coercitive siano superate, per gli Stati Parte e nei procedimenti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, da quelle del Protocollo ONU contro il traffico di persone, sempre che vi sia un collegamento con il crimine organizzato transnazionale.
Viene in rilievo in particolare l’art. 8.2 in tema di misure coercitive, che è norma speciale rispetto agli artt. 27 e 97 della Convenzione di Montego Bay.
L’art. 8.2 consente espressamente, in un’ottica di rafforzamento della cooperazione internazionale nella lotta contro i trafficanti, il sequestro di nave che batta bandiera di altro Stato parte, ovunque essa si trovi (alto mare, acque territoriali, acque interne, etc.) pur imponendo l’autorizzazione di quest’ultimo. L’eventuale mancanza dell’autorizzazione potrebbe essere eccepita, comunque, solo dallo Stato della bandiera e non inficia la legittimità del sequestro, dal punto di vista del processo penale.
In senso analogo dispone il Decreto interministeriale del 14 luglio 2003 (Disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina), emanato in attuazione del disposto dell’art. 12, comma 9 quinquies, d.l. n.298/1998, che subordina il diritto di visita alla richiesta formale del Ministro dell’interno, previa acquisizione, tramite il Ministero degli esteri, dell’autorizzazione del Paese di bandiera.
Per concludere sul punto, l’interpretazione più corretta in tema di adozione di misure coercitive appare la seguente:
- Se la nave, cui non vada riconosciuta alcuna immunità, batte la bandiera di uno Stato parte del Protocollo ONU, il sequestro è consentito sia in alto mare, che nelle acque territoriali, oltre che nelle acque interne, previa autorizzazione dello Stato della bandiera e sempre che vi sia un collegamento con il crimine organizzato transnazionale;
- se la bandiera issata non è di uno Stato parte, ovvero manca il collegamento con il crimine organizzato transnazionale, il sequestro è vietato sia in alto mare che nelle acque territoriali (pur, in tale ultimo caso, con alcune eccezioni). Può eseguirsi nelle acque interne;
- in tutti questi casi, è irrilevante dove sia stato commesso il reato. Ciò che conta è che lo Stato eserciti legittimamente la giurisdizione in base alle proprie norme interne e nel rispetto delle disposizioni internazionali in materia di giurisdizione della bandiera.
È, infine, bene ricordare che con riferimento agli Stati Ue, misure coercitive possono essere adottate, nella lotta contro i trafficanti, anche nell’ambito di operazioni comuni militari, come le operazioni Triton e Sophia[7]. Esse si collocano su di un piano diverso dalle analoghe misure giurisdizionali e non interferiscono con queste ultime.
5. Il reato ex art. 12 d.l. 298/1998 e la condotta contestata
Non esiste, nell’art. 12, una clausola che direttamente o indirettamente scrimini chi facilita o assiste il migrante clandestino per finalità umanitaria, benché indubbiamente tale finalità corrisponda a valori etici e sociali condivisi e riconosciuti come preminenti dalla coscienza collettiva.
Non che una tale clausola sia inconcepibile: al contrario, a Bruxelles, molti Paesi hanno sostenuto la necessità dell’inserimento della cd. Humanitarian clause, che escluderebbe dalla punibilità le attività di soccorso, nel nuovo strumento che dovrebbe sostituire l’attuale quadro legislativo penale della Ue[8].
Il gup motiva ampiamente sulla sussistenza degli elementi del reato, in ciò agevolato dall’ampiezza della interpretazione offerta dalla giurisprudenza, posto che ai fini voluti dalla norma rileva «ogni attività di cooperazione in ogni modo collegabile all’ingresso di stranieri»[9]. Anche il contributo concorsuale[10] «acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato».
Nel caso di specie, secondo il magistrato, l’equipaggio della Iuventa avrebbe appunto consentito ai trafficanti di conseguire il proprio scopo ed anche di organizzare con successo nuovi viaggi, giungendo a porre in essere vere e proprie “consegne concordate” di migranti, precedute da contatti tra le parti.
6. L’obbligo di salvataggio
Il salvataggio in mare è reso imposto da risalente consuetudine internazionale ed è richiamato, inoltre, da diverse convenzioni.
Due convenzioni, l’UNCLOS[11] e la SOLAS[12], pongono l’obbligo di salvataggio anche in capo ai singoli comandanti delle navi.
In particolare, l’art. 98 della prima stabilisce che «Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera (...); a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto…».
Il contenuto e i presupposti dell’obbligo sono stati, tuttavia, disciplinati in modo diffuso e articolato principalmente con riferimento all’attività degli Stati. Si parte dall’obbligo, previsto dall’UNCLOS, di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso in mare. Si passa, poi, alla Convenzione SAR[13], che regola in maniera operativa l’attività di soccorso ed impone agli Stati di assistere i naufraghi e di portarli nel cd. porto sicuro, che la Convenzione in origine identificava nel luogo sicuro più vicino.
Per far fronte ai problemi legati all’ottenimento del consenso di uno Stato allo sbarco delle persone tratte in salvo, sono state istituite in via convenzionale le cosiddette zone SAR[14] (Search and Rescue), fissate di comune accordo. Il governo responsabile per la zona SAR in cui è avvenuto il recupero è tenuto ad assicurare, sul proprio territorio, un porto sicuro ai naufraghi, anche se esso non si identifica, in realtà, nel porto più vicino al luogo del naufragio.
Per il nostro Paese valgono, inoltre, gli obblighi derivanti dal Regolamento Ue n. 656/2014 e, a livello nazionale, dal Codice della navigazione, dal Piano nazionale per la ricerca e salvataggio in mare (DPR 662/1994, attuativo della Convenzione SAR) e dal Decreto interministeriale del 14 luglio 2003, che ripartisce le competenze tra le autorità preposte al controllo del mare.
Quanto, infine, alle sanzioni previste in caso di omissione di assistenza a navi o persone in pericolo, occorre ricordare quanto previsto dall’art. 1158 del Codice della navigazione, secondo cui il comandante di una nave, nazionale o straniera, «che ometta di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio nei casi in cui ne abbia l’obbligo»(alla luce di quanto previsto dallo stesso codice), debba essere punito con la reclusione fino a due anni, o sei se dal fatto derivi una lesione personale; da tre ad otto se ne sia derivata la morte.
7. La causa di giustificazione dell’adempimento del dovere e il pericolo in mare
In tale quadro, il problema più arduo da affrontare era, per il gup, quello della possibile ricorrenza della causa di giustificazione prevista dall’art. 51 cp con riferimento all’obbligo di salvataggio che incombe sul capitano della nave.
L’obbligo di salvataggio in mare è, nel caso di specie, l’unico parametro applicabile alla causa di giustificazione: benché, infatti, tutti i migranti cerchino legittimamente di salvarsi dalla guerra, dalla fame e dalla violenza, e l’azione delle associazioni di volontariato sia altrettanto legittimamente volta ad aiutarli a raggiungere tale scopo, tutto ciò non rileva ai fini della causa di giustificazione.
Il gup ha escluso l’applicazione della scriminante partendo dal carattere di eccezionalità e tassatività delle cause di giustificazione, e ha fondato la propria argomentazione sul fatto che i comportamenti degli imputati, e in particolare quelli precedenti e successivi al salvataggio, eccedevano le necessità del salvataggio stesso e non si ponevano, quindi, come espressione del dovere di soccorso.
In effetti, argomenta il giudice, l’art. 51 cp rende lecita l’azione antigiuridica solo «nel caso in cui la stessa trovi fondamento nella necessità improcrastinabile di adempiere il dovere, (…) nel caso di specie la necessità non rinviabile di neutralizzare il pericolo per l’incolumità degli occupanti soccorsi in alto mare».
Gli argomenti sono corretti, ma vi è di più da dire: posto che l’obbligo di salvataggio è collegato espressamente al “pericolo in mare” (le Convenzioni SAR. e SOLAS, parlano di «distress at sea»[15], mentre la Convenzione UNCLOS parla di «danger at sea»[16]), il punto è individuare che cosa debba intendersi per pericolo in mare, e quindi in che momento il soccorso diventi doveroso.
In particolare, se di fronte ad un pericolo di naufragio – perché è di questo che si discorre – desunto dalle condizioni del natante e del mare, il dovere di soccorso scatti solo quando il soccorso è improcrastinabile, pena la vita dell’equipaggio, ove invece il soccorso debba anche mirare a prevenire il vulnus all’incolumità dei membri dell’equipaggio, e quindi debba intervenire prima che il natante e i suoi passeggeri si trovino in condizioni estreme.
Va detto, in proposito, che il piano operativo di Frontex e delle operazioni PESC contemplano una definizione ampia di “distress”, che esclude che le persone debbano trovarsi in condizioni estreme, e che dall’imbarcazione debba partire una precisa richiesta di soccorso, mentre la prassi della Guardia costiera e delle stesse operazioni Sophia e Triton considera i migranti in difficoltà e dunque da soccorrere non appena prendono il mare.
È anche vero, tuttavia, che queste prassi si riferiscono all’obbligo di salvataggio degli Stati, che gli stessi strumenti internazionali prevedono come molto ampio e articolato, comprensivo[17] dell’obbligo di istituire e mantenere un adeguato ed effettivo servizio permanente di ricerca, soccorso ed assistenza, con accompagnamento ad un porto sicuro etc. Quantomeno per gli Stati il contenuto dell’obbligo va molto di là della stretta emergenza, e sembra da ricollegarsi non solo alla nozione di “nave in pericolo”, ma anche a quella di nave in semplice difficoltà.
Il punto è vedere quanto di questa interpretazione possa esportarsi ai privati, all’interno di un procedimento penale e con riferimento, in particolare, ad una causa di giustificazione.
Una volta escluso, naturalmente, che per potersi considerare in pericolo la nave sia in procinto di affondare, l’interprete dovrà certo mettere in conto, come correttamente fatto dai magistrati di Trapani, il carattere di eccezionalità e tassatività delle cause di giustificazione, che debbono trovare fondamento in presupposti precisi, verificabili e rigorosi, che li rendano idonei ad elidere la rilevanza penale di una condotta oggettivamente antigiuridica.
Dovrà, peraltro, considerarsi che le stesse Ong operano o dovrebbero operare sotto la direzione della Guardia costiera e che, pertanto, le regole che ispirano l’attività di salvataggio della prima dovrebbero valere, almeno in parte, anche per le seconde; che la prassi seguita in generale dai soccorritori – come detto – è precisamente quella di non aspettare che l’imbarcazione si trovi in condizioni estreme, in quanto si mira a prevenire il naufragio.
La prassi giudiziaria e la giurisprudenza di legittimità daranno presto indicazioni sul punto.
Non dovrà, infine, temersi che anche le unità del corpo delle capitanerie di porto debbano confrontarsi con l’art. 51 del codice penale e quindi con estensione e i limiti, dell’obbligo di salvataggio: costoro sono organi dello Stato ed esercitano, pertanto, tutti i diritti e doveri di quest’ultimo nella funzione istituzionale del soccorso marittimo.
Anche a non voler condividere la tesi che conferisce agli organi dello Stato immunità sostanziale di diritto consuetudinario per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni – immunità peraltro riconosciuta in un caso dalla stessa Cassazione[18] – l’estensione dell’obbligo di salvataggio posto in capo agli Stati dovrebbe porre al riparo i suoi organi da ogni rischio, fatta salva, naturalmente, l’eventualità di abusi.
[2] Cass., Sez. I, n. 1609/2014 Al Bahlawan; n. 814/2014 Hamada.
[3] Cass., 30 ottobre 1969, Matrino.
[4] L’art.92 dice che «le navi battenti bandiera di un solo Stato nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva»; l’art. 95 che «Le navi da guerra godono, nell’alto mare, della completa immunità dalla giurisdizione di qualunque Stato che non sia lo Stato di bandiera»; idem l’art. 96 per le navi di proprietà o al servizio di uno Stato; l’art. 97 dice che, per le navi private «In caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare che implichi la responsabilità penale o disciplinare del comandante della nave o di qualunque altro membro dell’equipaggio, non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari contro tali persone, se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza».
[5] La Convenzione di Montego Bay, va detto, è in generale atecnica dal punto di vista del penalista, e non distingue chiaramente, come invece fa la Cassazione, tra «luogo in cui si trova la nave al momento del fatto reato» e «luogo di consumazione del reato». Si veda la nota precedente.
[6] Le A. G. indiane per la precisione sostenevano che la condotta si sarebbe attuata non in alto mare, ma nelle acque territoriali indiane, e che comunque il principio della giurisdizione della bandiera non trovava applicazione.
[7] Decisione PESC 2015/778 del Consiglio.
[8] Costituito dalla Direttiva 2002/90 e dalla Decisione Quadro 2002/946/JHA.
[9] Cass., Sez. I, n. 19355, 20 dicembre 20111, Moussa. Nello stesso senso Cass., Sez. I, n. 37277, 23 aprile 2015: «...il delitto è integrato anche dalle condotte… intese a garantire il buon esito della operazione… e, in genere, da tutte quelle attività di fiancheggiamento e di cooperazione collegabili all’ingresso degli stranieri». E inoltre: Cass., Sez. I, n. 28819, 22 maggio 2014, per la quale rileva il semplice porre in essere «una condizione, anche non necessaria, teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale».
[10] Cass., Sez. I, n. 36125, 13 maggio 2014.
[11] United Nations Convention on the Law of the Sea, Montego Bay, 1982, art.98.1.
[12] Safety Of Life At the Sea, Londra 1974, Cap.V, Reg.33 (1).
[13] International Convention on Maritime Search and Rescue, Amburgo, 1979.
[14] L’Italia è stato il primo Paese del Mediterraneo a delimitare le proprie zone di competenza SAR, accettate nell’apposita Conferenza IMO di Valencia del 1995 dagli altri Stati frontisti, con l’eccezione di Malta.
[15] Cap 2, art. 2.1.1. SAR; Reg. 33 SOAS.
[16] Art. 98 (Duty to render assistance).
[17] Art. 98.2 UNCLOS.
[18] La Cassazione ha, in un caso, dato ingresso all’immunità funzionale di diritto consuetudinario (Sez. I, n. 31171/2008), pur negandola in altri due casi (Abu Omar, Sez. V, 2012, n. 46340 e Madero Sez. V, 2014, n. 39788). In dottrina non vi è unanimità sul contenuto e titolarità dell’immunità funzionale. Mentre alcuni autori affermano che l’immunità funzionale appartiene a tutti gli organi dello Stato, essendo attribuita da una norma di diritto internazionale consuetudinario (Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Torino, 2016, pp. 155 ss.), altri negano che essa possa spettare a tutti gli organi e tendono a limitarla a quelle persone che godono anche d’immunità personale, pur ammettendo che le due immunità sono distinte [Pisillo, Organi degli Stati stranieri (immunità giurisdizionale degli), in Enciclopedia del Diritto – Annali, vol. VII, Milano, 2014, pp. 735 ss.]. Il riconoscimento di una immunità di tipo penale in assenza di una norma di adattamento interno pone seri dubbi di contrasto con il principio costituzionale di cui all’art. 25, comma 2 della Costituzione.