La pronuncia in commento, dello scorso 4 dicembre, si snoda sapientemente fra diritto interno e sovranazionale: il primato del diritto eurounitario ne riesce affermato sul piano interpretativo, e la legislazione italiana rilevante nella controversia è apprezzata alla luce delle coordinate ermeneutiche rivenienti dalla normazione e dalla giurisprudenza europee.
Una lavoratrice, assunta a tempo determinato da differenti società, conveniva in giudizio le datrici di lavoro affinché fosse accertato il loro abusivo ricorso a contratti a termine, e disposta la conversione di essi in un rapporto a tempo indeterminato.
La prestatrice riferiva d’aver stipulato un primo contratto semestrale con un’azienda, un secondo contratto trimestrale (cessato anticipatamente per le dimissioni dell’interessata) con un’azienda differente, e un ultimo contratto – anch’esso semestrale, poi doppiamente prorogato (dapprima per un anno, quindi per due mesi) – intercorso con l’azienda di sua prima assunzione.
La ricorrente, più in particolare, denunciava una duplice illegittimità delle condizioni contrattuali a lei applicate: da un lato la natura durevole delle esigenze imprenditoriali sottese alla stipulazione (in cui ravvisava un contrasto con i principi generali apprestati dalla regolamentazione europea dei contratti a termine), dall’altro la riconducibilità delle aziende datoriali a un medesimo soggetto giuridico-economico, da cui avrebbe dovuto desumersi l’effettiva unicità della propria controparte, e la conseguente violazione dei termini massimi di durata dei plurimi contratti stipulati.
Le società convenute eccepivano – ciascuna per il contratto di rispettiva pertinenza – la decadenza dell’ex dipendente dal potere d’impugnazione del termine finale, invocando l’art. 6, comma 1, legge 604/1966, come modificato dall’art. 32, comma 3, lett. a), legge 183/2010 – nella versione applicabile all’epoca dei fatti – e, dunque, riscontrando il superamento dei centoventi giorni concessi per reagire al termine anzidetto.
Il Tribunale sancisce la fondatezza dell’eccezione solamente in relazione al secondo contratto.
Con una perspicua motivazione, il giudice chiarisce come la direttiva 1999/70/CE – di recepimento dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sui rapporti di lavoro a tempo determinato – non imponga, per ogni contratto a termine, l’obiettivo riscontro d’autenticità delle ragioni addotte dall’imprenditore a giustificazione della predeterminata scadenza del contratto: la normativa eurounitaria, infatti, si prefigge l’obiettivo di scongiurare gli abusi insiti nella reiterazione della formula del contratto a tempo, mentre rinuncia a imporre la causalità del termine nei casi in cui al contratto originario non ne segua un altro.
L’argomento proposto è condivisibile: il 14° considerando della direttiva, nel ribadire le finalità dell’Accordo fra le parti sociali, ispiratore dell’atto normativo, ha chiarito come il negoziato condotto abbia inteso delineare «i principi generali e i requisiti minimi per i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato», allo scopo di «migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l'applicazione del principio di non discriminazione, nonché di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato».
Alla luce di siffatta precisazione normativa, dunque, l’impugnativa del termine finale di cui si sospetti l’illegittimità è ammissibile soltanto in presenza di un avvicendamento di più fattispecie negoziali, mentre è improponibile qualora il rapporto a tempo determinato non abbia dato luogo ad alcuna sequenza contrattuale.
Logico precipitato dell’approdo ermeneutico appena raggiunto, allora, è quello della postposizione del termine (decadenziale) entro cui impugnare un contratto a tempo determinato – interessato da una o più proroghe – sino alla scadenza del suo ultimo rinnovo: proprio a tale conclusione giunge la sentenza qui annotata, rigettando l’eccezione di decadenza sollevata dalla seconda controparte, con riferimento al restante contratto stipulato dalla ricorrente nel corso della propria vita lavorativa.
La pronuncia dà atto, a tal proposito, della scelta delle parti di prolungare per due volte la durata del contratto, e individua nel perfezionamento dell’ultima proroga il termine a partire dal quale valutare la tempestività dell’impugnazione proposta, nella specie riscontrandola.
Il magistrato si confronta, a questo punto, con l’osservazione della lavoratrice, per la quale le società convenute costituirebbero un unico centro d’imputazione giuridica: eventualità da cui la ricorrente vorrebbe far discendere l’estensibilità degli effetti della propria impugnazione anche all’altra compagine, nei cui confronti l’impugnazione medesima era stata formalizzata a distanza di circa due anni.
La prospettazione attorea, tuttavia, viene smentita dall’autorità giusdicente, in virtù dell’argomento per il quale la riconducibilità di un rapporto lavorativo a una pluralità di datori – solitamente identificata alla stregua di “codatorialità” – realizzi una diversa e peculiare configurazione della controparte del lavoratore, ma non ne provochi la metamorfosi in un soggetto distinto, e (nel caso esaminato) autonomo rispetto alle singole compagini convenute.
Chiarito quanto sopra, dunque, il giudice applica alla problematica le considerazioni già formulate in merito all’eccezione decadenziale sollevata da ambo le resistenti, per constatare l’intempestività dell’impugnazione stragiudiziale – e, a cascata, giudiziale – inerente al contratto a termine mai prorogato, e coerentemente affermare l’inestensibilità alla relativa azienda – ancorché, in ipotesi, parimenti beneficiaria della prestazione resa dalla ricorrente – delle conseguenze discendenti dall’unica impugnazione proposta non tardivamente.
Esaurita la trattazione delle questioni preliminari, il magistrato affronta lo snodo nevralgico della vicenda disputata: l’accertamento della contrarietà (o meno) della contestata “staffetta” contrattuale alla disciplina eurounitaria in tema di rapporti a termine.
Nel percorso argomentativo condotto a tale scopo, l’estensore dà prova di notevole padronanza delle disposizioni pertinenti, delle tecniche interpretative e della giurisprudenza comunitaria, così come dei meccanismi sottesi al recepimento interno delle istanze regolative sovranazionali.
L’analisi dei postulati della decisione nel merito prende le mosse dal sopraddetto Accordo quadro CES, UNICE e CEEP del 18 marzo 1999, implementato dalla direttiva 1999/70/CE.
L’attuale temperie sociopolitica, spesso aprioristicamente critica nei confronti delle istituzioni dell’Unione, nonché della direzione da loro impressa alla disciplina dei fenomeni d’interesse transnazionale (fra cui quelli del mercato del lavoro), deve innanzitutto condurre – per onestà intellettuale, votata al ripristino di minime condizioni di scientificità (e aderenza al vero) del dibattito pubblico – all’energico riconoscimento di un dato normativo pacifico: la ventennale preferenza accordata dagli organi della legiferazione europea ai rapporti di lavoro duraturi, specularmente al disfavore da essi manifestato nei riguardi dell’instabilità occupazionale.
Ciò si evince dalla enunciazione – opportunamente ribadita in sentenza dal giudice trentino, e contenuta nell’Accordo sopraddetto – secondo la quale «i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro, e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorarne il rendimento».
Si tratta di un’asserzione densa di implicazioni, concettualmente trasposta nel sesto considerando della direttiva, laddove il Consiglio dell’Unione europea – nel richiamare «il punto 7 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori», auspica come «la realizzazione del mercato interno de[bba] portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea»: proposito successivamente richiamato dall’ampia rassegna pretoria compiuta dalla sentenza in parola.
Fomentare oggi la percezione di un’Europa alacremente protesa alla precarizzazione dei rapporti di lavoro si traduce, dunque, nella veicolazione di un falso storico, posto al servizio di opache ragioni extra-giuridiche, assai poco argomentabili a partire dal tenore e dalla ratio del contesto normativo di riferimento.
Nella consapevolezza della multiformità della domanda di lavoro, d’altra parte, le sedi deliberative dell’Unione ammettono non soltanto – e fisiologicamente – la negoziabilità di contratti a termine, ma anche l’eventualità di loro rinnovi.
Esse osteggiano, nondimeno, gli abusi della reiterazione, a causa dei quali viene svuotato di significato lo schema legale del contratto a durata indeterminata, e frustrato il ruolo – di promozione sociale ed economica – da esso assolto nella dinamica del mondo del lavoro.
Lo scoraggiamento della riproposizione dei contratti a termine è rimesso dal Consiglio dell’UE alle tre misure enucleate dal paragrafo n. 1 della clausola n. 5 della direttiva 1999/70/CE, la prima a contenuto teleologico, la seconda e la terza di natura quantitativa.
Il criterio di cui alla lettera a) inerisce all’an dei rinnovi, legittimi purché supportati da «ragioni obiettive»: la richiesta obiettività della motivazione addotta, peraltro, sembra caldeggiare l’affidamento a un soggetto in posizione di neutralità del compito di sindacare la sussistenza, nel caso concreto, delle ragioni sottese alla rinnovazione, previa (auspicata) delimitazione legislativa interna degli scenari compatibili con la sottoscrizione di altri contratti a termine.
I parametri recati dalle lett. b) e c), invece, introducono elementi estranei al perché dei rinnovi, e rispettivamente riguardanti la durata massima dell’esperienza lavorativa (scandita dalla pluralità dei contratti) ovvero il numero totale di rinnovi del contratto a termine (intervenuti fra le medesime parti).
All’interno della suddetta cornice, il margine di apprezzamento concesso – e specificato dalla Corte di Giustizia – agli Stati membri per l’attuazione della direttiva assicura ai vari Paesi sufficiente discrezionalità nella selezione (o combinazione) dei cennati criteri, e proprio dandone atto il Tribunale di Trento raggiunge il primo passaggio motivazionale intermedio: la causalità dei rinnovi non è l’unico canale di prevenzione degli abusi nel settore.
Acquisita tale certezza, la sentenza rammenta il ruolo attribuito dalla Corte UE all’autorità giudiziaria, nel garantire l’osservanza degli obiettivi perseguiti dalla direttiva, al cospetto delle legislazioni nazionali di recepimento.
Il tratto caratteristico della normazione per direttive, infatti, risiede nella peculiare tensione intercorrente fra la fissazione degli scopi contemplati dall’atto e la loro traduzione in realizzazioni concrete, mediante lo strumentario approntato da ciascuno degli Stati appartenenti all’Unione.
Se l’inadempimento della direttiva conduce all’imputazione di responsabilità a carico dello Stato negligente, esso impegna la vigilanza delle istanze giudiziali diffuse, chiamate – dal diritto primario dell’UE e dalla Corte di Lussemburgo – a vegliare (anche officiosamente) sull’assetto dell’ordinamento normativo interno, per rimettere al giudice europeo – fra gli altri – i casi di sospetta elusione del disposto comunitario non auto-applicativo.
Affidandosi a un articolato mosaico di giurisprudenza comunitaria, il giudice perviene, così, alla seconda conclusione intermedia del suo ragionamento decisorio: sebbene – come dianzi precisato – l’UE non imponga di motivare ogni rinnovo sul piano eziologico o finalistico, contrattualizzare la forza-lavoro a tempo determinato per adibirla, invece, a esigenze produttive durevoli si pone in contrasto (se non con la lettera, senz’altro) con lo spirito della normazione sovranazionale, tradendone la funzione principale, ossia l’adeguamento della legislazione lavoristica al principio della normalità del lavoro stabile, e dell’eccezionalità di quello interinale.
Lo stesso precipitato risulta valido anche in relazione al secondo e al terzo criterio dissuasivo, giacché – alla luce dell’elaborazione pretoria di Lussemburgo – né il contenimento della durata massima dei contratti né l’introduzione di un numero invalicabile di rinnovi consentirebbe al datore di lavoro il fronteggiamento delle proprie necessità imprenditoriali non estemporanee attraverso la predisposizione di contratti a termine.
La normativa ratione temporis applicabile alla controversia – concernente una serie di rapporti svoltisi fra il 2015 e il 2017, e dunque assoggettati alle previsioni del d.lgs 81/2015 nella sua versione originaria – ha dato seguito alla direttiva 1999/70/CE contemplando la conversione dei rapporti in contratto a tempo indeterminato con il superamento della durata – ancorché eventualmente intervallata da periodi (non lavorati) di qualsiasi ampiezza – di trentasei mesi in totale.
L’obbligo di interpretazione (del diritto interno) in senso conforme a quello europeo lumeggia la vicenda – e la normativa a essa riferibile – assicurando il giusto bilanciamento fra la salvaguardia del marge d'appréciation statuale e l’uniforme (ed effettiva) attuazione del diritto sub-primario dell’Unione: nello specifico, allora, compete al plesso giudiziario nazionale la verifica della compatibilità fra la prescrizione eurounitaria (di principio e/o orientata al risultato) e la regolamentazione interna con cui un Paese intenda dare svolgimento alla prima.
La sentenza perviene, a questo punto, a confrontarsi con il proprio fulcro motivazionale: premessa la discrezionalità del legislatore di recepimento, e altresì sancita la controllabilità in concreto della globale operazione contrattuale intercorsa fra datore e prestatore – da condursi in funzione antielusiva degli scopi della normazione comunitaria – il giudice s’interroga, con lungimirante autoconsapevolezza istituzionale, circa i limiti del sindacato giurisdizionale, nel percepibile e commendevole intento di scongiurare il rischio di un’integrazione – per via giudiziaria – della disciplina di legge.
Il Tribunale giunge a una soluzione equilibrata distribuendo l’onere della prova in coerenza con l’impianto normativo e avvalendosi di presunzioni legali.
Qualora l’avvicendamento dei contratti a termine rispetti l’unico criterio adottato dal legislatore interno – ossia, appunto, quello della durata massima, dal cui travalicamento discende la conversione automatica del contratto stesso – la natura persistente delle succitate esigenze produttive può essere giudizialmente affermata in caso di positiva dimostrazione della loro durevolezza, fornita del lavoratore interessato.
È, dunque, questa la conclusione definitiva cui perviene la sentenza in commento: l’art. 19, commi 2 e 3, d.lgs 81/2015, vigente all’epoca dei fatti, è conforme al diritto eurounitario nella misura in cui (o, meglio, purché) consenta al prestatore di provare l’aggiramento datoriale dei principi stabiliti dal legislatore europeo, indipendentemente dallo strumento normativo adottato dallo Stato per adempiere ai propri obblighi insorti con l’approvazione della direttiva.
Nella fattispecie, il giudice dichiara la dimostrata sussistenza dei presupposti per disporre la conversione del contratto in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (alle dipendenze dell’unica società utilmente convenuta in giudizio), e a tanto provvede in sede di dispositivo.
Oltre ai paradigmi giuridici appena esaminati, allora, la statuizione offre al lettore un istruttivo vademecum: ad essa gioverà guardare, tutte le volte in cui l’esercizio della giurisdizione dovesse porsi al crocevia di questioni formidabili: i diritti dei lavoratori, l’organizzazione endoaziendale e le relative determinazioni datoriali, la normazione multilivello, il dialogo fra giudici interni e sovranazionali, la separazione dei poteri e il ruolo ordinamentale del giudice.