La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo del 29 ottobre 2013 – Ricorso n. 17475 Varvara c.Italia fa seguito ad analoga precedente pronuncia della Cedu, sentenza 20 gennaio 2009, Sud Fondi e altri c. Italia, in cui la CEDU ha condannato il nostro Paese per la violazione degli artt. 7 (che riconosce il principio di legalità in materia penale) e 1 Prot. 1 (che sancisce invece il diritto di proprietà) Cedu in relazione alla confisca del terreno e del relativo manufatto, relativamente ad un processo per il reato di lottizzazione abusiva, terminato con una pronuncia di assoluzione per difetto dell’elemento psicologico.
Il presupposto da cui muoveva la Cedu è costituito dalla ritenuta natura penale della confisca prevista dall'art. 19 l. 47/1985 (ora dall'art. 44, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001, cosiddetto testo unico dell'edilizia), dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere che su di essi insistevano, così disattendendo l’orientamento all'epoca dominante in giurisprudenza, secondo il quale la confisca urbanistica aveva natura amministrativa e doveva pertanto ritenersi applicabile sulla base della mera sussistenza materiale del fatto, e dunque anche in caso di assoluzione "perché il fatto non costituisce reato", a prescindere dalla affermazione di una piena responsabilità penale.
La Corte europea dei diritti dell’uomo riteneva, per contro, che la sua applicazione nel caso concreto fosse in contrasto con l'art. 7 Cedu, dal momento che la base legale dell'infrazione (la norma precetto che configurava il reato di lottizzazione abusiva) non rispondeva ai requisiti di accessibilità e di prevedibilità per il destinatario della norma, il quale pertanto non si trovava in condizioni di prevedere che gli sarebbe stata inflitta una sanzione.
Invero, la sentenza Varvara ha esteso l’anzidetto principio all’ipotesi in cui il processo penale si fosse concluso con una declaratoria di estinzione del reato di lottizzazione abusiva per intervenuta prescrizione. Si riteneva, in particolare, che la sua applicazione nel caso concreto fosse in contrasto con l'art. 7 della Convenzione, dal momento che la base legale dell'infrazione (la norma precetto che configurava il reato di lottizzazione abusiva) non rispondeva ai requisiti di accessibilità e prevedibilità per il destinatario della norma, il quale pertanto non si trovava in condizioni, al momento del fatto, di prevedere che gli sarebbe stata inflitta una sanzione.
Invero, la Cedu ha dato atto che leprofonde divergenze tra le diverse autorità giudiziarie nazionali dimostrano il carattere discutibile dell’interpretazione alla fine adottata in merito alla natura della convenzione di lottizzazione conclusa e dei relativi permessi a costruire e, pertanto, del reato ascritto al ricorrente. Infatti, a seguito di un tormentato iter processuale, nel quale si verificavano due annullamenti con rinvio delle pronunce emesse dalla corte d’appello, rispettivamente di assoluzione e di condanna per il reato ascritto, la vicenda si concluse con una declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
Inoltre, al di là del merito della imputazione, la Corte argomentava altresì sulla base della mancanza del requisito della proporzionalità della misura, in relazione all’entità della violazione del diritto di proprietà, essendo la radicale ablazione del diritto di proprietà esorbitante rispetto all’entità della lesione connessa alla condotta in contestazione. Concludeva, dunque, la Corte: “il giudice italiano deve non soltanto verificare se vi sia in concreto una situazione di pericolo immediato e serio per l’assetto del territorio e per la tutela ambientale, ma deve anche adattare la reazione statale alla minaccia immobiliare esistente e così proporzionare la misura della confisca alle circostanze specifiche della causa”.
Orbene, l’anzidetta sentenza è stata oggetto di una rilettura ad opera della sentenza della Corte costituzionale del 14 gennaio 2015 n. 49, che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale poste, rispettivamente dalla Corte di Cassazione, terza sezione penale, con ordinanza depositata il 20 maggio 2014 (r.o. n. 209 del 2014) e dal Tribunale di Teramo,con ordinanza del 17 gennaio 2014, in relazione all’art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Invero, la Corte si soffermava a lungo sull’apparente contrasto esistente fra il pronunciamento della CEDU, secondo il quale la confisca può venire disposta solo nei confronti di colui la cui responsabilità sia stata accertata in ragione di un legame intellettuale (coscienza e volontà) con i fatti, e la costante interpretazione della giurisprudenza domestica, per cui, nel nostro ordinamento, “l’accertamento ben può essere contenuto in una sentenza penale di proscioglimento dovuto a prescrizione del reato, la quale, pur non avendo condannato l’imputato, abbia comunque adeguatamente motivato in ordine alla responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, sia esso l’autore del fatto, ovvero il terzo di mala fede acquirente del bene (sentenze n. 239 del 2009 e n. 85 del 2008)”[1].
Ne consegue che, sia che la misura colpisca l’imputato, sia che essa raggiunga il terzo acquirente di mala fede estraneo al reato, si rende necessario che il giudice penale accerti la responsabilità delle persone che la subiscono, attenendosi ad adeguati standard probatori.
In sostanza, la Corte costituzionale argomentava che la Cedu, nella sentenza Varvara, ai fini dell’applicazione di una misura demolitoria potenzialmente lesiva del diritto di proprietà come la confisca, richiede, ai sensi dell’art. 7 della Convenzione, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che consenta di addebitare il reato, sulla scorta di una valutazione suscettibile di essere effettuata anche al di fuori di una formale sentenza penale di condanna. D’altra parte, la stessa Cedu ha in altra sede statuito che la “pena” può essere applicata anche da un’autorità amministrativa, sia pure a condizione che vi sia facoltà di impugnare la decisione innanzi ad un tribunale che offra le garanzie dell’art. 6 della Convenzione, ma che non esercita necessariamente la giurisdizione penale[2]. Invero, nell’ordinamento giuridico italiano, la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non è incompatibile con un pieno accertamento di responsabilità, perlomeno ai fini della confisca.
Orbene, non essendoci allo stato, nel nostro ordinamento, un istituto specifico finalizzato a dare attuazione alle pronunce della Cedu, sono stati utilizzati procedimenti di altro tipo, ritenuti idonei allo scopo, ovvero il giudizio di revisione di cui all’art. 630 c.p.p., o l’incidente di esecuzione di cui agli articoli 666 – 670 c.p.p.
Con riferimento al primo strumento, una valida indicazione in tal senso proviene dalla Corte Costituzionale, che con sentenza additiva del7 aprile 2011, n. 113, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo.
L'obbligo di conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell'uomo, sancito a carico delle parti contraenti, comporta infatti anche l'impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell'interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della "restitutio in integrum" in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione. L'incidenza della declaratoria di incostituzionalità sull'art. 630 c.p.p. non implica, peraltro, alcuna pregiudiziale opzione a favore dell'istituto della revisione, essendo giustificata soltanto dall'inesistenza, allo stato, di altra e più idonea sede dell'intervento additivo.
Orbene, al di là dell’affermazione da parte della Cedu di principi di diritto consolidato, e fermo restando il dovere di ottemperare alla decisione promanante dalla Corte di Strasburgo che abbia definito la causa di cui tale giudice torna ad occuparsi, quando necessario, perché cessino gli effetti lesivi della violazione accertata, l’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuita in prima battuta ai giudici degli Stati membri, con gli strumenti appositamente previsti nei rispettivi ordinamenti.
L’altro rimedio, oltre il procedimento di revisione, che è stato percorso per dare attuazione alle pronunce della Cedu,è quello dell’incidente di esecuzione.
Va ricordato, in tal senso, che secondo Cass. pen., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, in Foro it., 2013, I, 802, in una fattispecie in cui il giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di rideterminare la pena dell'ergastolo a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell'art. 7, comma 1 d.l. n. 341 del 2000, per violazione dell'art. 117 della Costituzione in riferimento all'art. 7, par. 1, Cedu, ha statuito che, in tanto il meccanismo di aggressione del giudicato è attivabile con incidente di esecuzione, in quanto ricorrano le seguenti condizioni: a) la questione controversa deve essere identica a quella decisa dalla Corte EDU; b) la decisione sovranazionale, alla quale adeguarsi, deve avere rilevato un vizio strutturale della normativa interna sostanziale; c) la possibilità d'interpretare la normativa interna in senso convenzionalmente orientato ovvero, se ciò non è praticabile, la declaratoria d'incostituzionalità della medesima normativa; d) l'accoglimento della questione sollevata deve essere l'effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva e non deve richiedere la riapertura del processo.
Ricorrendo tali condizioni, il giudice dell'esecuzione non deve procedere alla revoca (parziale) della sentenza di condanna, ma deve limitarsi, avvalendosi degli ampi poteri conferitigli dagli artt. 665 e 670 c.p.p., a ritenere non eseguibile la pena inflitta e a sostituirla con quella convenzionalmente e costituzionalmente legittima. In tale ipotesi, la Cassazione ha ritenuto non percorribile il procedimento di revisione ex art. 630 c.p.p., come integrato dalla sentenza additiva di principio n. 113 del 2011 della Consulta, non essendo necessaria una "riapertura del processo" funzionale a un nuovo giudizio di cognizione sul merito della vicenda.
Con riferimento al caso analogo a quello in esame, relativo alla revoca della confisca e restituzione dei suoli nella vicenda Sudfondi, la Corte di cassazione, con sentenza Cassazione penale, sez. III 11 maggio 2010 n. 23761,inGiust. pen., 2010, III, 638 riconosceva peraltro la legittimazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri a richiedere la revoca della confisca urbanistica in sede esecutiva in forza dell'art. 5, comma 3, lett. a-bis, della legge n. 400/1988,che dispone che il Presidente del Consiglio promuove gli adempimenti governativi conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo emanate nei confronti dello Stato italiano", sul presupposto che l'art. 5 altro non è che la norma di attuazione del generale obbligo sancito, a livello intenzionale, dall'art. 46 Cedu.
Il percorso dell’incidente di esecuzione è stato intrapreso, in definitiva, dalle pronunce che sono giunte a dichiarare tout court cessata, in forza di sentenza della Corte europea, l'esecuzione di condanne passate in giudicato. Il rimedio, che fa perno sull'art. 670 c.p.p., si rivela, tuttavia, inadeguato, come è stato riconosciuto dalla citata sentenza a sezioni unite del 2013, quando l'accoglimento della questione sollevata non sia l'effetto di una operazione sostanzialmente ricognitiva, ma si richieda la riapertura del processo, o comunque la rivalutazione del merito. Infatti, l’incidente di esecuzione“congela” il giudicato, impedendone l'esecuzione, ma non lo elimina. Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilitàdella confisca non dà risposta all'esigenza primaria, certamente ravvisabile nel caso di specie, di rivalutare il merito della vicenda da cui è scaturita la confisca.
Orbene, al fine di dare esecuzione alla sentenza Varvara, alla luce dell’interpretazione da ultimo espressa dalla Corte costituzionale 2015, occorre procedere a un riesame giurisdizionale della complessa vicenda, al fine di verificare la sussistenza della responsabilità dei ricorrenti, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, a fondamento del provvedimento di confisca, dovendone altrimenti conseguire la restituzione all’avente diritto del suolo edificato.
Appare, dunque conseguenziale, che, venendo meno a seguito della pronuncia della Cedu la misura ablatoria della confisca, possa rivivere la misura cautelare del sequestro, in pendenza del quale potrà essere promosso un giudizio di revisione ex art. 630 c.p.p. Solo in questa sede sarà possibile rivalutare fundituds, nel contraddittorio tra le parti e ai soli fini della conferma della confisca, i presupposti oggettivi esoggettivi del reato, sulla base peraltro delle pronunce di appello e di cassazione agli atti.
D’altronde, la Corte costituzionale ha già avuto modo di affermare che, fra le sentenze di proscioglimento ve ne sono alcune che “pur non applicando una pena comportano, in diverse forme e gradazioni, un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell'imputato o comunque l'attribuzione del fatto all'imputato medesimo”[3].In particolare, in presenza di una causa di estinzione del reato quale è la prescrizione, l’eventuale accertamento relativo alla sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità penale, effettuato in sede di revisione sulla scorta della compiuta disamina effettuata dalle sentenze di merito, anche su eventuale rinvio a seguito di annullamento della Cassazione (come è avvenuto nel caso all’esame della Cedu nella sentenza Varvara), per quanto privo di effetti sul piano della responsabilità penale, non sia comunque impedito da una pronuncia di proscioglimento, conseguente a prescrizione, ove l'ordinamento imponga di apprezzare tale profilo per fini diversi dall'accertamento penale. Invero, l’utilizzo in questa chiave del giudizio di revisione, appare consentito proprio sulla scorta della pronuncia additiva della citata Corte costituzionale che, in assenza di un procedimento tipizzato per l’attuazione delle pronunce della Cedu, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.
[1]La sentenza è rinvenibile in www.penalecontemporaneo.it, con note di commento di A. Ruggeri , “Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della Cedu in ambito interno”, e di I. Francesco Viganò, La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per prescrizione.
[2] Cfr. da ultimo, Corte Europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, (Ric. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10) e la relazione del Massimario della Corte di Cassazione dell’8 maggio 2014, Considerazioni sul principio del ne bis in idem nella recente giurisprudenza europea: la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia.
[3]Cfr, Corte cost. 16 luglio 2009 n. 239, in Foro it., 2010, I, 345 e 31 marzo 2008 n. 85, ibidem., 2009, I, 1699.