1. Il carattere fortemente innovativo della nuova normativa.
Nell’ambito del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile) convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014, n. 162, il legislatore ha introdotto due istituti di grandissimo rilievo, a prescindere da quella che sarà la loro reale portata applicativa, ancora tutta da accertare.
Infatti, fino ad allora era più o meno opinione comune che la separazione ed il divorzio fossero istituti connotati da rilevanti aspetti pubblicistici di rilievo tale da giustificare in via generale e necessaria l’intervento del pubblico ministero (art. 70, n. 2, c.p.c. e art. 5, comma 1, della legge sul divorzio); e questo perché la crisi della famiglia nata dal matrimonio è sempre stata considerata dal legislatore come un momento nel quale le parti dovevano confrontarsi con un sistema di regole e di verifiche di interesse pubblico; e, del resto, lo stesso diritto alla separazione ed al divorzio è stato sempre qualificato come indisponibile e non negoziabile.
Un recentissimo scritto apparso sulla Rivista di diritto civile (A. Morace Pinelli, La responsabilità per inadempimento dei doveri matrimoniali, 2014, pag. 1220) ricostruisce la concezione fortemente pubblicistica della famiglia che informava l’ordinamento giuridico quando fu promulgato nel 1940 il codice di procedura civile e fu delineato il procedimento di separazione: la famiglia … era “alla base dello Stato costituendo il luogo ove si sarebbero formati i futuri cittadini, lavoratori e soldati” ed il matrimonio non era “un istituto creato a beneficio dei coniugi, ma un atto di dedizione e sacrificio degli individui nell’interesse della società di cui la famiglia è nucleo fondamentale. In un siffatto contesto, il valore fondamentale era rappresentato dalla salvaguardia dell’unità della famiglia … . Per questo il matrimonio era indissolubile e la separazione personale che incrinava quell’unità era ammessa, cioè tollerata,” soltanto in presenza di gravi evenienze; mentre l’art. 147 c.c., nella sua originaria formulazione, imponeva ai genitori di “conformare l’istruzione e l’educazione della prole alla morale e al sentimento nazionale fascista”.
Ma questa visione della famiglia non sparirà con la caduta del fascismo, tant’è che l’articolo cita alcuni passaggi degli scritti di Cicu in “Sull’indissolubilità del matrimonio” del 1965, nei quali si sottolineava come la famiglia doveva considerarsi “un organismo etico avente ragione in un interesse superiore agli interessi individuali”. Ci vorrà molto più tempo perché si imponga nella società e nel diritto un’idea diversa di famiglia, anche in virtù dell’elaborazione degli articoli 2 e 29 della Costituzione (di “avvenuto superamento della concezione che ritiene la preminenza di un interesse, superiore e trascendente, della famiglia rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti”, parla espressamente cass. 18066 del 20/08/2014).
Ma se oggi si può dire che nel diritto sostanziale e soprattutto nella società reale il concetto di famiglia ha un ben diverso significato da quello originario non credo che si possa dire altrettanto del sistema processuale che continua a regolare la crisi del rapporto matrimoniale secondo un paradigma che nelle sue linee generali è praticamene fermo all’epoca di promulgazione del codice di procedura civile e cioè ad epoca precedente alla Costituzione repubblicana e che è ormai del tutto anomalo nel panorama europeo.
E’ noto, infatti, che nella grandissima parte dei paesi dell’Unione Europea la soluzione della crisi matrimoniale è direttamente il divorzio; la separazione è prevista per lo più in Europa, seppure con ovvie e significative differenze tra un ordinamento e l’altro (e tranne che in Romania dove l’istituto è del tutto sconosciuto), ma solo come alternativa al divorzio, come una forma di attenuazione degli obblighi derivanti dal matrimonio, e comunque mai come condizione per pervenire al divorzio. Ma i residui e persistenti riflessi di quella concezione tesa alla salvaguardia dell’unità della famiglia, che ha informato le scelte del legislatore del 1940, sono molteplici, a partire dal tentativo di conciliazione, risalente per la separazione al codice di procedura civile del 1940 e ripreso nel 1970 dal legislatore del divorzio, tentativo affidato al presidente del tribunale perché (all’epoca) persona autorevole e saggia che avrebbe dovuto indirizzare i coniugi verso il salvataggio del matrimonio.
Oggi anche questo costituisce un evidente anacronismo, del tutto avulso dalla realtà; per di più, dopo la piena parificazione giuridica e sociale dei figli nati fuori dal matrimonio a quelli nati nel matrimonio, sarebbe anche giusto chiedersi se sia eticamente, oltre che giuridicamente, corretto un sistema che impone al presidente del tribunale di svolgere il tentativo di conciliazione anche quando i coniugi hanno costituito nuovi nuclei familiari, dai quali sono nati figli che rischierebbero l’abbandono se il tentativo di conciliazione riuscisse; è un’ipotesi ovviamente irrilevante nella pratica, ma perché il giudice della famiglia deve continuare a fare cose inutili ed addirittura potenzialmente contrarie agli interessi dei minori direttamente o indirettamente coinvolti nella vicenda?
Ma un altro punto che va ribadito è che, nell’impostazione tutt’ora vigente del codice di procedura civile e della legge sul divorzio, l’intervento del pubblico ministero nel processo di separazione -non previsto dal codice del 1865 e introdotto dal codice del 1940 -, così come l’intervento nel giudizio di divorzio, non è solo funzionale alla tutela degli interessi dei minori, in quanto è previsto in termini generali in tutti i procedimenti di separazione e divorzio a prescindere dall’esistenza dei minori, come uno dei riflessi del carattere pubblicistico che caratterizza la crisi della famiglia nata dal matrimonio (cass. 03/12/1987, n. 8976; Vullo, Procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, Zanichelli Editore, pag. 50, ove si osserva che la ratio dell’art. 70 “va individuata nell’esigenza di tutelare l’interesse superiore della famiglia, interesse pubblico che del resto è ravvisabile ogni qualvolta la legge impone la partecipazione di questo organo al processo civile”); così come si ritiene indisponibile la materia dell’addebito della separazione (da ultimo, cass. n. 7998 del 04/04/2014), e rilevanti regole sono stabilite anche in ordine agli aspetti patrimoniali che coinvolgono esclusivamente i coniugi: l’art. 5 della legge sul divorzio che regola l’assegno divorzile impone un generale obbligo di trasparenza, con il deposito delle dichiarazioni dei redditi e di ogni documentazione relativa al patrimonio che implica l’onere di allegare anche elementi contra se in contrasto con i principi generali che regolano il processo civile, prevedendo nel contempo poteri e strumenti di indagine anch’essi assolutamente peculiari rispetto all’ordinario giudizio di cognizione; del pari, la determinazione di un assegno una tantum è soggetta ad una valutazione di equità da parte del tribunale.
E’ questo, in sintesi, il quadro nel quale a settembre 2014 viene emanato il decreto legge n. 132 del 2014 che prevede nel Capo II la procedura di negoziazione assistita da un avvocato, con una specifica disciplina nell’art. 6 delle “soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili e di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni delle separazione o di divorzio”, mentre l’art. 12 disciplina invece la “separazione consensuale, richiesta congiunta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e modifica delle condizioni di separazione o di divorzio innanzi all’ufficiale dello stato civile”; e l’esposizione che precede è essenzialmente funzionale a sottolineare come sul piano sistematico la nuova normativa finisca con il risultare “eversiva” rispetto al precedente sistema di regole, tanto più perché l’art. 2 della predetta normativa chiarisce esplicitamente al n. 2 che “la convenzione di negoziazione deve precisare: a) …; b) l'oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili…”; ed è chiaro che la medesima impostazione informa anche l’art. 12; con la conseguenza che da quel momento in Italia si hanno un divorzio e una separazione che si possono fare dinanzi all’ufficiale dello stato civile o con l’ausilio di avvocati, senza apparenti controlli se non funzionali alla tutela dei figli e sulla base di una pretesa disponibilità dei diritti oggetto dell’accordo, ed un divorzio ed una separazione che invece prevedono la decisione finale, nelle forme dell'omologa o della sentenza di divorzio congiunto, demandate ad un collegio del tribunale, con l’intervento obbligatorio del pubblico ministero e con il tentativo obbligatorio di conciliazione: non sono solo due (o tre) modi diversi di separarsi o di divorziare, ma in realtà sono il riflesso di due concezioni radicalmente diverse e difficilmente compatibili della separazione e del divorzio (G. Dosi, La negoziazione assistita da avvocati, Giappichelli Editore, p. 34, parla di trasferimento “in un’area inedita di indisponibilità attenuata”) .
2. I contenuti della nuova disciplina: la negoziazione assistita.
Il decreto legge emanato a settembre propone una versione per così dire minimalista della negoziazione assistita, perché il comma 2 dell’art. 6 la esclude ogni qualvolta ci siano figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave e perfino quando ci siano figli maggiorenni economicamente non autosufficienti.
La norma suscita forti critiche proprio per la ristrettezza dell’ambito applicativo: non piace alla magistratura per la sostanziale irrilevanza pratica e non piace alle associazioni degli avvocati di famiglia perché li considera incapaci di gestire situazioni in cui siano presenti figli. Inoltre, sono in molti ad evidenziare la discrasia che si determina nell’ordinamento con la previsione di una modalità di separazione e divorzio del tutto privatistica (nella prassi si parlerà di “divorzio fai da te”). Ed è così che nel passaggio alla Commissione Giustizia del Senato nasce una versione totalmente diversa, e molto più problematica, che recupera alcuni degli organi giurisdizionali protagonisti del procedimento di tipo consensualistico (e, specificamente, il pubblico ministero, probabilmente per allinearsi alle espresse previsioni normative in tema di separazione e divorzio, ed il presidente del tribunale), anche se gli affida compiti totalmente inusuali, e recupera altresì il tentativo di conciliazione, demandandolo agli avvocati.
La nuova versione è approvata definitivamente dalla Camera e viene così promulgata la legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162, che presenta una novità rilevantissima rispetto alla versione originaria: la possibilità di accordi anche in presenza di figli minori o che ad essi vengono equiparati.
L’ambito di applicazione è definito nel comma 1 dell’art. 6: la convenzione di negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte (è questa è una prima novità introdotta con la legge di conversione, sulla quale si tornerà più avanti) può essere conclusa tra coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio nei casi di cui all'articolo 3, primo comma, numero 2), lettera b), della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.
La prima osservazione che può farsi è che la nuova normativa non si applicherà in relazione alla regolamentazione dell’affidamento e del mantenimento di figli di coppie non coniugate; la seconda riguarda il divorzio: i nuovi istituti si applicano solo all’ipotesi di divorzio susseguente alla pronuncia passata in giudicato della separazione, o all’omologa della separazione consensuale ed al decorso dei tre anni dalla comparizione dei coniugi dinanzi al presidente del tribunale e non trovano quindi applicazione relativamente alle altre cause di scioglimento immediato del vincolo coniugale, legato a fattispecie particolari od anche all’applicazione di leggi straniere.
Ma la parte più complessa e problematica della normativa è contenuta nei commi 2 e 3.
In sostanza, se non ci sono figli o se i figli sono autonomi, il pubblico ministero è chiamato a valutare solo la regolarità dell’accordo. Il concetto di regolarità di un atto che ha un contenuto essenzialmente negoziale è un concetto non definito nell’ordinamento civilistico, sicché deve essere costruito dall’interprete, in base a quelle che sono le prescrizioni esplicitamente elencate dalla norma o implicitamente presupposte; è chiaro che tendenzialmente sarei portato a modellare l'intervento demandato al p.m. sulla base di quelli propri del presidente o del collegio, compatibilmente con le caratteristiche di un controllo che si svolge sulle carte e non alla presenza delle parti e che prevede tempi molto ristretti.
Indubbiamente sarà necessaria la verifica della competenza territoriale, in ragione della competenza territoriale del tribunale (che varierà ovviamente a seconda che si tratti di separazione, di divorzio o di modifica); parimenti si dovrà verificare che all’accordo abbiano partecipato almeno un avvocato per parte, che si dia atto del tentativo di conciliazione e degli altri adempimenti previsti dalla norma; ancora prima si dovrà verificare il rapporto di coniugio e l’assenza di figli, oltre che valutare il decorso del triennio nel divorzio, ecc. In pratica, le parti dovranno allegare una pluralità di certificati (matrimonio, stato di famiglia, residenza) oltre che produrre i precedenti provvedimenti giudiziali presupposti e, in futuro, il precedente accordo negoziato.
In linea di massima il controllo dovrebbe essere solo formale ma ci sono alcuni aspetti, inerenti al merito dell’accordo, che meritano di essere approfonditi:
a) La parificazione dei figli maggiorenni non autonomi ai figli minori è probabilmente impropria sotto il profilo giuridico ed inopportuna nel meccanismo normativo, in quanto la presenza o meno di figli non autonomi può incanalare l’accordo verso il “nulla osta” o verso il diverso provvedimento dell’ “autorizzazione”, incidendo quindi sul tipo di intervento e di esame demandati al pubblico ministero; ed è noto che l’autosufficienza è un concetto variabile, perché non ci sono parametri univoci, in quanto si deve avere riguardo ad una pluralità di fattori che attengono non solo all’età, al tipo di lavoro ed all’entità della retribuzione, ma anche al percorso di studi ed al livello sociale della famiglia di appartenenza.
Di fatto, sembra logico pensare che il pubblico ministero non possa che attenersi alla qualificazione adottata dalle parti nella stesura dell’accordo, salvo che da questo non emergano elementi che contraddicono tale qualificazione, come nel caso in cui siano previste forme di contribuzione al mantenimento: in questo caso il p.m. dovrà vagliare l’accordo nella prospettiva dell’autorizzazione.
b) Un problema particolare è se debba risultare qualche indicazione sui redditi e sui patrimoni delle parti; la norma non sembra esigerlo, ma riterrei che rientri tra i compiti degli avvocati esplicitare le premesse logiche dell’accordo, e quindi anche le condizioni reddituali e patrimoniali delle parti; e questo sia in funzione di eventuali contestazioni che dovessero insorgere tra l’avvocato ed il proprio cliente, sia in funzione della generale stabilità degli effetti dell’accordo, e non solo con riguardo ad eventuali richieste di modifiche delle condizioni, ma anche per evitare che l’accordo sia impugnato per presunti vizi della volontà; impugnazione che è generalmente ammessa in tema di separazione consensuale omologata (“stante la natura negoziale dell'accordo … deve ritenersi ammissibile l'azione di annullamento della separazione consensuale omologata per vizi della volontà”- cass. n. 17902 del 04/09/2004, nonché cass. n. 26202 del 22/11/2013) e che tanto più dovrebbe poter trovare applicazione con riguardo all’accordo derivante dalla negoziazione assistita, tant’è che l’art. 5, comma 4, prevede che costituisce illecito deontologico per l’avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato.
Non riterrei opportuno richiedere, tra la documentazione da allegare, le dichiarazioni dei redditi, sia perché queste spessissimo sono di difficile lettura, sia perché l’evasione fiscale è un dato statisticamente accertato e di grandi dimensioni, e comunque quasi sempre le dichiarazioni dei redditi si riferiscono fisiologicamente a situazioni ormai superate (la dichiarazione dei redditi che venga allegata nei primi mesi del 2015 riguarderà i redditi del 2013).
c) Uno dei problemi che si pone spesso nelle separazioni consensuali senza figli è il riferimento all’assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi: è noto che l’istituto, così come delineato nella giurisprudenza, non dovrebbe avere applicazione se non ci sono figli conviventi ed è una questione che normalmente nell’ambito delle procedure giudiziali viene corretta sostituendo in udienza il riferimento all’assegnazione con altri istituti; penso che il pubblico ministero, che non ha strumenti di correzione o di interlocuzione, dovrebbe considerarlo un motivo di irregolarità dell'accordo e denegare il “nulla osta”, perché l’assegnazione ha presupposti ed effetti tipici, che, avulsi dalla presenza di figli, non è facile definire compiutamente sia nella durata che nei riflessi nei riguardi dei terzi.
d) L’art. 5 elenca svariate questioni di ordine generale che in questa sede vengono solamente menzionate: la certificazione dell’autografia e della conformità dell’accordo alle norme imperative ed all’ordine pubblico; il carattere di titolo esecutivo che acquisisce l’accordo, mentre il passaggio in giudicato di una sentenza di divorzio congiunto è soggetta ai modi ed ai termini ordinari (la Cassazione sembra aver risolto in epoca recente la questione dell’esecutività immediata dei decreti di modifica); la possibilità di prevedere nell’ambito dell'accordo trasferimenti immobiliari (circostanza molto controversa nella giurisprudenza con riguardo alle procedure giurisdizionali). Ciò che sembra rilevante sottolineare è che il pubblico ministero non potrà emettere alcuna valutazione in ordine alla congruità o all’equità dell’accordo; tutta questa sfera di enorme rilievo pratico sembra rimessa alla fase della negoziazione e quindi agli avvocati, che vengono massimamente responsabilizzati.
Ritengo, invece, che il pubblico ministero difficilmente potrebbe esimersi dal rilevare la contrarietà dell’accordo a norme imperative o all’ordine pubblico per il solo fatto che questi aspetti sono oggetto di certificazione da parte degli avvocati; ed una fattispecie che può prospettarsi, perché talvolta capita nelle separazioni consensuali, è quella dell’accordo di separazione che preveda l’impegno a divorziare a determinate condizioni con definizione cosiddette “tombali” dei diritti delle parti; siccome, in proposito, la Cassazione parla di nullità per illiceità della causa (cass. n. 5302 del 10/03/2006); e, ai sensi dell’art. 1343 c.c., l’illiceità della causa si ha quando la stessa è contraria a norme imperative o all’ordine pubblico ed al buon costume, mi sembra un caso in cui il problema del contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico possa essere motivo di diniego del “nulla osta”, a prescindere dalla certificazione riferibile agli avvocati.
e) E’ probabile inoltre che anche nella negoziazione assistita si riproporranno tutti quei temi che la giurisprudenza non ha risolto in modo uniforme neppure con riguardo alla separazione consensuale, nel senso che se si ritiene che il giudice non possa sindacare mai la volontà delle parti con riguardo ai diritti disponibili (come sostiene Luiso, Processo civile efficiente e riduzione arretrato, Giappichelli Editore, p. 34), allora anche la valutazione del pubblico ministero diventa necessariamente più sommaria; se invece, si ritiene che il giudice prima di un decreto di omologa o di una sentenza di divorzio debba valutare la rispondenza a logica del proprio provvedimento, si aprono una serie di problemi, come ad esempio quello dei “separati in casa”: la separazione presuppone o meno che i coniugi vivano in residenze diverse?
Il tribunale di Roma tende a rispondere positivamente e quindi a non omologare quelle separazioni in cui i coniugi continuino a coabitare se la casa non si presta ad essere divisibile, ma a tale orientamento si oppone che il venir meno dell’obbligo di convivenza non determina l’obbligo di cessare la coabitazione; e questo è un problema che ha anche dei riflessi significativi sulle separazioni simulate, dirette solo a fini fiscali o pensionistici; io, in coerenza con quello che è a Roma il controllo demandato al presidente nelle separazioni consensuali, tendo a ritenere che il pubblico ministero dovrebbe verificare che siano indicati i diversi luoghi di residenza che assumeranno i coniugi o pretendere, quantomeno, una pianta della casa con un progetto di divisione, perché se si sospetta che una separazione sia finta non si può dare il “nulla osta”; e questo a tutela non solo del deficit dell’INPS ma anche dei terzi che possono trovarsi di fronte ad un provvedimento trascritto di assegnazione della casa.
Analoghi problemi si porranno riguardo alla valutazione della congruenza degli impegni assunti rispetto ai redditi dichiarati: (si può omologare una separazione o pronunciare un divorzio quando il reddito dichiarato dalla parte non copre o non giustifica l’entità delle obbligazioni di mantenimento che ricadono sull’obbligato? E' un aspetto che rientra nel sindacato sulle “irregolarità” dell’accordo?) La mia opinione è che il giudice non possa limitarsi a prendere atto della volontà delle parti, qualsiasi essa sia, ma deve sempre pronunciare provvedimenti tendenzialmente congruenti con la situazione di fatto che emerge dagli atti.
Va sottolineato, infine, che il diniego del “nulla osta” non sembra impugnabile in alcun modo: le parti dovranno quindi riproporre l’accordo immune dal vizio formale che lo inficiava o perseguire altre strade; ciò significa pure che il provvedimento negativo del pubblico ministero dovrà essere esplicito nell’indicazione delle ragioni del diniego.
Un’ultima notazione riguarda l’interpretazione che si è inteso dare alla nuova normativa nell’ambito del Ministero dell'interno, che dopo una prima circolare (n. 16 del 1° ottobre 2014) e, a seguito delle modifiche apportate in sede di conversione del decreto-legge, è nuovamente intervenuto sulla materia con la circolare n. 19 del 28 novembre 2014, con delle scelte di difficile spiegazione se non collocate in un’ottica tendenzialmente restrittiva dell'ambito di efficacia delle nuove disposizioni. Per esempio, a proposito della negoziazione assistita, si fa derivare dalla previsione dell’esigenza di almeno un avvocato per parte l’obbligo per entrambi gli avvocati di trasmettere l’accordo autorizzato, prevedendosi in termini drastici e quasi intimidatori che “l’ufficiale dello stato civile dovrà ricevere da ciascuno degli avvocati l’accordo autorizzato” e che decorso il termine di dieci giorni, “dovrà avviare l’iter per l’irrogazione delle sanzioni a carico del legale che abbia violato l’obbligo di trasmissione entro il predetto termine”.
La circolare in sostanza, intesa in senso letterale, sembra prefigurare una trasmissione separata dell’accordo da parte dei due avvocati; certamente non è questo il significato della previsione legislativa: la norma, rimasta immutata dall’originaria versione del decreto-legge, si limita a prevedere che “l’avvocato della parte” è tenuto a trasmettere l’accordo, e questo perché il testo originario del decreto contemplava la possibilità che fosse uno solo l’avvocato coinvolto nella negoziazione; adesso che la legge di conversione ha stabilito la partecipazione di almeno due avvocati, lascia profondamente perplessi che se ne faccia discendere la necessità di due distinti oneri di trasmissione, a pena dell’irrogazione di pesanti sanzioni.
3. La negoziazione assistita in presenza di figli minori o non autonomi.
Quando i coniugi hanno figli (come detto la norma accorpa inopportunamente figli minori, incapaci, o portatori di handicap grave ai maggiorenni non autonomi), la normativa si presenta ancora più complessa. Una prima questione di incerta interpretazione attiene alla previsione del termine di dieci giorni per la trasmissione dell’accordo al pubblico ministero che invece non esiste nell’ipotesi di mancanza di figli: non si comprende la ratio della differenza, e, soprattutto, non è agevole individuare le conseguenze dell’eventuale inosservanza di tale termine; è probabilmente un termine processuale alla luce della giurisprudenza che estende tale categoria anche ai termini per attivare un procedimento giudiziale (cass. n. 3351 del 18/04/1997; cass. n. 2195 del 14/02/2003); ma questo può risolvere qualche problema a livello di computo del termine e dell’applicabilità della sospensione feriale, ma non aiuta a dirimere il problema delle conseguenze della violazione.
Chiaramente il pubblico ministero, anche in presenza di figli, dovrà sindacare gli aspetti formali e rilevare eventuali irregolarità. Infatti, sebbene la norma, relativamente all’ipotesi della presenza di figli, faccia riferimento esclusivamente ad un controllo sulla rispondenza dell’accordo all’interesse dei figli, tuttavia si può ragionevolmente ritenere che anche in questo caso il pubblico ministero possa rifiutare il “nulla osta” per irregolarità formali quali l’incompetenza territoriale, la presenza di un solo avvocato, l’inadeguatezza della certificazione, ecc.; evenienze che renderebbero del tutto inutile il trasferimento dell’accordo dinanzi al presidente del tribunale; e comunque, ragioni sistematiche inducono a ritenere che ad uguali vizi debbano corrispondere analoghi esiti processuali.
Relativamente al controllo degli interessi dei minori, gli aspetti che possono venire in rilievo sono tradizionalmente due: la regolamentazione dell’affidamento e la congruità del mantenimento.
In relazione al primo aspetto, riterrei che il p.m. possa senz’altro sindacare un affidamento esclusivo non adeguatamente giustificato perché il legislatore ha chiaramente indicato che è l’affidamento condiviso il sistema che risponde maggiormente all’interesse dei figli; del pari, possono essere sindacate modalità di frequentazione non coerenti al principio della bigenitorialità (la questione, del resto, è evidenziata anche nel testo normativo tra gli oneri posti a carico degli avvocati) o che sacrifichino troppo i minori, con spostamenti troppo frequenti e gravosi.
In realtà, l’esperienza evidenzia un ventaglio di ipotesi in cui possono emergere rilevanti margini di incertezza: ad esempio, la collocazione alternata dei figli può andar bene in alcuni casi, spesso a seconda dell’età dei figli, e può essere un problema in altri; più problematica ancora è l’ipotesi in cui siano i genitori ad alternarsi nella casa coniugale; perfino la collocazione separata dei figli in alcuni casi può essere opportuna, mentre in linea generale si tende a non separare i fratelli; sono quei casi nei quali il tribunale di Roma usa riconvocare i coniugi a distanza di qualche mese e poi procede all’emissione del provvedimento solo dopo la conferma che il regime scelto non abbia dato luogo a problemi. Le stesse cautele ovviamente non potranno essere adottate dal pubblico ministero e neppure dal presidente il quale deve provvedere “senza ritardo”. Come regolarsi poi rispetto a quelle ipotesi in cui il coniuge, che si allontanerà dalla casa, non sia in grado di indicare dove andrà ad abitare o non disponga di sistemazioni abitative idonee per prolungate permanenze dei minori?
Quello che riterrei di escludere è che il p.m. sia tenuto o possa procedere all’ascolto dei minori; è ormai consolidata in tutti gli uffici giudiziari la prassi secondo cui, quando i genitori sono d’accordo (separazioni consensuali, divorzi congiunti e modifiche congiunte) l’ascolto deve considerarsi, in linea generale, superfluo; è chiaro che la realtà meriterebbe tante volte di essere approfondita, ma non credo che ci si possa permettere di recedere da questo principio, tanto più che la norma concede solo cinque giorni al p.m. per negare l’autorizzazione e rimettere gli atti al presidente del tribunale; penso, quindi, che il pubblico ministero dovrà limitarsi ad un vaglio preventivo di carattere generale, denegando l’autorizzazione e rimettendo al presidente del tribunale quelle situazioni che possono apparire non adeguatamente chiare.
Riguardo alla valutazione inerente alla congruità del mantenimento, occorre ribadire la necessità che nell’accordo figuri una puntuale, anche se sommaria, descrizione delle condizioni economiche dei coniugi rispetto ai redditi, alle proprietà, alle situazioni abitative; però deve essere chiaro che i coniugi possono liberamente concordare forme di mantenimento diretto, o anche per comparti di spesa. Piuttosto, alla stregua della giurisprudenza della cassazione (cass. n. 9372 del 08/06/2012) tenderei ad escludere la possibilità di prevedere assegni omnicomprensivi, con la conseguente necessità di definire anche una regolamentazione delle spese straordinarie.
Vale la pena di evidenziare una singolare discrasia della previsione normativa: nell’ipotesi di autorizzazione da parte del pubblico ministero la norma non fissa termini, mentre in caso di non autorizzazione il trasferimento al presidente del tribunale deve avvenire entro un termine strettissimo; non vale la pena chiedersi il perché di tale diversa previsione, tanto l’eventuale inosservanza del termine non sembra poter esplicare alcuna conseguenza pratica.
Se, nel delineare il nuovo procedimento, fino a questo punto il legislatore è stato confuso, nella fase successiva è stato del tutto reticente, limitandosi a prevedere che il presidente del tribunale deve convocare le parti entro trenta giorni e provvedere senza ritardo. La norma ha dato immediatamente luogo a due interpretazioni: l’una diretta a sostenere che, una volta arrivato in tribunale, l’accordo dovrebbe sfociare in uno dei procedimenti giurisdizionali tradizionali: separazione consensuale, divorzio congiunto o modifica congiunta (in questo senso Luiso, op. cit. p. 39; G. Dosi op cit,. p. 81, parla di inizio di giudizio contenzioso); l’altra rivolta a costruire un singolare procedimento all’esito del quale il presidente autorizza o non autorizza l’accordo (è una soluzione verso la quale si stanno indirizzando diversi uffici giudiziari, compreso il tribunale di Roma).
A mio avviso, esistono almeno due argomenti di natura letterale per sostenere questa seconda tesi: il primo è che la norma prevede che il presidente procede prima alla comparizione delle parti e poi “provvede senza ritardo”; è chiaro che nell’ipotesi di procedimenti di separazione consensuale, di modifica delle condizioni, di divorzio congiunto, una volta avvenuta la comparizione delle parti, non è il presidente ma il collegio del tribunale che deve emettere gli opportuni provvedimenti, essendosi le funzioni presidenziali esauritesi con la comparizione delle parti o soltanto con la fissazione di questa; un secondo argomento è che la norma prosegue poi facendo esplicito riferimento all’ ”accordo autorizzato”, disciplinando, almeno apparentemente, in maniera unitaria il provvedimento del pubblico ministero e quello del presidente.
Anche sul piano logico non mi è chiaro perché il pubblico ministero che neghi l’autorizzazione debba trasmettere l’accordo al presidente del tribunale se poi alla fine le parti devono comunque proporre un’istanza di separazione consensuale, di divorzio congiunto o di modifica che, nella gran parte dei casi, potrebbe non ricalcare quella “bocciata” dal pubblico ministero; così come non mi è chiaro come si riesca a trasformare un accordo che arriva in tribunale dal pubblico ministero in una domanda delle parti diretta ad instaurare un procedimento.
Non intendo, peraltro, nascondere le palesi incongruenze della soluzione alternativa che prefigura un procedimento monocratico, di competenza presidenziale (in una materia in cui tutto è collegiale, tanto più se è il p.m. ad attivare il procedimento) volto all’autorizzazione dell’accordo, ma nel contesto di grande innovazione che, come sopra evidenziato, caratterizza tutta la normativa in esame, questo mi sembra un problema superabile; e, comunque, è mia convinzione che valga la pena sostenere tesi innovative che possono contribuire a far emergere le incrostazioni di un sistema processuale fermo, nelle sue linee generali, al 1940, al tentativo di conciliazione, all’intervento obbligatorio del p.m., ecc. Mi limito a segnalare, sul punto, che la seconda tesi trova un riscontro esplicito nel decreto ministeriale 9 dicembre 2014, emanato dal Ministro dell’interno, che elenca “il provvedimento del presidente del tribunale” tra gli atti che autorizzano l’ufficiale dello stato civile alla trascrizione della convenzione.
Penso altresì che valga la pena accennare sinteticamente ad altri due aspetti: in primo luogo, dopo la mancata autorizzazione da parte del pubblico ministero ed anche all’udienza di comparizione dinanzi al presidente, le parti possono modificare in itinere l’accordo o, invece, l’intervento del presidente è soltanto una sorta di gravame avverso il diniego del p.m.?
Le prime applicazioni sembrano indirizzarsi verso la seconda soluzione, che ha anche una sua logica nell’ambito di un procedimento informato alla degiurisdizionalizzazione ed alla conseguente snellezza delle fasi giudiziali dello stesso; però la tesi non mi sembra compatibile con la previsione della comparizione delle parti, che non avrebbe alcun senso se il presidente dovesse esprimersi solo in base alle carte trasmesse dal pubblico ministero. Io credo che si possa ragionevolmente pensare ad una soluzione che preveda che le parti possano addivenire a modifiche o a integrazioni dell’accordo originario, di portata limitata (essenzialmente quelle correzioni che non possono essere fatte nella fase dinanzi al pubblico ministero), ma questa affermazione di principio andrà verificata nella pratica, perché c’è da chiarire la data dell’accordo e c’è da valutare anche la questione di eventuali atti soggetti a trascrizione, che prevedono l’intervento di pubblici ufficiali.
La seconda questione è se il presidente possa rilevare motivi di inadeguatezza dell'accordo anche non evidenziati dal p.m.; io credo che, sul punto, sia configurabile un vero e proprio obbligo perché, vertendosi in tema di tutela dei minori, non si può ipotizzare che il giudice possa avallare soluzioni che a suo avviso sono contrarie agli interessi degli stessi. Tendo invece ad escludere, per le stesse ragioni sopra esposte, che possa esservi spazio per l’ascolto dei minori, perché la natura e la struttura del procedimento non consente attività che, se applicate in via generale (e sostanzialmente obbligata ex art. 315-bis, comma terzo, c.c.), determinerebbero un effetto esattamente contrario alla logica della degiurisdizionalizzazione, dando luogo ad impegni più gravosi per l’apparato giudiziario di quelli usualmente affrontati nelle procedure che la negoziazione è tendenzialmente rivolta a sostituire.
Tutto ciò può dar luogo a carenze nella tutela dei minori? Credo che la risposta dipenderà essenzialmente da due cose: dalla capacità dell’avvocato di far emergere le eventuali criticità dell’accordo, discriminando quelle situazioni che meritano di essere affrontate nell’ottica di un’eventuale procedimento giurisdizionale consensuale o, al limite, contenzioso, anziché nelle forme di una procedura che non consente significativi approfondimenti e, nel contempo, dalla disponibilità del pubblico ministero rispetto all’idea riappropriarsi di funzioni sostanzialmente obliterate nel tempo, ma che potrebbero, peraltro, riacquisire un rilievo primario nell’ottica del Tribunale per la famiglia (ove questo, più volte annunciato, dovesse mai andare in porto e qualora dovesse prevalere la linea che tende a trasferire presso il tribunale ordinario gran parte delle competenze del tribunale per i minorenni).
Infine, credo che anche, con riguardo alla negoziazione assistita, sia applicabile il divieto dell’art. 56, comma 2, del codice deontologico riguardo all’ascolto del minore da parte dell’avvocato.
4. Il cosiddetto “divorzio facile”.
L’art. 12 della nuova normativa prevede che i coniugi possano separarsi, divorziare (sempre nella sola ipotesi di precedente separazione e di decorso del triennio), o modificare le condizioni di separazione e divorzio direttamente dinanzi all’ufficiale dello stato civile, ma con una serie di limitazioni che in pratica riducono fortemente l’ambito applicativo della disposizione. Intanto, la norma esclude al comma 2 l’ipotesi in cui vi siano figli minori, incapaci, portatori di handicap grave, o economicamente non autosufficienti e ciò certamente risponde alla logica di un sistema che tende a preservare, anche se confusamente, aree di indisponibilità. In proposito, però, la menzionata circolare estende l’esclusione anche all’ipotesi in cui vi siano figli di “una sola parte” e francamente tale limitazione - dalla quale sembra discendere l’impossibilità di adire l’ufficiale dello stato civile anche per chi abbia figli nati da una diversa unione e che neppure convivono con la coppia (si pensi all’ipotesi frequente in cui dopo la separazione di fatto uno dei coniugi abbia avuto un figlio minore da altra unione) - sembra oggettivamente illegittima perché non prevista dalla norma, oltre che del tutto priva di ogni logica.
Eppure il decreto ministeriale 9 dicembre 2014, sulla scia della circolare, impone alle parti di dichiarare all’ufficiale dello stato civile di non essere genitori di figli rientranti nelle categorie sopra elencate, ricomprendendo verosimilmente anche i figli di una sola parte.
Altrettanto inspiegabile è l’atteggiamento assunto con riguardo ai patti di trasferimento patrimoniale: l’espressione adottata dal legislatore già nel testo del decreto legge era chiaramente inappropriata ed ambigua, ma sembrava impossibile che qualcuno potesse interpretarla nel senso di escludere qualsiasi pattuizione di contenuto patrimoniale, quali assegni, disposizioni relative alla casa, ecc.; e questo, perché il comma 1 prevede la possibilità di modificare le condizioni della separazione e del divorzio, e francamente non si capisce quale oggetto possano avere gli accordi di modifica, in un contesto in cui non vi sono figli, se si nega alle parti di incidere sull’assetto economico del divorzio o della separazione; inoltre nel comma 3 si parla espressamente di “condizioni concordate” dell’accordo di separazione e di divorzio.
Invece l’amministrazione dell’interno, che con la predetta circolare ha affermato che “in assenza di specifiche indicazioni normative, va pertanto esclusa dall’accordo qualunque clausola avente carattere dispositivo sul piano patrimoniale, come ad esempio, l’uso della casa coniugale, l’assegno di mantenimento ovvero qualunque altra utilità economica tra i coniugi dichiaranti”. In sostanza, potranno rivolgersi all’ufficiale dello stato civile solo i coniugi che vogliano separarsi o divorziare, secondo lo schema classico della previa separazione, senza figli (salvo che non siano maggiorenni ed autonomi) e senza alcuna regolamentazione degli aspetti patrimoniali; viene di fatto espunta dall’ordinamento la possibilità di richiedere consensualmente modifiche delle condizioni.
Sono due limitazioni che destano profonde perplessità e che verosimilmente si spiegano solo con le dinamiche interne all’attuale compagine di governo, ove, rispetto ad una legge votata dalla maggioranza dopo i profondi rimaneggiamenti ricevuti in Senato, il dicastero guidato dal rappresentante della componente di centrodestra ha verosimilmente inteso optare per una lettura più restrittiva possibile dell’istituto maggiormente dirompente rispetto agli assetti tradizionali della crisi matrimoniale.
Credo che il rimedio percorribile sia il ricorso al giudice ex art. 95 del d.p.r. 396 del 2000 contro il rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, un’annotazione o altro adempimento, ma la questione ha una sua intrinseca complicazione nel meccanismo che prevede, in base al citato D.M., che le parti che vogliano separarsi o divorziare dovranno dichiarare su modelli prestampati di non essere genitori di figli rientranti nelle categorie “protette” e di non aver pattuito trasferimenti patrimoniali, nel senso sopra indicato; la mancata redazione di tale modulo probabilmente bloccherà la procedura che si articola nella convocazione delle parti dinanzi all’ufficiale dello stato civile dopo trenta giorni per confermare l’accordo, con la conseguenza che alla fine si avranno modelli non conformi allo standard imposto dall’amministrazione ed accordi non confermati e quindi, comunque, privi di effetti. E, soprattutto, c’è da chiedersi se a questo punto non sia preferibile ab initio la via giurisdizionale.
5. Considerazioni finali.
Se si guarda fuori di Italia, è evidente che la scelta operata dal legislatore in materia di famiglia è quella del contenimento e dello snellimento del contenzioso familiare anche nei suoi aspetti patrimoniali, nella consapevolezza che due genitori che litigano, anche solo per i profili economici, raramente sono buoni genitori.
La Francia, in particolare, si è mossa da tempo nella direzione di privilegiare la mediazione, non soltanto con la creazione di centri di mediazione, ma anche con la diffusione di una cultura informata espressamente alla dedramatisation del divorzio, oltre che alla concentrazione nel tempo del conflitto anche nei suoi aspetti patrimoniali, privilegiando ad esempio l’erogazione di somme forfettarie ed in unica soluzione, magari pagabili a rate ma comunque predeterminate nel tempo e nella quantità.
Ancora più netta è la scelta del legislatore tedesco che ha inserito espressamente in una norma il principio per cui, salve alcune deroghe di carattere temporaneo, dopo il divorzio ciascun coniuge provvede al proprio mantenimento; questo nell’ambito di una politica esplicitamente diretta alla “correzione della vita familiare”, il cui obiettivo dichiarato era l’incentivazione dell’inserimento della donna nel mondo del lavoro e la parificazione dei ruoli genitoriali nell’ambito della famiglia (in proposito, M. Blasi e G. Sarnari, I matrimoni e le convivenze “internazionali”, Giappichelli editore).
Di contro, in Italia, pur nel notorio sfascio della giustizia civile, si ritiene giusto che i coniugi possano litigare dinanzi al giudice in due procedimenti diversi e successivi e possono anche perseguire tre gradi di giudizio solo per far dichiarare l’addebito della separazione, che spessissimo non ha alcuna conseguenza pratica; e alla separazione ed al divorzio faranno da corollario una pluralità di altre tipologie di contenzioso: i conflitti sulle spese straordinarie, lo scioglimento della comunione, le controversie derivanti dall’inadempimento dei coniugi alle clausole della separazione o del divorzio, fino alle azioni di simulazione od alle revocatorie dei trasferimenti patrimoniali, ecc.; perfino gli incrementi patrimoniali che intervengano ad anni di distanza dalla fine della convivenza possono giustificare nuove discussioni tra gli ex coniugi.
E’ strano come si parli tanto di tutela del minore in un ordinamento che non fa nulla per limitare la proliferazione del contenzioso: è nelle librerie l’ultimo testo del prof. Montecchi dedicato a “I figli nelle separazioni conflittuali e nella (cosiddetta) PAS”, in cui già appare estremamente esplicativo il sottotitolo: “Massacro psicologico e possibilità di riparazione” e nel quale si parla espressamente di bambini coinvolti nei quotidiani conflitti di lealtà ed “oggettivamente a rischio di danno evolutivo” (ed. Franco Angeli, p. 76). Ma tutti sappiamo che “contenere” il contenzioso familiare in Italia significherebbe, in primo luogo, eliminare la separazione e fare definitivamente i conti con quel principio dell’indissolubilità del matrimonio che, per ragioni storiche, non è certo agevole scardinare o ridimensionare, e, in secondo luogo, affrontare il problema di categorie di professionisti e lavoratori (avvocati, collaboratori degli studi legali, ed il relativo indotto) numericamente sovrabbondanti e già duramente toccati dalla generale crisi economica.
La nuova normativa può quindi essere uno strumento che funzioni da stimolo per una complessiva evoluzione dell’avvocatura verso un approccio che privilegi la mediazione e la negoziazione, e che releghi il conflitto giudiziale a quelle questioni che effettivamente lo meritino. E’ verosimile che il suo ambito di operatività tenderà a coincidere per gran parte con la sfera delle procedure consensuali e solo raramente riuscirà a canalizzare verso forme di definizione consensuale (in numero maggiore di quanto già adesso gli avvocati non riescano a fare) le potenziali controversie di tipo conflittuale che fioriscono intorno alla crisi della famiglia.
Ma questo significherebbe il sostanziale fallimento della nuova normativa: anche terminologicamente la negoziazione assistita si collega a situazioni che richiedono un intervento di negoziazione e di accompagnamento dei coniugi verso soluzioni consensuali. In questa ottica, la responsabilizzazione degli avvocati è un’occasione da non perdere, né da parte degli stessi avvocati, chiamati ad assumere quel ruolo di mediazione e di negoziazione che la legislazione oggi offre loro, e non solo con la normativa in esame, né da parte dei giudici che devono saper gestire le incongruenze delle norme per incrementare il più possibile tale condivisione di responsabilità, quale motivo di crescita della sensibilità dell’avvocatura verso quel ruolo di mediazione che caratterizza la figura dell’avvocato in tutti i grandi paesi stranieri.