- Tribunale di Roma, Sez. III Lavoro - decreto 07.12.2020
- Tribunale di Roma, Sez. III Lavoro - ordinanza 01.08.2020
1. L’antefatto
Con la decisione della Corte cost. 13 giugno 2018 n. 120[1] la libertà di formare sindacati è stata estesa anche al personale delle Forze armate. Il Codice dell’ordinamento militare (d.lgs. n. 66/2010, d’ora in avanti Com), infatti, affermava che i militari non potessero costituire associazioni professionali a carattere sindacale (cfr. art. 1475 comma 2 Com), confermando il divieto formulato nell’art. 8 l. n. 382/1978 e, prima, nel d.lgs.lgt. n. 205/1945[2]. In particolare, i giudici delle leggi hanno dichiarato illegittimo il divieto, per violazione dell’art. 117 Cost. e dei parametri interposti dell’art. 11 Cedu[3] e dell’art. 5 della Carta sociale europea[4], ribaltando il precedente di quasi due decenni prima[5].
La decisione, però, non ha sorpreso gli osservatori più attenti. La nuova formulazione dell’art. 117 Cost. (modificato da l. cost. n. 3/2001) e la giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti dell’uomo, avrebbero infatti dovuto mettere in allerta il legislatore già da tempo[6]. Ciò perché l’obbligo costituzionale di legiferare nel rispetto dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» impone di attenersi anche all’interpretazione vincolante della Corte di Strasburgo, secondo cui la Cedu – ma lo stesso vale per altre trattati[7] – vieta di negare la titolarità delle libertà sindacali e ammette solo proporzionate limitazioni al loro esercizio, a garanzia della specialità dell’ordinamento militare.
Come accade spesso quando il legislatore latita sui temi scottanti, la Consulta ha operato un intervento abrogativo problematico, perché, da un lato, la dichiarazione di illegittimità produce effetti non differibili, ma, dall’altro, la disciplina di risulta non contiene una regolamentazione limitativa su misura delle peculiarità delle Forze armate. Peraltro, i giudici delle leggi hanno chiarito che tale regolamentazione rappresenta nell’ordinamento interno una necessità costituzionale che spetta al legislatore soddisfare (ex art. 52 Cost.), e non, invece, soltanto una facoltà concessa agli Stati dalle fonti internazionali.
Per uscire dall’impasse, la Consulta ha ritenuto che, in verità, la disciplina di risulta offra degli appigli sufficienti per l’immediato esercizio delle libertà sindacali essenziali in ambito militare. Per certi versi, ciò è vero. Il divieto di sciopero nelle Forze armate, infatti, è previsto all’art. 1475 comma 3 Com e non è stato scalfito dalla decisione della Corte. Lo stesso può dirsi per l’assenso preventivo del Ministero della Difesa che l’art. 1475 comma 1 Com richiede in caso di costituzione di associazioni o circoli: con la decisione della Consulta, infatti, questo onere si applica anche alle associazioni di natura sindacale.
La Consulta, tuttavia, è andata oltre, proponendo di applicare in via analogica anche i limiti previsti dalla disciplina sulla rappresentanza istituzionale dei militari (cfr. gli artt. 1476 Com e ss. istitutivi dei Co.Ce.R., Co.I.R. e Co.Ba.R.). I rischi di questa proposta ermeneutica sono gravi, come la Corte stessa riconosce sollecitando un intervento risolutivo del legislatore. Infatti, ad applicare senza elasticità la soluzione accomodata dalla Consulta, i nuovi sindacati militari potrebbero finire imbrigliati nella stessa rete di vincoli che il legislatore aveva previsto per gli attuali organi della rappresentanza istituzionale, svilendone la natura sindacale.
Gli effetti discutibili di questa situazione non si sono fatti attendere e accompagneranno ancora le Forze armate, visto che l’approvazione del disegno di legge sollecitato dalla Corte procede a rilento[8]. L’esempio più clamoroso di ciò è dato dal fatto che la vecchia rappresentanza istituzionale continua a svolgere le proprie funzioni di concertazione, mentre i nuovi sindacati non hanno ancora uno spazio certo per negoziare ed esercitare le proprie libertà. Per dare idea del rilievo della questione, si consideri che i militari potenzialmente interessati sono più di 250.000 – fra Esercito, Marina, Aeronautica, Guardia di Finanza e Carabinieri, compresi i Forestali – e che sono state riconosciute finora 39 sindacati.
2. Il caso di specie e le questioni giuridiche
I fatti di causa sono pacifici: il sindacato militare ricorrente veniva costituito e riconosciuto dal Ministero della Difesa il 28 agosto 2019. Nel luglio del 2020 un capitano di un reparto milanese si iscriveva a tale sindacato e ne diveniva segretario generale regionale. Il 17 agosto 2020 il Comando competente comunicava al militare il trasferimento in Liguria, senza coinvolgere il sindacato di riferimento. Il 28 agosto 2020 la difesa del sindacato depositava il ricorso ex art. 28 st. lav. davanti al giudice ordinario del lavoro del Tribunale di Milano.
La controversia ruota attorno a tre questioni squisitamente giuridiche: la giurisdizione competente, la legittimazione attiva del sindacato e, nel merito, la necessità (o meno) di trasferire il militare sindacalista previo nulla osta dell’organizzazione interessata. In fase sommaria, il decreto ha riconosciuto la giurisdizione ordinaria, ma ha respinto il ricorso perché non era stata provata la legittimazione attiva del sindacato militare. Nonostante il rigetto, il Ministero della Difesa vittorioso si è opposto al decreto per vedere accolta l’eccezione preliminare in materia di giurisdizione. La scelta è evidentemente dipesa dal fatto che il valore della posta nella contesa sulla giurisdizione competente è campale e travalica quello del merito della controversia specifica. La difesa del sindacato, come era scontato, ha approfittato dell’opposizione datoriale per opporsi a sua volta al decreto, integrando il quadro probatorio. A conclusione della seconda fase del giudizio, la sentenza del Tribunale ha confermato la giurisdizione ordinaria, ma ha ritenuto raggiunta la prova sulla legittimazione attiva del sindacato. Nel merito, quindi, ha dichiarato antisindacale la condotta del Comando dei Carabinieri, ordinando l’immediato rientro del militare nella sede milanese.
Senza ignorare le altre questioni meno dirompenti (§4), nel presente scritto ci si sofferma sulla questione giurisdizionale, per la sua novità e per l’impatto anche simbolico che ha assunto nelle nascenti relazioni sindacali dei militari (§ 3).
3. La giurisdizione ordinaria sulle condotte antisindacali in ambito militare
Come anticipato, i giudici aditi hanno affermato, per la prima volta, la giurisdizione ordinaria sulle controversie in materia di condotte antisindacali asseritamente realizzate dai vertici di una Forza armata (in questo caso l’Arma dei Carabinieri). La novità del fenomeno impedisce di individuare dei precedenti. Pertanto, il Tribunale milanese ha fatto leva sulla casistica relativa ai sindacati del personale soggetto al regime di diritto pubblico che, come quello militare, è rimasto escluso dalla c.d. contrattualizzazione del pubblico impiego (ex art. 3 d.lgs. n. 165/2001, d’ora in avanti, Tupi).
Il decreto opposto rinvia, in particolare, alle motivazioni di Cass. 24 settembre 2010 n. 20161[9] sulla condotta antisindacale perpetrata dalla Banca d’Italia contro un sindacato dei propri dipendenti. Si tratta, in effetti, dell’espressione più esaustiva di un orientamento ampiamente dominante: la giurisdizione ordinaria è stata infatti riconosciuta anche per le condotte ex art. 28 st. lav. delle Università, della Polizia di Stato e della Polizia penitenziaria, commesse ai danni (dei sindacati) del loro personale non contrattualizzato[10]. L’orientamento accolto si fonda su una particolare interpretazione dell’art. 63 comma 3 Tupi[11], il quale, senza prevedere eccezioni, devolve al giudice ordinario ogni controversia sulle condotte antisindacali delle PA. Si è così fatta strada l’idea che questa disposizione prevalga sui commi 1 e 4 del medesimo art. 63, i quali, invece, distribuiscono la giurisdizione fra giudice ordinario ed amministrativo nell’ambito delle controversie inerenti ai rapporti individuali di impiego contrattualizzato e non. Ciò, a partire da due presupposti condivisibili: 1) che tale secondo ambito sia diverso da – o più generico di – quello delle controversie relative ai rapporti sindacali; 2) che l’abrogazione nel 2000 dei commi 6 e 7 dell’art. 28 st. lav. – che distribuivano la giurisdizione sulle condotte antisindacali della PA[12] – sia interpretata come volontà di concedere al giudice ordinario una competenza giurisdizionale esclusiva. Oggi questa interpretazione è quasi unanimemente condivisa in letteratura[13] e rappresenta l’esito di un percorso cominciato già prima della contrattualizzazione del pubblico impiego, quando la tesi veniva appassionatamente approvata da alcuni e duramente contrastata da altri[14].
In definitiva, il Tribunale segue un orientamento condiviso e convincente, maturato, però, in riferimento ai rapporti sindacali con il personale non contrattualizzato diverso da quello militare. Evidentemente, il giudice della fase sommaria ha escluso di dover operare, sotto questo specifico profilo, distinzioni fra i diversi settori del lavoro pubblico non contrattualizzato; ma le ragioni di questa scelta non sono state esplicitate e, in verità, non sono nemmeno pacifiche. Infatti, due precedenti del Tribunale di Roma del 1° agosto 2020 e del 7 dicembre 2020 (inediti a quanto consta), relativi a condotte antisindacali dell’Arma dei Carabinieri, hanno declinato la propria giurisdizione in favore di quella amministrativa in virtù dell’art. 3 comma 1 Tupi, che esclude, a monte, l’applicazione della disciplina del pubblico impiego contrattualizzato nei confronti (fra gli altri) del personale delle Forze armate, rinviando alla regolamentazione dell’ordinamento militare.
Questa diversa prospettiva è stata opportunamente respinta dalla giudice della seconda fase del giudizio e merita qualche ulteriore considerazione critica. In primo luogo, stando alla lettera della legge, l’art. 3 comma 1 Tupi esclude l’applicazione della disciplina di diritto sostanziale sulla contrattualizzazione del pubblico impiego – derogando all’art. 2 commi 2 e 3 Tupi e ai rinvii ivi contenuti; non impedisce, tuttavia, l’applicazione di altre disposizioni Tupi che regolino profili diversi. Ebbene, l’art. 63 applicato dai giudici milanesi non contiene affatto una disciplina di diritto sostanziale sull’impiego pubblico contrattualizzato, ma formula delle regole processuali dedicate sia al personale soggetto al regime di diritto pubblico (cfr. ad esempio il comma 4), sia a quello passato al regime privatistico. Dunque, esso riguarda le controversie con tutte le PA, comprese quelle che intrattengono col personale rapporti di lavoro non contrattualizzati.
In secondo luogo, anche a voler accogliere questa prospettiva, le conclusioni non dovrebbero essere diverse. Infatti, considerando la disciplina dell’ordinamento militare (ovvero il Com), come richiede l’art. 3 Tupi, non si rintraccia alcuna disciplina specifica che regoli la giurisdizione sulle controversie di lavoro individuali o collettive. In mancanza di una regola speciale per il settore militare e volendo sempre ignorare il Tupi, si potrebbe prendere in considerazione il codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) e, in particolare, gli artt. 7 e 133. Il primo, come noto, prevede che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di diritti – quali certamente sono quelli tutelati dall’art. 28 st. lav.[15] – deve essere espressamente prevista dalla legge, dunque rappresenta un’ipotesi eccezionale. L’art. 133 elenca i casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e, fra questi, cita anche i rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico, ma non fa alcun riferimento alle diverse controversie di rilievo sindacale. Infine, siccome non si rinvengono altre disposizioni speciali che impongano di preferire la giurisdizione amministrativa, sembra più opportuno, nel silenzio della legge, riconoscere la giurisdizione ex art. 28 st. lav. in capo al giudice ordinario.
In ultimo luogo, le decisioni del Tribunale di Roma fanno leva sulla già richiamata necessità costituzionale di reperire nel diritto vigente gli opportuni limiti all’esercizio delle libertà sindacali dei militari, in attesa dell’intervento legislativo auspicato da Corte cost. n. 120/2018. Alla luce di ciò, infatti, le giudici capitoline concludono che «allo stato, in assenza della auspicata disciplina legislativa, debba escludersi la giurisdizione ordinaria». A questo riguardo, è sufficiente richiamare la posizione della sentenza del Tribunale di Milano, secondo cui i limiti individuati dalla Consulta riguardano l’esercizio concreto dei diritti e delle libertà e quindi solo il merito delle controversie discusse in giudizio. La posizione è condivisibile perché solo l’esercizio effettivo delle libertà sindacali può interferire con il funzionamento della catena di comando militare che la Corte impone di preservare. Viceversa nessun cenno viene fatto dalla Consulta alla questione, tutta processuale, della giurisdizione. Le conclusioni del Tribunale di Roma, quindi, andrebbero più correttamente capovolte nel senso che allo stato, in assenza dell’intervento del legislatore, dovrebbe escludersi la giurisdizione amministrativa[16]. Di ciò sembra essere consapevole lo stesso legislatore. Infatti, il ddl attualmente in discussione assegna le condotte antisindacali dei vertici delle Forze armate alla giurisdizione amministrativa (cfr. art. 17 ddl n. AS-1893).
4. La legittimazione attiva e il trasferimento senza nulla osta del sindacato militare
Superato lo scoglio più impegnativo, i giudici meneghini si soffermano sulle altre questioni, alle quali si possono dedicare solo considerazioni essenziali. A proposito della legittimazione attiva, essi giungono a conclusioni diverse, non a causa di una diversa interpretazione, ma perché in sede di opposizione il sindacato militare ha integrato le proprie difese alla luce delle lacune individuate nel decreto opposto. Come è noto, l’art. 28 st. lav. individua uno specifico criterio di rappresentatività, legittimando ad agire solo gli «organismi locali delle associazioni sindacali nazionali». Entrambi i giudici danno coerente seguito all’orientamento oggi più diffuso, secondo cui il rilievo nazionale che deve avere l’organizzazione sindacale riguarda sia la struttura organizzativa – che deve essere effettivamente articolata su scala nazionale – sia l’attività sindacale – intendendosi per essa innanzitutto la stipula di un contratto collettivo nazionale (quale spia tipica del requisito) o, in mancanza, un’attività tangibile e concreta di tipo non locale[17].
Superate le due questioni pregiudiziali, la sentenza che ha definito il primo grado del giudizio entra nel merito della condotta denunciata. In primo luogo, la giudice fa riferimento all’art. 22 st. lav. e alla giurisprudenza che estende la tutela dei dirigenti sindacali trasferiti a chiunque svolga funzioni di responsabilità e rappresentanza, a prescindere dalla loro qualificazione formale – ovvero, a prescindere dal fatto di essere dirigenti di una RSA, come richiederebbe la lettera della legge. Va precisato, però, che tale riferimento rappresenta solo una premessa del ragionamento. A leggere con attenzione la decisione, infatti, si nota che il Tribunale ha fatto in effetti applicazione analogica dell’art. 1480 COM, secondo cui «i trasferimenti ad altre sedi di militari di carriera o di leva eletti negli organi di rappresentanza, se pregiudicano l’esercizio del mandato, devono essere concordati con l’organo di rappresentanza a cui il militare, del quale si chiede il trasferimento, appartiene». La giudice, infatti, ha ritenuto che tale disposizione rappresenti una regola speciale rispetto a quella dell’art. 1478 Com, che esclude la materia dell’«impiego del personale» dalle competenze delle rappresentanze istituzionali dei militari[18]. In definitiva, quindi, viene seguito proprio il monito della Consulta, nella parte in cui essa invita ad estendere, in via transitoria, la disciplina delle rappresentanze istituzionali alle nuove organizzazioni sindacali. Questa conclusione, peraltro, potrebbe rappresentare un punto di riferimento anche per il giudice amministrativo, qualora l’eccezione preliminare del Ministero della Difesa dovesse riscuotere successo nei successivi gradi del giudizio, ammesso che nel mentre il Parlamento non partorisca la nuova legge attualmente in discussione.
[1] Cfr. Foro it., 2018, 9, I, c. 2581 con nota di R. Romboli, Dir. lav. mer., 2018, n. 3, p. 622 con nota di M. D. Ferrara e Dir. rel. ind., 2018, 4, p. 1185 con nota di M. Falsone.
[2] Su cui G. Pera, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 257.
[3] Art. 11 Cedu: «1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa dei propri interessi. 2. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato» (c.vo dell’autore).
[4] Art. 5 Carta sociale europea: «Per garantire o promuovere la libertà dei lavoratori e dei datori di lavoro di costituire organizzazioni locali, nazionali o internazionali per la protezione dei loro interessi economici e sociali ed aderire a queste organizzazioni, le Parti s’impegnano affinché la legislazione nazionale non pregiudichi questa libertà né sia applicata in modo da pregiudicarla. La misura in cui le garanzie previste nel presente articolo si applicheranno alla polizia sarà determinata dalla legislazione o dalla regolamentazione nazionale. Il principio dell’applicazione di queste garanzie ai membri delle forze armate e la misura in cui sonno applicate a questa categoria di persone è parimenti determinata dalla legislazione o dalla regolamentazione nazionale» (c.vo dell’autore).
[5] C. cost. 17 dicembre 1999 n. 449, in Lav. pubbl. amm., 2000, n. 2, 349, con nota di M. Di Rollo.
[6] Almeno a partire dalle decisioni del 2 ottobre 2014, Matelly v. France (n. 10609/2010) e Adefdromil v. France (n. 32191/2009).
[7] Per una lettura del diritto internazionale a sostegno della tesi accolta dalla Consulta si permetta il rinvio a M. Falsone, Union Freedoms in the Armed Foces: still a taboo?, in Ind. Law Journal, February 2021, http://dx.doi.org/10.1093/indlaw/dwab003.
[8] Cfr. il ddl n. AS-1893 (http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/53181.htm).
[9] Foro it., 2011, 4, I, c. 1155.
[10] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2015 n. 4900 in De Jure per la Polizia di Stato (demilitarizzata nel 1981), Cass., sez. un., 9 febbraio 2015 n. 2359, in Foro it., 2015, 7-8, I, c. 2443, per la Polizia penitenziaria (demilitarizzata nel 1990) e T.A.R. Sardegna, sez. I, 10 gennaio 2018 n. 10, Foro Amm., 2018, 1, p. 136 sul personale docente universitario. Cfr. anche Cons. Stato, sez. III, 9 settembre 2014 n. 4580, in Foro amm., 2014, 9, p. 2261, che ammette la giurisdizione amministrativa solo in via residuale, ovvero quando la repressione della condotta antisindacale non può essere fatta valere ex art. 28 st. lav. per mancanza di uno dei requisiti processuali (come la legittimazione attiva).
[11] Corte cost. 24 aprile 2003, n.143 in Lav. pubbl. amm., 2003, p. 525, in occasione della dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità dell’art. 63 comma 3 Tupi, aveva, infatti, ammesso anche altre legittime interpretazioni.
[12] Tali commi – abrogati dall’art. 6 l. n. 83/2000 – prevedevano che «6. Se il comportamento (…) è posto in essere da una amministrazione statale o da un altro ente pubblico non economico, l'azione è proposta con ricorso davanti al pretore competente per territorio. 7. Qualora il comportamento antisindacale sia lesivo anche di situazioni soggettive inerenti al rapporto di impiego, le organizzazioni sindacali (…), ove intendano ottenere anche la rimozione dei provvedimenti lesivi delle predette situazioni, propongono il ricorso davanti al T.A.R. competente per territorio, che provvede in via di urgenza con le modalità di cui al primo comma. Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione del decreto alle parti, opposizione davanti allo stesso tribunale».
[13] Cfr., anche per tutti gli altri riferimenti, M. Esposito, La condotta antisindacale nel pubblico impiego, in F. Lunardon (a cura di), Conflitto, concertazione e partecipazione, in M. Persiani, F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2011, vol. 3, p. 744. Peraltro va detto, a sostegno dell’orientamento invalso, che l’art. 63 comma 3 Tupi rinvia all’art. 28 st. lav. comprese le «successive modificazioni e integrazioni», a differenza di quanto faceva il previgente art. 68 d.lgs n. 29/1993.
[14] A favore G. Pera, Sub art. 28 st. lav., in C. Assanti e G. Pera (a cura di), Commento allo statuto dei lavoratori, Cedam, Padova, 1972, p. 353; contrario, invece, F. Santoro-Passarelli, Diritto soggettivo e interesse legittimo dei sindacali al rispetto della libertà sindacale nei luoghi di lavoro, in Aa. Vv., Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, Giuffré, Milano, I, 1973 p. 678; dubitativamente U. Romagnoli, Sub art. 28 st. lav., in F. Mancini, U. Romagnoli, G. Ghezzi, L. Montuschi (a cura di), Statuto dei diritti dei lavoratori, Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1972, p. 1329.
[15] Infatti, oggi, è senza dubbio da respingere l’idea che i diritti sindacali degradino ad interessi legittimi nel caso di condotte antisindacali di una PA (cfr. già G. Ferraro, Sub art. 37 st. lav., in G. Giugni (diretto da), Lo statuto dei lavoratori. Commentario, Giuffrè, Milano, 1979, p. 725).
[16] Significativa, a questo riguardo, la posizione di G. Pera, Sub art. 28 st. lav., cit., p. 355 secondo cui «in tanta incertezza di dati e avarizia di dettato quella qui sostenuta [la giurisdizione ordinaria] mi pare la conclusione più argomentabile anche perché è nella logica evolutiva di tutta la situazione. D’altro canto uno dei modi non dico per fare politica del diritto, ma per condurre la lotta per il diritto, cioè per la certezza come bene essenziale dell’esperienza giuridica, è anche quello, per l’interprete, di trarre tutte le conseguenze estreme che stiano nella lettera del dettato, in tal guisa inducendo il patrio legislatore a riflettere; che se ai supremi reggitori queste conseguenze non piacciono, essi hanno ben lo strumento per provvedere!».
[17] Cfr., anche per esaustivi rinvii alla dottrina e alla giurisprudenza, E. Lanfranchi, Art. 28 st. lav., in R. Del Punta, F. Scarpelli, Codice commentato del lavoro, Wolters Kluwer, Milano, 2020, p. 1153.
[18] Anche il ddl n. AS-1893 (art. 14) prevede che «non possono essere trasferiti a un’altra sede o reparto ovvero essere sostituiti nell’incarico ricoperto al momento dell’elezione, se non previa intesa con l’associazione professionale a carattere sindacale tra militari alla quale appartengono, salvi i casi di incompatibilità ambientale o di esigenza di trasferimento dovuta alla necessità di assolvere i previsti obblighi di comando e le attribuzioni specifiche di servizio e, per il personale della Marina, di imbarco, necessari per l’avanzamento, e salvi i casi straordinari di necessità e urgenza, anche per dichiarazione dello stato di emergenza».