- Y. Aydın - Long story of Turkish judges
- Y. Aydın - La longue histoire de la justice turque (French version)
Non è un segreto che il potere giudiziario sia stato spesso utilizzato come strumento per ridurre al silenzio, a vari livelli, i dissidenti. Tuttavia, nel corso dell’intera storia della Repubblica di Turchia, la situazione non è mai stati così grave e avvilente.
Al 15 luglio 2016, giorno del tentato colpo di Stato, in Turchia si contavano circa 14500 giudici e pubblici ministeri. Di questi, 4560 sono stati rimossi dal servizio nel giro di poche settimane. Attualmente, i giudici e i magistrati sono circa 21000. Ciò significa che, in un arco di tempo di quattro anni, spianata la strada attraverso il licenziamento e l’incarcerazione di migliaia di magistrati, e l’intimidazione di quelli rimanenti, il governo Erdoğan ha assunto 11000 nuovi magistrati “accreditati”.
Nei 96 anni della sua storia, la Turchia ha vissuto tempi difficili. I colpi di Stato militari del 1960 e del 1980, così come l’intervento dell’esercito nel 1971, sono stati i momenti più duri per la democrazia costituzionale e la separazione dei poteri. Tuttavia, neppure in quei periodi, i giudici sono stati soggetti ad epurazioni paragonabili. Ad esempio, dopo il sanguinoso e sleale colpo di Stato del 1980, solo 47 giudici e procuratori furono oggetto di procedimento amministrativo o giudiziario, furono licenziati un totale di 120 accademici ed arrestati 47 giornalisti, numeri poco comparabili con quelli attuali. In che modo Erdoğan ha acquisito un tale potere sulla magistratura? Potrebbe anche essere la ragione per la quale, proprio il giorno in cui esso si è verificato, egli ha descritto il tentativo di colpo di Stato come un “dono di Dio”. Quantomeno, è evidente che egli si è servito di questa opportunità in modo molto più efficace di quanto ci si potesse aspettare. Come ci è riuscito? Attaccare i giudici e la giustizia in primo luogo lo ha enormemente aiutato.
Tutto questo riporta alla mente Dick il Macellaio, che nell’Enrico IV di Shakespeare afferma «La prima cosa che faremo dopo la rivoluzione sarà uccidere tutti gli avvocati». Nella storia, egli crede che gli avvocati ostacolino la rivoluzione pianificata insieme a Jack Cade. Perciò, devono essere eliminati. Le priorità delle menti autoritarie sono rimaste immutate fin da quando Shakespeare scrisse questo dramma più di quattro secoli fa. In realtà, tutto ciò è sempre stato perfettamente noto agli autocrati di tutto il mondo. Come la Germania e l’Italia prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, molti altri Paesi, come l’Argentina, l’Uruguay, la Spagna, ecc., nella loro lotta per la democrazia, hanno attraversato simili periodi oscuri. Anche oggi, e persino all’interno dell’Unione Europea, affrontiamo problemi analoghi in Polonia, Ungheria e Bulgaria, per citare gli esempi più conosciuti.
Tuttavia, l’ampiezza dell’attacco alla magistratura nell’amara esperienza della Turchia non è comparabile con nessuno degli esempi appena ricordati. La ragione specifica per cui in Tuchia i giudici e i procuratori sono stati oggetto di un attacco così brutale e vasto risiede nel fatto che Erdoğan sapeva che la maggior parte dei giudici non si sarebbe inchinata all’arbitrio e all’oppressione che si profilavano all’indomani del raffazzonato colpo di Stato tentato il 15 luglio 2016. Egli sapeva inoltre molto bene che i giudici perseguitati non avrebbero ubbidito all’esercito, qualora il colpo di Stato avesse avuto successo. Così, non rimaneva altra opzione che eliminare in un sol colpo 1/3 della magistratura. Alla fine, qualsiasi altra atrocità e forma di oppressione è stata possibile grazie alla mossa, scelleratamente astuta, di perpetrare un’epurazione di massa nei confronti del potere giudiziario.
Subito dopo il 2016, le violazioni delle libertà fondamentali ha raggiunto livelli da record per i 96 anni della Repubblica di Turchia. Oggi parliamo di un Paese che dal luglio 2016 ha incarcerato più di 300 giornalisti, co-presidenti di partito e decine di sindaci eletti con l’HDP (il filo-curdo Partito Democratico dei Popoli), il capo dell’associazione dei giudici YARSAV (ormai sciolta) e il presidente dell’Associazione degli avvocati progressisti (ÇHD), oltre a più di 300.000 altre persone, pretestuosamente accusate di legami con il terrorismo.
Attualmente in Turchia oltre 50.000 persone sono incarcerate per azioni non violente, per aver tentato di esercitare la propria libertà di espressione, o semplicemente per essere state etichettate come dissidenti. Non sorprende che il Paese che osserviamo oggi si sia classificato 108° su 126 Paesi secondo il Rule of Law Index 2020, mentre ancora nel 2014, all’indomani delle proteste di Gezi e delle indagini sulla corruzione, risultava essere 59°.
Vale la pena notare che qualunque cosa potesse succedere in un Paese dopo un colpo di Stato riuscito è accaduta durante governo di Erdoğan sotto lo “stato di emergenza”, protrattosi per due anni, ma divenuto permanente grazie alle modifiche costituzionali del 2017. Da questo punto di vista, si può dire che quello che ha posto in essere Erdoğan è stato un colpo di Stato ben riuscito.
A questo punto, è il caso di sottolineare che gli arresti sono giustificati sulla base di una vaga interpretazione dell’art. 314 del Codice Penale turco (appartenenza a organizzazioni terroristiche armate), che costituisce altresì l’unico fondamento per rimuovere ed arrestare tutti quei giudici e procuratori a cui si faceva cenno in precedenza. La Corte EDU ha riconosciuto l’illegittimità e l’arbitrarietà di questa interpretazione sfumata della legge.
Il 18 ottobre 2020, la Corte EDU ha comunicato al Governo turco le questioni relative ai casi di 476 giudici arrestati. Con questo gruppo di casi, i ricorsi di oltre 1000 dei 2500 giudici arrestati hanno raggiunto la fase di comunicazione, ad oltre quattro anni dalla rimozione e dall’arresto senza precedenti avvenuti nel 2016. Per gli altri 1500, a Strasburgo ancora non c’è luce alla fine del tunnel.
Ad oggi, la Corte EDU ha già rilevato violazioni dell’art. 5 della Convenzione nei casi di Alparslan Altan (n. 12778/17, 16 aprile 2019) e Hakan Baş (n. 66448/18, 3 marzo 2020). Il primo caso riguardava la detenzione di Alparslan Altan, ex membro della Corte Costituzionale turca, mentre il secondo riguardava l’allora giudice di tribunale di primo grado Hakan Baş. Entrambi erano stati arrestati nel 2016, infondatamente accusati di far parte, proprio come altri 2500 colleghi, di un’organizzazione terroristica. Fra gli altri, questo fatto è chiaramente evidenziato nella recente decisione della Corte nel caso Ragip Zarakolu v. Turkey (15064/12)[1] del 15 settembre 2020.
Tuttavia, una recente pronuncia della Corte Costituzionale turca nel caso Yıldırım Turan[2] (ricorso 2017/10536) non lascia alcun margine per un mutamento di approccio da parte del potere giudiziario turco. In questa sentenza-farsa, la Corte Costituzionale turca ha apertamente capovolto il meccanismo della CEDU, rifiutando esplicitamente di attenersi alle sue sentenze Alparslan Altan e Hakan Baş. Questa pronuncia ha chiaramente reso inutili le precedenti decisioni della Corte EDU ed ha dimostrato che la Corte Costituzionale turca non offre alcun rimedio interno efficace.
A questo riguardo, vale la pena riportare che, in una recente Opinione (A/HRC/WGAD/2020/51) del Gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, si afferma chiaramente:
«Nei tre anni passati, il Gruppo di lavoro ha notato un significativo aumento nel numero di casi portati alla sua attenzione concernenti la detenzioni arbitrarie in Turchia. Il Gruppo di lavoro esprime la sua preoccupazione sullo schema che caratterizza tutti questi casi e ricorda che, in determinate circostanze, l’incarcerazione di massa o sistematica o altre gravi privazioni della libertà in violazione delle norme di diritti internazionale possono costituire crimini contro l’umanità».
Più recentemente, nella sua decisione del 22 dicembre 2020 nel caso Selahattin Demirtaş c. Turchia[3], la Corte di Strasburgo ha osservato, in linea con quanto rilevato dalla Commissione di Venezia nella sua Opinione[4], che il Codice Penale turco non definisce i concetti di «organizzazione armata» e «gruppo armato». Con questa decisione, la Corte EDU ha disposto con chiarezza che Demirtaş, ex co-segretario del partito filo-curdo HDP, debba essere immediatamente scarcerato.
In effetti, la Corte EDU si era già pronunciata nel novembre del 2018 affermando che il caso di Demirtaş era fondato su ragioni puramente politiche piuttosto che giuridiche. Questo è stato il primo caso in cui la Corte EDU ha rilevato una evidente violazione, da parte della Turchia, dell’art. 18 della Convenzione.
Non è diverso da questo il caso di Osman Kavala, l’altro in cui la Corte EDU ha rilevato una violazione dell’art. 18 da parte della Turchia. Questi è ancora detenuto nonostante la sentenza della Corte EDU e la decisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Inoltre, la Corte d’appello di Istanbul ha ribaltato la decisione di proscioglimento relativa a Kavala, ignorando la predetta decisione della Corte EDU e del Comitato dei Ministri del CoE. Peraltro, i giudici del collegio che nel 2019 ha osato prosciogliere Kavala da accuse infondate sono stati degradati e trasferiti in diverse città a seguito di un procedimento disciplinare lampo condotto dal Consiglio per i Giudici e i Procuratori turco (HSK).
A questo riguardo, è utile ricordare le azioni intraprese dallo European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ) nei confronti del Consiglio per i Giudici e i Procuratori turco (HSYK). L’8 dicembre 2016, l’assemblea generale dell’ENCJ ha sospeso lo status di osservatore del Consiglio per i Giudici e i Procuratori turco (HSYK) poiché non più in linea con gli statuti dell’ENCJ, non essendo più un’istituzione indipendente dall’esecutivo e dal legislativo in grado di assicurare la propria responsabilità nel sostenere la magistratura nell’esercizio indipendente della funzione giurisdizionale[5].
Nella sua recente dichiarazione datata 8 dicembre 2020, l’ENCJ ha così spiegato il fallimento del HSK (precedentemente HSYK, ma divenuto HSK dopo la riforma costituzionale del 2017) nel garantire l’accesso ad una giurisdizione indipendente, giusta e imparziale:
«Quattro anni dopo, purtroppo, la situazione non è migliorata, anzi, si è notevolmente deteriorata. Il Consiglio per i Giudici e i Procuratori è tale solo di nome, poiché nessuna delle sue azioni o decisioni dimostra alcuna preoccupazione per l’indipendenza del potere giudiziario. Senza un Consiglio a proteggere e garantire l’esercizio indipendente della giurisdizione in Turchia, rimane poca speranza per lo Stato di diritto in Turchia in generale, e per l’accesso da parte di tutti coloro che vi si rivolgono, inclusi i cittadini turchi, a tribunali indipendenti, giusti e imparziali[6]».
In Turchia, migliaia di giudici e procuratori rimossi dal servizio stanno ancora aspettando giustizia in queste condizioni. Almeno 500 sono ancora in carcere dal 2016, gli altri 2000 che sono stati rilasciati dopo alcuni anni di detenzione sono oggi arrestati nuovamente, con cadenza quotidiana, mano a mano che le sentenze che li riguardano vengono confermate dalle corti d’appello. Anche Murat Arslan, presidente di YARSAV e premiato con il Vaclav Havel Human Rights Prize, è tra i 500 ancora in carcere. Circa un centinaio di coloro che sono riusciti a fuggire da questa ingiustizia e dalle persecuzioni stanno provando a sopravvivere, ad adattarsi e ad iniziare una nuova vita in esilio come rifugiati nell’Unione Europea. Tutti attendono il giorno in cui finalmente i giudici di Strasburgo riconosceranno il fatto che non esiste oggi in Turchia un “rimedio interno efficace”. E naturalmente, attendono il giorno in cui il Paese rispetterà le decisioni della Corte EDU, dopo una lunga interruzione del dolce sogno di istituire lo Stato di diritto.
Purtroppo, in questo processo, la principale fonte di frustrazione è stata proprio la Corte EDU. Come se davvero in Turchia ci fosse oggi un potere giudiziario indipendente o qualsiasi altro rimedio interno efficace, essa ha respinto più di 30.000 ricorsi avverso sentenze turche emesse in casi successivi al luglio 2016, adducendo la necessità di esperire tutti rimedi interni disponibili. Ignorando tutte le argomentazioni addotte in atti e supportate da fatti oltre che da rispettabili e credibili report di istituzioni del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite così come di ONG internazionali, la Corte europea si è in tal modo resa parte del problema, anziché contribuire alla sua risoluzione. Ciò significa che chiunque sia stato privato del proprio lavoro e della propria carriera dovrà attendere circa dieci anni prima di ottenere una decisione dalla Corte EDU.
L’ultimo esempio di questo atteggiamento controverso della Corte EDU emerge dal rigetto dell’intervento di MEDEL, dell’Associazione dei giudici europei EAJ, di Judges for Judges e dell’Associazione europea dei giudici amministrativi in qualità di amici curiae. Questo intervento si proponeva di evidenziare la mancanza di indipendenza della magistratura e delle garanzie proprie dello Stato di diritto in Turchia, poiché i casi pendenti, riguardanti i giudici turchi arrestati, erano correlati unicamente a questa questione fondamentale. Tuttavia, la seconda sezione della Corte EDU ha rigettato senza particolari motivazioni questo essenziale intervento da parte delle più importanti associazioni europee di magistrati. A seguito di questa inspiegabile decisione, queste associazioni hanno diramato un altro storico comunicato[7], che sottolinea ancora una volta che «Platform for an Independent Judiciary in Turkey, composta da AEAJ, EAJ, MEDEL e Judges for Judges continuerà a monitorare gli sviluppi in Turchia e i procedimenti in corso presso la Corte EDU, e non cesserà di sostenere i giudici e procuratori turchi ingiustamente perseguitati in qualunque momento e in qualunque sede ciò sarà necessario».
E io dico che questa ferma presa di posizione insieme al sostegno da parte di grandi colleghi di tutt’Europa ci dà la forza di mantenere vive la nostre speranze.
[1] Ragip Zarakolu v. Turkey (15064/12).
[2] Yıldırım Turan [GK], B. No: 2017/10536, 4/6/2020, disponibile presso T.C. Anayasa Mahkemesi.
[3] Selahattin Demirtas v. Turkey (No. 2), [GC], ricorso n. 14305/17, §277, 22 dicembre 2020.
[4] CDL-AD(2016)002-e, Opinion on articles 216, 299, 301 and 314 of the Penal Code of Turkey, adottata dalla Commissione di Venezia nella sua 106a sessione plenaria (Venezia, 11-12 marzo 2016), disponibile presso https://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-AD(2016)002-e
[5] ENCJ votes to suspend the Turkish High Council of Judges and Prosecutors, disponibile in https://www.encj.eu/node/449
[6] Comunicato del board di ENCJ sulla situazione in Turchia: https://www.encj.eu/node/578
[7] Comunicato di AEAJ, EAJ, MEDEL e Judges for Judges per l’indipendenza della magistratura in Turchia: https://www.iaj-uim.org/news/statement-of-aeaj-eaj-medel-and-judges-for-judges-for-an-independent-judiciary-in-turkey/
Traduzione a cura di Sara Cocchi, avvocata in Firenze e consulente UE e OCSE
Nato nel 1976 a Niğde (Turchia), Yavuz Aydın si è laureato presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Ankara nel 1999. Ha completato i propri studi in materia di diritto dell’Unione Europea e diritti umani europei presso l’Università di Exeter (Gran Bretagna).
In qualità di giudice relatore presso il Ministero della Giustizia turco, a partire dal 2004 è stato attivamente coinvolto nell’avvio dei negoziati per l’accesso della Turchia all’UE. In questo contesto, fra il 2006 e il 2011, è stato incaricato dell’analisi comparativa fra acquis europeo e diritto turco in materia di ordinamento giudiziario e diritti fondamentali. Ha rappresentato la magistratura turca a Bruxelles in qualità di consigliere per la giustizia presso la Delegazione permanente della Turchia presso l’UE ed ha contribuito al processo di democratizzazione e alle proposte di riforma negli anni 2011-2013.
Nel 2014, tornato a svolgere le proprie funzioni di giudice in Turchia, è stato oggetto di attacchi da parte del governo in ragione della sua opposizione alle ingerenze del governo nei confronti della magistratura. All’indomani del 15 luglio 2016, è stato rimosso dal servizio insieme ad altri 4500 colleghi.
Fuggito dalle persecuzioni nel proprio Paese, ha ottenuto asilo politico in Romania nel 2017. Risiede attualmente a Bruxelles, dove studia le politiche migratorie dell’Unione Europea presso la Université Libre. E’ fra i fondatori di Justice for Rule of Law ASBL, un’associazione belga in difesa dell’indipendenza della magistratura all’interno e al di fuori dell’Unione Europea.