E’ impossibile non concordare con Giulio Cataldi sull’inutilità di ulteriori modifiche delle norme sul processo civile in questa fase, quando ancora non si è neppure avuto modo di valutare gli effetti di quelle già introdotte nel recente passato, anche delle poche che avrebbero qualche chance di produrre risultati positivi e che rischiano di essere contraddette dalle ennesime novità.
L’esito dalle riforme processuali introdotte, in numero abnorme, negli anni scorsi è stato assai deludente.
Ciò dovrebbe convincere tutti che per rimediare alla cronica inefficienza del nostro processo civile come strumento di tutela dei diritti (ché, invece, come strumento d’interdizione e freno esso si rivela purtroppo efficacissimo) vanno percorse altre strade.
Il dibattito suscitato sulle mailing-list dall’intervento di Cataldi ha confermato che occorre muoversi piuttosto sul terreno dell’organizzazione.
Su questo terreno sono già state indicate delle priorità anche per l’immediato. In cima ad esse vanno collocate, come ritenuto dai più, l’implementazione in tutti gli uffici giudiziari del processo civile telematico (che consente forti risparmi di risorse e una migliore professionalità del personale di cancelleria) e la realizzazione dell’ufficio per il processo (perché l’attività giurisdizionale può migliorare la sua resa quantitativa e qualitativa solo se viene adeguatamente supportata: la “solitudine” del giudice civile italiano, che fa tutto da sé, non ha riscontro in nessun altro paese progredito).
Della linea del Governo Renzi, appena insediatosi, in materia di giustizia civile si sa poco; non si sa, tra l’altro, se darà seguito al disegno di legge delega elaborato dal Governo precedente nel dicembre 2013.
Ferma la contrarietà, per le ragioni appena detto, all’impianto di quel disegno, basato essenzialmente su modifiche processuali, può tuttavia essere di qualche utilità, forse, approfondire una delle sue proposte – la c.d. motivazione della sentenza a richiesta – sia perché essa riemerge ciclicamente, da anni, nelle discussioni sull’inefficienza del processo civile italiano, sia perché potrebbe avere, in teoria, un impatto assai significativo sulla “produttività” dei giudici civili.
Il tema è di quelli che appassionano e dividono.
Alcuni infatti rifiutano, sul piano culturale prima ancora che pratico, l’idea che una sentenza non debba essere necessariamente motivata, ma possa esserlo soltanto a richiesta di parte e, soprattutto, a pagamento (come appunto avviene, vedremo, per la proposta in esame); altri invece tendono a valorizzare i cospicui benefici ritraibili dall’esonero dall’obbligo di motivare, vero collo di bottiglia – l’esperienza insegna – che frena la produttività del giudice italiano.
Io sono contrario a tale proposta, ma devo ammettere che alcuni argomenti del partito opposto non mi trovano indifferente.
Del resto, anche la proposta di riforma del processo civile elaborata nel 2005 da un gruppo di lavoro promosso da Magistratura democratica e dal Movimento per la giustizia (v. Questione Giustizia 2005, 1231 e ss.) conteneva la previsione della motivazione a richiesta, sia pure declinata in termini un po’ diversi da quelli delineati nell’attuale disegno di legge governativo.
Questo prevede (art. 2, comma 1 lett. b n. 1) che la sentenza di primo grado possa consistere nel solo «dispositivo corredato dall’indicazione dei fatti e delle norme che consentano di delimitare l’oggetto dell’accertamento» (l’esigenza sottesa è circoscrivere l’ambito dell’eventuale futuro giudicato, piuttosto che dare una prima, sommaria motivazione) e che le parti abbiano «il diritto di ottenere, a richiesta e previa anticipazione del contributo unificato, la motivazione della decisione da impugnare».
Alla base vi è il rilievo che l’80 % delle sentenze di primo grado non vengono appellate; in tali casi, perciò, l’impegno del giudice nel motivare è considerato inutile, dunque uno spreco di energie impiegabili altrimenti in maniera assai più proficua.
Le perplessità di ordine costituzionale, prospettate sotto il profilo dell’art. 111, comma sesto, Cost., sono probabilmente superabili. In effetti, come ricordato da Massimo Fabiani in una mail del 26 dicembre 2013 su “Civilnet” (mail assai interessante anche per tutte le altre considerazioni svolte sul tema), un meccanismo di motivazione solo eventuale già è presente in altri istituti noti da sempre e mai sospettati di incostituzionalità, come il decreto ingiuntivo o la convalida di sfratto, ove la parte interessata dispone del suo diritto astenendosi dall’opporsi all’intimazione.
Preme, piuttosto, evidenziare brevemente, senza pretesa di fare affermazioni definitive, altri due punti critici della proposta e del ragionamento che ne è alla base.
Il primo. Il giudice deve comunque arricchire il dispositivo con l’indicazione dei «fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi e norme che indichino la finalità del deciso» (v. relazione illustrativa del disegno di legge delega), sia pure ai soli fini – peraltro imprescindibili – della delimitazione del giudicato che eventualmente si formerà in caso di mancata impugnazione di quel dispositivo; inoltre, avendo le parti comunque diritto di chiedere che sia redatta la motivazione, sarà buona regola che il giudice prenda almeno privatamente nota dei passaggi del ragionamento fatto per arrivare alla decisione assunta, altrimenti sarà costretto a ristudiare gli atti se verrà in seguito richiesto di motivarla.
Ma a questo punto la differenza rispetto alla stesura di una breve motivazione, magari ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., se non scompare del tutto quantomeno scolora, posto che la motivazione (e non solo quella ex art. 281 sexies) dovrebbe essere comunque quanto più succinta (perché lo impongono gli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. e perché la sintesi facilita la chiarezza e la comprensibilità, oltre che far risparmiare tempo, quantomeno al lettore), specialmente in primo grado e specialmente nelle sentenze di routine (è poco probabile che non vengano appellate le decisioni più complesse).
Insomma, a mio parere la via maestra resta fare piena applicazione delle regole che già ora presiedono, sul piano normativo e sul piano logico, alla redazione della motivazione, prima di arrendersi all’ineluttabilità della sua eliminazione.
Secondo punto critico: siamo proprio sicuri che per quell’80 % delle sentenze, avverso cui non viene proposto appello, la motivazione non serva a nulla, nel senso che non abbia alcun ruolo nel persuadere la parte soccombente a non appellare?
Io sono sempre stato convinto che un ruolo ce l’abbia, che cioè le parti (esse o i loro avvocati) si acquetino anche grazie alla motivazione, dalla quale ricavano (non già che hanno torto, ma quantomeno) che non hanno serie probabilità di vincere la lite.
Non vorrei però – devo aggiungere – peccare di razionalismo astratto, come mi è capitato di pensare dopo che, discorrendone con avvocati (qui l’esperienza degli avvocati è preziosa, perché essi sanno come ragionano i loro clienti), qualcuno mi ha fatto presente che in realtà ciò che conta normalmente, per le parti, è il dispositivo, se sia, cioè, più o meno lontano da quello che si aspettavano o ritenevano accettabile, e che essi stessi, gli avvocati, la motivazione neppure la leggono se non devono impugnare la sentenza (e in questo non saprei dar loro torto).