Il pensiero dominante in materia d’immigrazione è un pensiero binario, che funziona a coppie: l’immigrazione e la disoccupazione, l’immigrazione e la periferia, l’immigrazione e la radicalizzazione, l’immigrazione e la religione, l’immigrazione e i rifugiati, l’immigrazione e l’asilo, l’immigrazione e l’identità nazionale
È innanzitutto un problema di ascolto, di attenzione.
Non è questo, del resto, il significato della parola “udienza”?
Smain Laacher
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Di seguito la traduzione dell’inizio del sesto capitolo di Croire à l’incroyable nel quale l’Autore descrive la presenza in udienza di una donna a cui la Commissione in prima istanza ha negato l’asilo. Una clandestina, dunque.
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Una donna arrivata dall’Africa entra nell’aula d’udienza. Zoppica. Ha una trentina d’anni ma ne dimostra molti di più.
È andata a scuola solo per pochi anni perché era la più grande di molti fratelli «a cui bisognava pur dare da mangiare». Nel momento in cui ha lasciato precipitosamente il suo Paese non lavorava. È scappata a causa delle «milizie venute nel villaggio a saccheggiare e violentare». Tre bambini sono restati nel Paese «in famiglia, perché io non potevo partire con dei piccoli».
Ci ha messo più di cinque mesi per arrivare in Francia. Il suo sguardo è triste, ma non piange. Si smarrisce dentro risposte a domande che non le sono mai state poste. Si mostra modesta e piena di rispetto per la Corte. Ci lancia qualche sguardo spaurito perché cerca di capire se deve ancora rinchiudersi nel silenzio.
Mi dico allora che un periplo di cinque mesi per una donna sola non è abituale; o quanto meno di un’estrema pericolosità. Le sue parole, le sue risposte e le sue spiegazioni sulle persecuzioni che avrebbe subìto nel suo Paese d’origine sono sibilline: «Erano delle milizie, avevano il volto coperto; non so se erano soltanto uomini».
Invitata dal Presidente a essere più precisa, dichiara: «Erano molto cattivi, invece di prendere solamente i gioielli alle donne tagliavano proprio le mani. Hanno violentato la mia bambina davanti alla mia famiglia e hanno portato via il mio nipotino».
Le domando allora di descriverci la sua fuga e il suo viaggio, i Paesi attraverso i quali è passata, gli avvenimenti che l’hanno segnata. Ma lei ci oppone un silenzio pesante, imbarazzante per tutti. Ci guardiamo tra noi, i tre giudici e l’avvocato. Che tenta di intervenire. Gli chiedo di non farlo. Sento, per esperienza, che quello che è taciuto è altrettanto importante (se non di più) delle parole che è riuscita a pronunciare. Quando le chiedo di esprimersi, risponde solamente: «Non posso dirvelo, sono delle disgrazie troppo grandi».
L’aula d’udienza è piena, il brusìo comincia a esasperarmi. I miei colleghi e l’avvocato se ne accorgono. La voce della richiedente si fa mano a mano più bassa; è sul punto di spegnersi. Le sue lacrime tradiscono un dolore indicibile. La sua tristezza ha lasciato il posto alla disperazione.
Mi giro verso il Presidente e gli chiedo se permette che interroghiamo la richiedente a porte chiuse. L’aula si svuota.
La richiedente pian piano si riprende: il suo corpo si raddrizza lentamente e appoggia le mani leggermente tremanti sul grande tavolo davanti a lei come se quello che deve dire adesso sia talmente pesante che deve appoggiarsi. Il Presidente le dice che adesso può parlare senza timore e senza vergogna.
«Mi sento sporca. Per mesi sono stata una schiava sessuale per degli uomini. Era una sofferenza che non finiva mai. In tutti i Paesi che ho attraversato mi prendevano per soddisfare i bisogni degli uomini. Nessuno mi poteva aiutare. Ma dovevo pur mangiare. Voi pensate che un giorno io potrò vivere normalmente? Mai più. Per me è finita».