Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

La sfuggente nozione di atto contrario ai doveri d’ufficio nei delitti di corruzione

di Eugenio Fusco
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano
1. La crescente evanescenza dell’atto contrario ai doveri d’ufficio nei fenomeni di grande corruzione – 2. La vendita della funzione tra corruzione propria e impropria – 3. Vendita della funzione e traffico di influenze illecite – 4. Riqualificazione del fatto e dinamiche corruttive, tra iura novit curia e rispetto delle garanzie convenzionali – 5. Fenomeni corruttivi e onere di rinnovazione dell’istruttoria in appello

1. La crescente evanescenza dell’atto contrario ai doveri d’ufficio nei fenomeni di grande corruzione

La legge 6 novembre 2012, n. 190 (riforma Severino), oltre che introdurre una normativa preventiva, si poneva l’ambizioso obiettivo di mutare il volto della repressione penale della corruzione, rendendola più incisiva, non tanto attraverso l’inasprimento delle pene bensì intervenendo sulla struttura stessa delle fattispecie incriminatrici.

In particolare, l’art. 318 cp, in precedenza imperniato sul compimento di un atto dell’ufficio, reprime oggi la corruzione dell’intraneus «per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri». Viceversa, l’art. 319 cp continua a riferirsi al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o ritardo di un atto d’ufficio.

Oggi più di ieri è di grande attualità delineare i confini tra corruzione impropria e corruzione propria: il tema si lega alla sempre più sfuggente nozione di atto contrario ai doveri d’ufficio.

Solo in ambiti estremamente limitati – il riferimento è soprattutto agli episodi di “piccola corruzione” – è possibile individuare con certezza la contrarietà ai doveri d’ufficio dell’atto compiuto dal pubblico ufficiale.

Capita anche – il riferimento è principalmente al settore degli appalti pubblici – che, alla configurabilità dell’atto contrario, si accompagni l’ipotizzabilità di ulteriori figure di reato strettamente connesse alla corruzione. In particolare, la rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 cp), la turbata libertà degli incanti o del procedimento di scelta del contraente (artt. 353, 353 bis cp), sovente contestate in concorso materiale/giuridico con la corruzione propria.

Ma la qualificazione giuridica della condotta si complica, enormemente, quando l’atto è discrezionale.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’atto discrezionale rientra nella nozione di atto contrario, ai sensi dell’art. 319 cp, se l’intraneus abbia esercitato il potere discrezionale rinunciando, preventivamente, ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, per raggiungere, comunque, un esito predeterminato, quand’anche, tale esito, coincida ex post con l’interesse pubblico; con la precisazione che la perfetta identità tra l’atto adottato  e quello che sarebbe stato adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni esclude la qualificazione della condotta dell’intraneus nei termini di «atto contrario»[1].

Più complicato è definire l’atto contrario nell’ambito di attività manageriali: il riferimento è, evidentemente, ai manager di società pubbliche (o in controllo pubblico), dei quali si possa predicare la qualifica pubblicistica[2]. Gli atti manageriali sono connotati da margini ancora più ampi di discrezionalità rispetto alla tipica attività amministrativa a contenuto discrezionale; nel senso che il manager pubblico, illecitamente retribuito[3], potrà più agevolmente giustificare, adducendo valutazioni aziendali, le scelte adottate a vantaggio della parte che gliele ha remunerate.

Infine, la nozione di atto contrario è ancora più sfuggente nella corruzione internazionale (art. 322 bis cp), posto che la contrarietà ai doveri d’ufficio non può che essere valutata con riguardo alla legislazione del Paese straniero interessato[4].

Emblematico, in questo senso, il caso Finmeccanica: la vicenda verte sull’ipotizzata corruzione di pubblici ufficiali di Stati esteri, in relazione ad una gara d’appalto per l’acquisto di elicotteri, da parte del Governo indiano. La Corte d’appello di Milano ha giudicato conforme ai doveri d’ufficio l’atto ritenuto oggetto di mercimonio[5]: l’autorizzazione all’abbassamento – fatto poi confluire nel bando di gara – della quota operativa di volo, passata da 6000 a 4500 metri, che aveva consentito all’azienda italiana di partecipare alla gara. È interessante sottolineare come la Corte territoriale, ritenendo l’insussistenza di «elementi di certezza per affermare – al di là di ogni ragionevole dubbio – che la riduzione della quota operativa fu scelta contraria all’interesse pubblico» ha riqualificato la corruzione contestata con riferimento all’art. 319 cp, sussumendola nella fattispecie di cui all’art. 318 cp.

A prescindere dalla condivisibilità o meno di tale conclusione, che non è oggetto di queste riflessioni, quel che qui preme vieppiù rimarcare è quanto sia sfuggente la nozione di “atto contrario”.

Ad ulteriormente dimostrarlo sta il fatto che la riqualificazione della condotta dell’intraneus non è a “senso unico”: in un caso di grande attualità (è il procedimento penale nei confronti di un chirurgo ortopedico, di un ospedale pubblico che dietro compenso avrebbe favorito l’acquisto di protesi da parte di determinate società produttrici), il gip, nell’ordinanza applicativa di misura cautelare, ha inquadrato nel reato di cui all’art. 319 cp, fatti che, nella richiesta del pm, erano stati qualificati nei termini di «corruzione per l’esercizio della funzione». Il ragionamento seguito dal giudicante: a) la messa a disposizione da parte del pubblico ufficiale; b) unitamente all’esercizio distorto del potere amministrativo discrezionale: l’indagato avrebbe favorito una importante multinazionale rimasta esclusa dall’accordo quadro per la fornitura di protesi all’ospedale; c) implicano la riconducibilità all’art. 319 cp dell’atto che, ancorché non illecito o illegittimo, prescinda consapevolmente dai doveri istituzionali di imparzialità e correttezza.

2. La vendita della funzione tra corruzione propria e impropria

Nella prassi, accade sovente che la retribuzione del pubblico ufficiale non sia finalizzata al compimento di uno specifico atto contrario. Piuttosto, si intende acquistare “in blocco” la funzione pubblica, di modo che il funzionario, per il futuro e per un numero indeterminabile di atti, si ponga stabilmente a disposizione del corruttore[6].

Capita peraltro di riscontrare anche casi di “lealtà multipla” del pubblico ufficiale, il quale vende contemporaneamente la funzione a gruppi privati aventi interessi potenzialmente in conflitto ma tali da poter essere “armonizzati”. Può accadere, anche, che l’intraneus compia atti formalmente legittimi, ma finalizzati a guadagnare tempo, proprio nell’attesa che si raggiunga un accordo corruttivo più articolato. Un esempio tratto dall’esperienza giudiziaria: il pubblico ufficiale, già a libro paga di un mediatore commerciale, riceve indicazione dalla politica che, al rinnovo del contratto, a seguito di gara da bandirsi alla scadenza del rapporto in corso di esecuzione, sarebbe preferibile assegnare la fornitura ad altra e “più sponsorizzata” azienda. Il funzionario informa di tale, ricevuta, indicazione il mediatore-corruttore, concordando, con lui, di esplorare la possibilità di coinvolgere l’altra ditta – quella “più sponsorizzata” – in un’ATI, in modo da accontentare tutti; e, per favorire l’intesa, rallenta la procedura di gara da bandire; e, a contratto scaduto, emette ripetuti provvedimenti di proroga, che, prescindendo dai motivi che li determinano, sarebbero perfettamente legittimi.

Dalla cronaca giudiziaria si ricava un’ulteriore, inedita, ipotesi di vendita della funzione. È il caso del privato che mette a libro paga il pubblico funzionario per la ritenuta necessità di acquistare un ticket d’ingresso per entrare “nel giro” che conta, quello dei privilegiati cui una importante stazione appaltante aggiudicherebbe, costantemente, le commesse. Qui il pagamento non è affatto finalizzato al compimento di uno specifico atto contrario, ma sarebbe condicio sine qua non per entrare in una cerchia ristretta di imprenditori disposti a non farsi la guerra ed a pagare per “mettersi in lista d’attesa”, nella consapevolezza che arriverà il proprio turno, sempre all’esito di procedure ineccepibili, se si prescinde dalla dimostrazione dell’esistenza di siffatto network.

Circa la vendita della funzione, si confrontano – sul piano strettamente giuridico – due orientamenti contrapposti.

Secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario, la cosiddetta messa a libro paga del funzionario pubblico integra il delitto ex art. 318 cp, e non la più grave fattispecie di corruzione propria, salvo che la messa a disposizione non si sia tradotta nell’emanazione di uno specifico e ben individuato atto contrario ai doveri d’ufficio[7].

In questo senso – come si è osservato in dottrina – il rapporto tra gli articoli 318 e 319 cp andrebbe ricostruito in termini di specialità per specificazione: l’elemento specializzante dell’art. 319 cp sarebbe costituito, appunto, dal compimento di un ben individuato atto contrario ai doveri d’ufficio. Proprio il compimento dell’atto contrario, in quanto concretamente lesivo dell’imparzialità dell’amministrazione, giustificherebbe una più severa punizione dell’intraneus; viceversa, l’art. 318 cp dovrebbe intendersi come reato di pericolo, volto ad incriminare condotte meramente prodromiche rispetto ad una effettiva lesione del bene giuridico tutelato[8].

La conclusione – sostenibile in base al tenore letterale degli artt. 318 e 319 cp – appare contrastare con i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità della pena. Se si assume l’imparzialità dell’amministrazione quale bene giuridico tutelato dalle fattispecie incriminatrici in esame, la stabile messa a disposizione del pubblico ufficiale appare assai più lesiva del bene protetto rispetto al compimento di un singolo atto contrario; e, stante la maggior gravità della condotta, sarebbe irrazionale riservare alla vendita della funzione il più mite trattamento sanzionatorio ex art. 318 cp[9].

Tali considerazioni sembrano essere state recepite anche dalla giurisprudenza maggioritaria, successiva alla legge Severino. Si è così affermato che lo stabile asservimento del pubblico ufficiale al privato, attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri d’ufficio non predefiniti né specificamente individuabili ex post, integra il reato ex art. 319 cp, e non il meno grave reato di corruzione impropria[10].

Si giunge a tale conclusione sulla base, evidentemente, di una nozione lata di atto contrario ai doveri d’ufficio. Si afferma infatti che l’atto oggetto dell’accordo corruttivo non deve essere individuato nei suoi connotati specifici. È invece sufficiente che esso sia individuabile in funzione della competenza e della concreta sfera di intervento del pubblico ufficiale, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di singoli atti non preventivamente fissati e programmati, ma appartenenti al genus previsto[11].

In quest’ottica, l’art. 318 cp assumerebbe una portata non già generale bensì residuale. La corruzione impropria sarebbe cioè configurabile soltanto con riferimento alla vendita della funzione per atti conformi ai doveri d’ufficio. Ed in questa prospettiva si colloca la maggioritaria giurisprudenza secondo cui deve ritenersi contrario ai doveri d’ufficio non solo l’atto illecito (perché vietato da norme imperative) o illegittimo (perché viziato da invalidità), ma anche quello, che, pur formalmente regolare, prescinda, per volontà del pubblico ufficiale, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, compresi i doveri costituzionali di correttezza e imparzialità[12].

Si tratta di un orientamento conforme a quanto la Cassazione ha sancito in materia di abuso d’ufficio. Secondo i giudici di legittimità, infatti, la nozione di violazione di legge ex art. 323 cp è idonea a ricomprendere anche l’esercizio dell’attività amministrativa inosservante dei canoni di imparzialità e buon andamento posti dall’art. 97 Cost., che impone ai pubblici funzionari di non usare il proprio potere per elargire indebiti favoritismi[13].

3. Vendita della funzione e traffico di influenze illecite

La sfuggente nozione di atto contrario ai doveri d’ufficio si riflette, altresì, sull’interpretazione e sull’ambito di operatività del traffico di influenze illecite (art. 346 bis cp).

L’introduzione della nuova fattispecie, ad opera della legge n. 190 del 2012, è volta a reprimere l’attività di intermediazione finalizzata ad incidere sull’esercizio della funzione pubblica.

In particolare, il traffico di influenze illecite sanziona fenomeni di triangolazione, in cui entrano in gioco un privato, interessato ad acquistare l’illecita influenza sull’intraneus, il mediatore, ed il soggetto pubblico.

È noto che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il delitto di cui all’art. 346 bis cp si differenzia dalla corruzione per la connotazione causale del prezzo, destinato a retribuire soltanto l’opera del mediatore: la somma ricevuta non può, dunque, essere destinata nemmeno in parte all’agente pubblico[14]. Del resto, la clausola di riserva ex art. 346 bis cp esclude dall’area di operatività della norma le ipotesi di concorso nei delitti ex artt. 319 e 319 ter cp.

La clausola di riserva non ricomprende però l’art. 318 cp, e la remunerazione dell’intermediario è finalizzata al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, o all’omissione o ritardo di un atto d’ufficio: la norma reprime, dunque, la sola mediazione strumentale alla corruzione propria[15].

Ma possono ricorrere casi di dubbia qualificazione giuridica: si pensi all’ipotesi in cui il privato prometta al mediatore denaro o altra utilità per remunerare la mediazione ovvero per remunerare il pubblico ufficiale, la cui funzione si intende acquistare, senza peraltro individuare singoli, specifici atti contrari. La condotta, così descritta, avrà rilevanza penale solo se – in linea con la giurisprudenza maggioritaria in materia di corruzione – si sussume la vendita della funzione nel paradigma dell’art. 319 cp[16].

4. Riqualificazione del fatto e dinamiche corruttive, tra iura novit curia e rispetto delle garanzie convenzionali

La giurisprudenza – anche alla luce delle evidenziate difficoltà in punto di distinzione tra atto contrario e esercizio della funzione – ammette, pacificamente, la riqualificazione del fatto da corruzione propria a corruzione impropria, senza che ne risulti violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza ex art. 521 cpp. Al riguardo, si valorizza la frequente comunanza di un nucleo fattuale omogeneo tra corruzione propria e impropria.

La tematica è stata di recente affrontata e risolta dalla Cassazione proprio in relazione al già citato caso Finmeccanica (n. 1464/2017). Si è in particolare affermato che, in tema di correlazione fra imputazione e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta, nella quale sia stata riassunta l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da determinare un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio per i diritti della difesa. Viceversa, tra la corruzione propria e quella impropria vi è – come afferma la Cassazione – un rapporto di continenza: pertanto, la contestazione della prima lascia un ampio margine per la qualificazione giuridica del fatto, in sede di decisione, come corruzione ex art. 318 cp.

La riqualificazione, inoltre, non è stata ritenuta incompatibile con i principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Drassich c. Italia[17]. Al proposito, si è valorizzato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui non si ha alcuna violazione convenzionale qualora la nuova definizione del reato appaia uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o comunque quando l’imputato o il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire sul punto[18].

In questo quadro, vi è da chiedersi se la riqualificazione possa essere operata anche in senso inverso, ossia dall’art. 318 all’art. 319 cp.

È stata già menzionata l’ordinanza con la quale il giudice delle indagini preliminari di Milano (nel procedimento nei confronti di un chirurgo ortopedico, di un ospedale pubblico che dietro compenso avrebbe favorito l’acquisto di protesi da parte di determinate società produttrici) ha riqualificato in corruzione propria fatti che erano stati contestati come corruzione propria.

A sostegno della legittimità della riqualificazione – anche al di fuori del procedimento cautelare – si può richiamare l’iter argomentativo recentemente sviluppato dalla Cassazione rispetto ai rapporti tra induzione indebita a dare o promettere utilità e concussione[19].

Questi i fatti di causa: esercitata l’azione penale per il delitto di concussione per induzione ex art. 317 cp ante legge Severino, l’imputato veniva assolto in appello, in riforma della condanna di primo grado; la sentenza della Corte territoriale veniva successivamente annullata con rinvio dalla Cassazione. Il giudice del rinvio, nel mutato quadro normativo a seguito della riforma del 2012, condannava per concussione, e non per il reato di cui all’art. 319 quater cp, sulla base della ritenuta natura costrittiva della condotta ascritta all’imputato.

La Cassazione ha confermato la sentenza del giudice del rinvio ritenendo che nella operata riqualificazione: a) non vi fosse, una strutturale modifica del contenuto dell’incolpazione; b) non vi fosse incompatibilità con il dictum della Corte europea dei diritti dell’uomo, stante la prevedibilità dell’esito decisorio. I giudici della Cassazione hanno altresì stabilito che la riqualificazione non viola né il diritto di difesa dell’imputato, quando quest’ultimo abbia la possibilità di dolersene in sede di legittimità, né il principio fissato dall’art. 597, comma 3 cpp: il divieto di reformatio in peius, infatti, fa salva la possibilità del giudice di appello di dare al fatto una definizione giuridica più grave.

5. Fenomeni corruttivi e onere di rinnovazione dell’istruttoria in appello

Le difficoltà di qualificazione finora evidenziate suggerirebbero di abbandonare la distinzione tra corruzione propria ed impropria. Si potrebbe piuttosto configurare una fattispecie unitaria di corruzione, con un edittale da rideterminare, tenendo conto che non è l’entità della pena a creare deterrenza, quanto l’effettività nell’applicazione della norma. Tale fattispecie unitaria potrebbe, inoltre, assorbire le ulteriori ipotesi autonome di corruzione, quali la corruzione in atti giudiziari e la corruzione internazionale: al riguardo, anziché a fattispecie autonome di reato, si potrebbe pensare alla previsione di corrispondenti circostanze aggravanti.

Una razionalizzazione del quadro normativo in materia potrebbe anche ridurre il fenomeno – non infrequente nel settore dei reati contro la pubblica amministrazione – del ribaltamento in appello della sentenza di primo grado. Un ribaltamento che, qualora si traduca in una condanna, pone oggi delicati problemi, nel caso in cui il giudice di seconde cure non abbia disposto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

Il tema si è proposto nella sua gravità nel caso Finmeccanica.

La Corte di cassazione ha infatti annullato la sentenza d’appello, poiché quest’ultima, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, era pervenuta ad un giudizio di condanna senza la rinnovazione dell’istruttoria.

La Corte di cassazione si è uniformata ai principi enunciati dalle Sezioni unite Dasgupta[20].

Le Sezioni unite hanno sancito che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può condannare, senza avere proceduto, anche d’ufficio (art. 603, comma 3, cpp) a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso la riassunzione delle prove dichiarative ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado. L’omessa rinnovazione delle prove è sindacabile in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio al di là di ogni ragionevole dubbio di cui all’art. 533, comma 1 cpp[21].

La soluzione adottata dalle Sezioni unite suscita preoccupazione: ancorché l’obbligo di rinnovazione interessi le sole prove decisive[22], non è da escludere che, per evitare censure in sede di legittimità, i giudici d’appello dispongano automaticamente la riapertura dell’istruttoria. Da ciò deriverebbe una sistematica dilatazione dei tempi del giudizio d’appello, con inevitabili riflessi anche in tema di prescrizione del reato. Il rischio, in definitiva, è quello di ottenere l’effetto che si voleva attraverso l’introduzione dell’inappellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento (l. 20 febbraio 2006, n. 46), dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza 6 febbraio 2007, n. 26[23].



[1] Cass., sez. VI, sent. 3 febbraio 2016, n. 6677, rv. 267187; Cass., sez. VI, sent. 4 febbraio 2014, n. 23354, rv. 260533.

[2] Vds. fra le tante Cass., sez. VI, sent. 21 marzo 2003, n. 11417, rv. 224050.

[3] Per i manager pubblici, all’evanescenza della nozione di atto contrario si accompagna una crescente diversificazione e dematerializzazione delle forme di utilità date o promesse. In un recente caso giudiziario, che vedeva imputato davanti al Tribunale di Milano l’ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde Spa le utilità contestate consistevano nel concreto interessamento di alcuni esponenti politici per una favorevole ricollocazione professionale dell’amministratore in altro ente pubblico.

[4] Per tacere delle difficoltà nel verificare la sussistenza, in capo al soggetto straniero corrotto, della qualifica di pubblico ufficiale ex art. 322 bis cp: sul punto, V. Mongillo, La repressione della corruzione internazionale: costanti criminologiche e questioni applicative, in Dir. pen. proc., 2016, pp. 1236-1237.

[5] V. Mongillo, Corruzione internazionale e mercimonio di un atto conforme ai doveri d’ufficio, in Dir. pen. proc., 2016, pp. 1623 ss.

[7] In questo senso vds. Cass., sez. VI, sent. 25 settembre 2014, n. 49226, rv. 261352.

[8] M. Catenacci, I delitti di corruzione, in Reati contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, in Trattato teorico – pratico di diritto penale, a cura di F. Palazzo e C. E. Paliero, Torino, 2011, pp. 95 ss.

[9] In questo senso, C. Benussi, sub art. 318 c.p., in Codice penale commentato, diretto da E. Dolcini e G. L. Gatta, Milano, 2015, p. 220.

[10] Cass., sez. VI, sent. 11 febbraio 2016, n. 8211, rv. 266510; Cass., sez. VI, sent. 23 febbraio 2016, n. 15959, rv. 266735; Cass., sez. VI, sent. 25 settembre 2014, n. 47271, rv. 260732.

[11] Cass., sez. feriale, sent. 13 agosto 2012, n. 32779, rv. 253487.

[12] Cass., sez. VI, sent. 14 maggio 2009, n. 30762, rv. 244530.

[13] Cass., sez. II, sent. 27 ottobre 2015, n. 46096; Cass., sez. VI, 2 aprile 2015, n. 27816; Cass., sez. VI, sent. 24 giugno 2014, n. 37373.

[14] Cass., sez. VI, sent. 27 giugno 2013, n. 29789, Rv. 255618.

[15] In questo senso F. Cingari, Sul traffico di influenze illecite, in Dir. pen. proc., p. 483, 2015; F. Prete, Prime riflessioni sul reato di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.), in Dir. Pen. Cont., 20 dicembre 2012, pp. 6-7.

[16] C. Benussi, sub art. 346 bis c.p., in Codice penale commentato, cit., p. 876.

[17] Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia. Come noto, i giudici di Strasburgo hanno ravvisato una violazione dell’art. 6 parr. 1 e 3 lett. a) e b) Cedu, in un caso in cui la Cassazione aveva operato una riqualificazione dall’art. 319 all’art. 319 ter cp. La riqualificazione, imprevedibilmente avvenuta in sede di legittimità, avrebbe infatti leso il diritto dell’imputato di essere informato in tempo della natura e dei motivi dell’accusa e, conseguentemente, del diritto a godere delle condizioni necessarie a preparare la difesa.

[18] Cass., sez. un., 26 maggio 2015, n. 31617, Lucci; Cass., sez. V, 7 ottobre 2014, n. 4169; Cass., sez. V, 6 maggio 2014, n. 48677.

[19] Cass., sez. II, 9 ottobre 2014, n. 46401.

[20] Cass., sez. un., 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta.

[21] L’assunto è stato di recente ribadito dalle Sezioni unite: in particolare, sulla scia di un obiter dictum della sentenza Dasgupta, il supremo collegio ha esteso l’obbligo di rinnovazione al giudizio abbreviato d’appello, nonostante la fisiologia del rito speciale non contempli in primo grado l’assunzione in contraddittorio della prova (Cass., sez. un., 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano). La pronuncia non ha dunque avallato le considerazioni dell’Avvocato generale della Corte di cassazione, secondo cui la rinuncia al contraddittorio in primo grado osta ad una estensione al giudizio abbreviato d’appello dei principi esposti dalle Sezioni unite Dasgupta.

[22] Secondo le Sezioni unite Dasgupta, sono decisive le prove che hanno contribuito all’esito assolutorio in primo grado e che, se espunte dal compendio probatorio, sono in grado di incidere sull’alternativa tra proscioglimento e condanna; nonché le prove ritenute di scarso o nullo valore dal giudice di primo grado, e che siano invece rilevanti per l’appellante ai fini della condanna.

[23] La legge Pecorella si fondava tra l’altro sull’assunto secondo cui non sarebbe ammissibile che una decisione di proscioglimento, emessa da un giudice avente un rapporto diretto con le prove, possa essere ribaltata dal giudice d’appello, che con le stesse prove ha un rapporto solo mediato. La Corte, per quanto in un obiter dictum, non ha condiviso il ragionamento: si è infatti evidenziato che «l’ipotizzata distonia del sistema – ove effettivamente riscontrabile – sussisterebbe anche in rapporto alle sentenze di condanna, per le quali il pubblico ministero mantiene il potere di appello, avuto riguardo alla possibile modifica in peius della decisione da parte del giudice di secondo grado come conseguenza di divergenti valutazioni di fatto (le quali portino, ad esempio, al mutamento del titolo del reato o al riconoscimento di una circostanza aggravante)».

22/06/2017
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