In ordine alle questioni rappresentate nei precedenti paragrafi, va subito posto un interrogativo ineludibile. Quali sono gli obbiettivi di fondo che dovrebbero ispirare l’attività di prevenzione antimafia negli scenari economico-sociali che si prefigurano? Non basta limitarsi ad affermare un generico scopo di “contrasto” all’influenza criminale sulle imprese, in relazione al quale disponiamo di norme penali e processuali ad hoc e di strutture investigative “dedicate”.
La frontiera principale dovrebbe essere quella che porta a incentivare la trasparenza, i controlli e la responsabilità, nel tentativo di aiutare le imprese sì condizionabili da manovre mafiose, ma ancora in grado di assicurare occupazione e produttività. Tale auspicio è stato, di recente, formulato con dovizia di argomentazioni anche dal magistrato Giuseppe Pignatone, sino a qualche mese fa procuratore della Repubblica nella capitale[1].
E in realtà dallo stesso codice antimafia si desumono linee di intervento diversificate che, dopo l’ultima riforma del 2017, esibiscono con più chiarezza due priorità: “tempestività” e “terapeuticità”.
Da un lato, la tempestività è assicurata dalla prevenzione amministrativa. In particolare, i provvedimenti interdittivi emessi dalle autorità prefettizie sono in grado di impedire alle imprese insidiate da pericoli di infiltrazione mafiosa di intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione (artt. 84 ss, codice antimafia).
Dall’altro, la terapeuticità è garantita dalla prevenzione giurisdizionale con l’amministrazione e il controllo giudiziario (artt. 34 e 34-bis codice antimafia), applicate dal tribunale delle misure di prevenzione ove sussistano sufficienti indizi per ritenere che un’attività economica sia condizionata da interessi mafiosi o li agevoli. Si tratta di misure “a sostegno” delle imprese, in quanto appunto finalizzate alla loro “bonifica”.
Anche in questo particolare frangente, dunque, il sistema di prevenzione sarebbe in grado di funzionare a doppio regime: un primo, più rapido e sommario, messo in moto dai prefetti che rilevano, e per dir così “isolano”, il contagio mafioso; il secondo, affidato alla magistratura ordinaria, più articolato e finalizzato a “curare e guarire” le imprese coinvolte. Tanto che questi due pilastri della prevenzione antimafia, l’uno amministrativo l’altro giurisdizionale, lungi dal costituire mondi non comunicanti tra loro, risultano piuttosto collegati da due ponti principali, che dovrebbero favorirne una funzionalità integrata.
Per un verso, infatti, i prefetti hanno l’obbligo di comunicare alla magistratura requirente i loro provvedimenti interdittivi (art. 91, comma 7-bis) in modo da consentire l’eventuale adozione di adeguate misure patrimoniali nei confronti delle aziende interessate, tra cui appunto quelle diverse dalla confisca, ossia amministrazione o controllo giudiziario. Si badi, la misura interdittiva è emessa, di regola, inaudita altera parte e sulla scorta di un plafond probatorio alquanto affievolito, comunque imperniato su prognosi di pericolo ispirate al “più probabile che non”. Da tale punto di vista, si tratta indubbiamente di un istituto fortemente sbilanciato a favore della tutela dell’ordine pubblico a scapito del diritto alla libertà d’impresa e per questa ragione non certo immune da profili di incostituzionalità, vista la robusta estensione applicativa connessa anche a recenti modifiche legislative[2]. L’entrata in gioco della giurisdizione ordinaria, invece, dovrebbe comportare un maggiore approfondimento probatorio, certamente agganciato a verifiche più rigorose, da compiersi nel contradditorio tra le parti sugli elementi di fatto da cui desumere i sufficienti indizi di condizionamento o agevolazione mafiosi nei riguardi dell’impresa. Ma, soprattutto, l’eventuale applicazione delle misure giurisdizionali garantisce la prosecuzione dell’attività aziendale e una prospettiva di recupero e protezione dei valori imprenditoriali dal condizionamento mafioso.
Per altro verso, la stessa azienda colpita da un’interdittiva antimafia può chiedere al tribunale delle misure di prevenzione l’applicazione “volontaria” del controllo giudiziario (art. 34-bis, comma 6). L’eventuale accoglimento della domanda privata, oltre al varo di un programma prescrizionale volto a rimuovere “terapeuticamente” le condizioni di vulnerabilità emerse, determina la sospensione degli effetti interdittivi del provvedimento prefettizio. Anche in questi casi, ma grazie all’iniziativa della stessa impresa, la giurisdizione è chiamata a svolgere un compito di salvataggio e recupero dell’azienda in qualche modo incappata in forme di contiguità criminale[3].
Nelle prime applicazioni, i tribunali hanno oscillato non poco nell’individuare i presupposti per l’accoglimento della domanda privata, troppo spesso optando per un approccio restrittivo o quantomeno diffidente. Anche se di recente le sezioni unite della Corte di cassazione hanno bene messo in luce la ratio dell’istituto, affermando che esso punta «al recupero della realtà aziendale alla libera concorrenza a seguito di un percorso emendativo», sicché nel valutare se accogliere la domanda privata i giudici devono affiancare alla diagnosi sullo «stato di condizionamento e infiltrazione» nel caso di specie, una prognosi sulle «concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano»[4].
È auspicabile che gli operatori (sia sul versante amministrativo sia su quello giudiziario e degli stessi enti imprenditoriali) abbiano chiara una visione d’insieme di tali strumenti di intervento e delle loro finalità. A maggior ragione nei contesti di crisi socio-economica che si vanno delineando, per il cui superamento sarà decisiva la ripresa produttiva del sistema delle imprese, anche al riparo dalle mire espansionistiche della criminalità mafiosa.
Il doppio regime della prevenzione antimafia – che individua “tempestivamente” la minaccia criminale e al contempo sostiene “terapeuticamente” le imprese colpite a liberarsene – ha bisogno certamente di guadagnarsi ancora il dovuto spazio nella cultura diffusa della prassi: un conto, infatti, sono le norme che lo disciplinano, altro è lo spirito che anima gli attori pubblici e privati.
[1] G. Pignatone, Così l’Italia del dopo coronavirus potrà salvare le aziende a rischio infiltrazioni mafiose, in La Stampa, 17 aprile 2020, www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2020/04/17/news/cosi-l-italia-del-dopo-coronavirus-potra-salvare-le-aziende-a-rischio-infiltrazioni-mafiose-1.38726432.
[2] Per una disamina critica, vds. i contributi raccolti in G. Amarelli e S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all’infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Giappichelli, Torino, 2019; di recente, tuttavia, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 57 del 2020, non ha accolto ben motivati profili di incostituzionalità.
[3] Sull’istituto vds. C. Visconti, Il controllo giudiziario “volontario”: una moderna “messa alla prova” aziendale per una tutela recuperatoria contro le infiltrazioni mafiose, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019, https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/9978-visconti2019a.pdf.
[4] Cass., sez. unite, 26 settembre 2019, in Sistema penale, 28 novembre 2019, e ivi il commento di D. Albanese, Le Sezioni unite ridisegnano il volto del controllo giudiziario “volontario” (art. 34-bis, co. 6, d.lgs. 159/2011) e ne disciplinano i mezzi di impugnazione, www.sistemapenale.it/it/scheda/sezioni-unite-mezzi-impugnazione-controllo-giudiziario-volontario-34-bis-antimafia.
Anticipiamo qui il presente scritto di Costantino Visconti destinato al prossimo numero di Questione Giustizia trimestrale dedicato al diritto dell'emergenza